«Alla fatica e alla gioia di prendersi cura»
Intervista allo scrittore Andrea Dei Castaldi
Nell’ottobre dello scorso anno, Patrizia Berger, presidentessa dell’Associazione Autismo della Svizzera Italiana, mi chiese di organizzare, per la giornata dei famigliari curanti, un evento con protagonista la «letteratura che parla di cura». Decisi d’invitare a Lugano, per quell’occasione, lo scrittore Andrea Dei Castaldi, il cui racconto «Pelle» – contenuto all’interno di «Solo», un libro che narra la solitudine in cui vivono e crescono le persone autistiche – mi colpì moltissimo. Con Andrea nacque una bella amicizia e, proprio da quell’amicizia, nasce questa intervista.
Ringrazio la casa editrice di Solo, Barta, per aver concesso ai nostri lettori la versione integrale di Pelle.
30 Gennaio 2023 – Intervista, Arte, NarrazioniTempo di lettura: 17 minuti
30 Gennaio 2023
Intervista, Arte, Narrazioni
Tempo di lettura: 17 minuti
Andrea, il tuo Pelle insieme a un altro racconto di Fabio Stassi, ad altri testi di natura saggistica scritti dalla neuropsichiatra infantile Raffaella Tancredi e ad alcune testimonianze, si trova all’interno di Solo, un libro che parla di autismo.
Cosa ti ha portato a scrivere su questo tema?
È stato il caso, o, se vogliamo, la fortuna a fornirmi questa occasione, dato che l’enorme difficoltà di confrontarmi con una materia tanto complessa ha poi portato con sé una soddisfazione altrettanto grande. L’idea dell’editore è stata quella di inaugurare la nuova collana «S/confini» proprio con un volume dedicato al tema dell’autismo, e ho subito capito, quando mi fu proposto di scrivere un racconto di almeno quindici cartelle su questa tematica, che si trattava di una sfida difficilissima se non impossibile, soprattutto per me che ne ero quasi completamente digiuno. Forse è stata proprio questa consapevolezza a farmi accettare la proposta, e, con il senno di poi, è stata la scelta migliore che potessi fare: scrivere «Pelle» è stato fondamentale per il mio percorso di autore, ha cambiato non soltanto il mio approccio alla ricerca e alla scrittura, ma per molti versi anche il modo in cui guardo il mondo, le persone, la realtà – o le realtà – intorno a me.
Quando ci incontrammo la prima volta mi parlasti di questo tuo essere «quasi completamente digiuno». Nella vita tu non hai mai lavorato in ambito socio-sanitario. Da quando mi interesso di «letteratura e malattia», una delle cose che mi ha sempre incuriosito moltissimo è come sia possibile che uno scrittore o una scrittrice – senza aver avuto mai un’esperienza diretta con i pazienti – siano in grado di trasmettere, non solo gli aspetti più concreti della cura, ma anche e soprattutto le emozioni dei curanti. Ci spieghi come ci sei riuscito tu?
Da una parte la questione riguarda uno dei tanti «superpoteri» della letteratura: se leggiamo Dostoevskij possiamo sapere e condividere i sentimenti e i pensieri di un assassino braccato dai sensi di colpa, se leggiamo Flaubert possiamo sentire e vivere il romantico mondo interiore di una donna dalla grande forza immaginifica, e così via. Possiamo quindi vivere molte vite differenti ed esercitarci a indossare i panni altrui con sempre maggiore disinvoltura, e io, prima di provare a essere scrittore, sono sempre stato e sono tuttora un lettore vorace e curioso. Dall’altra, però, sono convinto che un autore debba scrivere quasi esclusivamente di ciò che conosce di prima mano, che debba pescare dalla propria esperienza diretta pur permettendosi poi di trasfigurarla e di reinventarla, individuandone gli archetipi per renderla universalmente condivisibile. Questa lunga premessa per dire che le strade che ho seguito sono state fondamentalmente proprio queste due. Nei pochi mesi che avevo a disposizione per scrivere il racconto ho letto parecchia letteratura sul tema dell’autismo, molti più saggi che narrativa, a dire il vero, con un senso crescente di disorientamento, rendendomi subito conto che sarebbe stato impossibile per me riuscire a maneggiare una materia tanto complessa e imprendibile in così poco tempo. Questa convinzione si è rafforzata quando ho scelto di incontrare alcuni operatori – nello specifico un neuropsichiatra infantile, una psicologa logopedista, un ex obiettore di coscienza che ha affiancato un giovane autistico durante i dieci mesi del suo servizio civile –, persone che, come immaginavo, hanno potuto fornirmi un punto di vista privilegiato sull’oggetto della mia ricerca.
Perché è la prima domanda che uno scrittore, a mio avviso, si deve porre quando decide di scrivere qualcosa: da dove sto osservando? E io avevo già capito allora che avrei dovuto porre una giusta distanza tra me – il narratore – e la materia della narrazione.
Ho così deciso che proprio questa distanza sarebbe stata il tema del racconto, la percezione o, a volte, l’illusione di essa, e la labilità di concetti apparentemente inscalfibili, come ad esempio quello di normalità.
Ora vorrei parlare un po’ di Pelle, stando chiaramente attenti, come si dice, a non «spoilerare». Prima di preparare l’intervista l’ho riletto – penso sia la terza-quarta volta ormai che lo faccio – e ci sono almeno due cose di cui vorrei chiederti ragione. La prima è: era facile aspettarsi, dovendo parlare di autismo, un protagonista o una protagonista autistici. Tuttavia, tu hai scelto di utilizzare un’altra prospettiva. Posso chiederti se ci dici qualcosa di Rita e del perché sia lei la protagonista?
Rita è nata dalla mia necessità di trovare proprio quella giusta distanza di cui dicevo poco fa, e mentre la sua figura prendeva forma – prima nei miei pensieri e poi nelle prime pagine del racconto – mi sono reso conto che avrebbe dovuto essere anche la sola in grado di superare quella stessa distanza, di demolirne l’illusione. Mi spiego: Rita ci si presenta come una persona che sembra non essere in grado di comprendere il mondo misterioso ed esclusivo di Alessandro, il ragazzino autistico che vede ogni giorno – pur senza averci davvero a che fare – nelle stanze del centro diurno in cui si svolge il racconto, eppure ne è molto affascinata, direi inesorabilmente attratta, forse perché inconsciamente sente di condividere con lui molto più di quanto sia pronta ad ammettere, soprattutto la fatica, la difficoltà se non l’incapacità di esprimere ciò che ha dentro. In questo senso Rita diventa uno specchio perfetto per il lettore, perché credo che questa sua fatica sia qualcosa che tutti noi abbiamo provato e possiamo provare quotidianamente, ma allo stesso modo si impone come una figura dalla forza dirompente, pur nella sua fragilità – o forse proprio in virtù di essa –, in grado di scardinare certezze e di capovolgere la nostra visione nella realtà.
La seconda cosa che vorrei sapere è questa: la Fondazione Sasso Corbaro, da anni, dedica convegni, pubblicazioni e formazioni al «prendersi cura dei curanti». Credo che il tuo racconto metta in luce, tra le altre cose, l’importanza di guardare a coloro i quali si occupano di curare, alle loro forti esperienze emotive. Come mai hai voluto trattare questo argomento, spesso purtroppo trascurato?
Credo che questa scelta sia figlia di un’altra precedente, quella di prepararmi raccogliendo le testimonianze dirette – come dicevo prima – di persone che lavorano o lavoravano in questo ambito. Tutte queste figure in un modo o nell’altro sono poi entrate a far parte di «Pelle», diventandone personaggi chiave, una volta messo in atto il meccanismo di trasfigurazione di cui si parlava. In particolare, sono rimasto molto colpito dai racconti del giovane obiettore di coscienza catapultato in un contesto difficilissimo – il «famigerato» centro diurno in cui si svolgono i fatti narrati – senza la minima preparazione, e questa sua visione esterrefatta su di un mondo quasi incomprensibile, e a tratti spaventoso, è qualcosa che a suo tempo ha lavorato parecchio dentro di me, qualcosa che ho lasciato decantare e che ho cercato poi di restituire nella sua immediatezza. E dici bene, questo tipo di esperienze emotive, la loro forza e la loro unicità, diventano un’occasione formidabile per un narratore che non ha paura di farle proprie.
A questo punto mi preme chiederti se questa esperienza dello «scrivere di malattia» resta una parentesi nella tua carriera o se in futuro hai intenzione di ritornare a parlare di questi temi?
È sempre difficile per me sapere in anticipo di cosa andrò a scrivere, il mio metodo, se così si può definire, è prendere le mosse da un’idea forte ma molto semplice, qualcosa che può essere raccontato in cinque o sei parole, per poi procedere un po’ alla cieca, lasciandomi la libertà di potermi stupire nel farsi della storia che mi trovo a raccontare.
Ma è altrettanto vero che il binomio «malattia/cura» mi si mostra ora – in modo particolare dopo aver scritto Pelle – come un elemento narrativo dalle enormi potenzialità e dalla grande carica emotiva.
Credo che in qualche modo sia alla base anche del romanzo che sto scrivendo in questi ultimi mesi, anche se in maniera non così esplicita, più come una nota di fondo, e che sia stato, in maniera più o meno consapevole, una sorta di scintilla che ha messo in moto questa nuova occasione narrativa.
Andrea, mi dici che cos’è per te la scrittura? Quando hai iniziato a scrivere, perché e quando hai pensato di voler pubblicare i tuoi testi?
Alla scrittura sono arrivato piuttosto tardi, solamente dopo l’università ho sentito che doveva essere il mio mezzo espressivo principale, quello su cui investire le mie energie e attraverso il quale veicolare tutte le mie tensioni creative. Ho scoperto col tempo che scrivere fa anche molto bene alla salute, per lo meno la mia, i periodi in cui sto scrivendo qualcosa di nuovo sono quelli in cui mi sento meglio, vitale. La necessità di essere letti, poi, credo sia insita nell’atto stesso della scrittura, nessuno scriverebbe nulla se non pensasse di avere almeno un interlocutore, un destinatario della propria espressione, anche uno soltanto. Ma sono molto critico con me stesso, e prima di sentirmi all’altezza di proporre a qualche editore i frutti del mio lavoro ne è passato parecchio, di tempo. E altrettanto ne è passato prima che un editore si interessasse a ciò che scrivevo.
Io so che oltre a essere uno scrittore hai anche un altro lavoro. Come si concilia la scrittura con la tua vita? Quando scrivi? Ed è più un impulso del tipo «mi è venuta un’idea, adesso devo buttarla giù!» o ti programmi determinati periodi o ore della giornata da dedicare a questa attività?
Non sono disciplinato quanto vorrei. In passato, in alcuni brevi periodi, sono riuscito a rispettare una sorta di routine che mi permettesse di avere una giornata intera alla settimana da dedicare solamente alla scrittura. Ora come ora la mia attività di scrittore procede a vampate e in maniera piuttosto discontinua. Ci sono momenti in cui vengo colto da intuizioni o da vere e proprie rivelazioni, ed è il motivo per cui tengo sempre con me un taccuino su cui appuntarle, in qualsiasi luogo mi trovi. Il momento della scrittura vera e propria verrà poi e necessita di solitudine, silenzio e lentezza, qualcosa di molto difficile da trovare al giorno d’oggi. Ma non impossibile.
Voglio concludere portandoti a fare una riflessione sulla letteratura. Io, come tu sai e come questa intervista dimostra, mi ostino a credere all’importanza di questa forma artistica nella nostra società – tanto da portarla, come faccio alla Fondazione, all’interno di mondi, apparentemente distantissimi, come quello della cura.
Cosa significa per te fare letteratura nel 2023? E – se pensi l’abbia! – che ruolo può avere oggi e nel futuro?
Da quando esiste l’uomo esiste la letteratura, e scrivere un romanzo non è affatto diverso dal sedersi attorno a un fuoco e raccontare una storia, dal tentare di offrire a ognuno la possibilità di ritrovare quel fuoco e quella storia.
E leggere letteratura è quanto di più lontano ci sia dall’intrattenimento, dal passatempo fine a sé stesso, mentre si tratta di uno strumento fondamentale per comprendere la realtà, per imparare a vivere.
È il ruolo del mito al tempo dei nostri antenati – o sarebbe meglio dire in qualsiasi tempo –, delle fiabe per i più piccini, dei romanzi e dei racconti quando si è più grandi. Potranno senz’altro cambiare le modalità con cui la letteratura viene veicolata, gli strumenti e i codici utilizzati, ma questa nostra necessità di inventare mondi, di dare forma ai sogni, con lo scopo di vivere innumerevoli vite, di abbracciare il tutto, è qualcosa che non ci abbandonerà mai.
Leggi la versione integrale di "Pelle" di Andrea Dei Castal
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Una risposta a “«Alla fatica e alla gioia di prendersi cura»”
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La ringrazio molto. È stata una di quelle epifanie letterarie che, partendo dalla parola – in questo caso il libro “Solo” e in particolare il racconto “Pelle” in esso contenuto -, mi ha portato a conoscere persone in grado di raccontare di malattia (ma forse sarebbe meglio dire “di raccontare di umano”?!) utilizzando l’arte della scrittura. E per questo, mi sento “più ricco”.
Onorato di poter condividere quanto mi è successo con i lettori dei “Sentieri”.
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