…and you’re not alone
Una lezione di etica
9 Dicembre 2024 – EOC, Casi clinici, Etica, MorteTempo di lettura: 9 minuti
9 Dicembre 2024
EOC, Casi clinici, Etica, Morte
Tempo di lettura: 9 minuti
È una mattina grigia di fine ottobre, di quelle che preannunciano l’arrivo di una lunga sequenza di giorni di pioggia. Come ogni terzo mercoledì del mese, entro in aula a passo lento. La lezione di oggi dura 45 minuti, e il tema centrale ruota intorno alle questioni etiche legate al DNR, il “Do Not Resuscitate”. Una sigla breve, scarna, che porta con sé un peso immenso: quello di scelte, imposizioni, conversazioni difficili avvenute, o – più spesso – mancate.
La classe è più piena del solito. Sono le 8:30, gli studenti sono ancora impastati di sonno, sgranati dal letto troppo presto. Mi guardano come se sperassero di non dover affrontare una lezione frontale, di quelle che cullano con il ritmo cadenzato delle parole. Oggi no. Oggi hanno bisogno di scuotersi.
Cominciamo subito.
Il primo caso: un uomo giovane, sano fino al giorno prima, arriva in pronto soccorso con il respiro affannato.
Non ha un DNR, ma prima di essere trasferito in terapia intensiva ti afferra con gli occhi e ti sussurra: «Se dovessi avere un arresto cardiaco, non voglio essere rianimato. Non potrei sopportare nemmeno la minima possibilità di avere danni cerebrali».
Gli studenti si accendono. Qualcuno insiste: «No, bisogna salvarlo. È giovane, non capisce cosa sta chiedendo!». Altri invece sussurrano: «È la sua volontà. Non siamo qui per imporre, ma per rispettare». Si dividono, si guardano, si scontrano. Le opinioni si intrecciano in un crescendo di ragionamenti. C’è chi vacilla, chi rivede la propria posizione alla luce di un’idea diversa, e chi invece si arrocca ancora più saldamente nelle sue convinzioni.
Poi, il secondo caso. Un uomo di 89 anni, affetto da diverse patologie e con un deficit cognitivo, entra in ospedale con lo stesso problema respiratorio del primo.
Ma il suo desiderio è un altro: «Faccia di tutto, la prego. Se dovessi avere un arresto cardiaco, voglio essere rianimato a ogni costo. Voglio esserci quando nascerà mio nipote. Anche una sola possibilità, la prenda. Non mi importa il costo, faccia tutto il possibile».
La classe esplode di nuovo, ma stavolta le voci sono diverse, più dense di emozioni. Da una parte l’ostinazione del giovane che rifiuta una vita potenzialmente diversa, dall’altra la determinazione di un uomo anziano che si aggrappa a un istante futuro. Le parole si fanno forti, i toni più vivi. Qualcuno alza la mano, altri parlano senza aspettare.
Mi ritiro metaforicamente un passo indietro, e lascio che le loro voci riempiano la stanza. L’aria si riempie di consapevolezza sulla difficoltà di scegliere. Il secondo caso ha scoperchiato le difficoltà nascoste del primo, come uno specchio che obbliga ciascuno a confrontarsi con le proprie convinzioni, a metterle in fila, a chiedersi se reggano davvero. È un momento di resa dei conti, personale e collettiva.
Ogni voce che si alza non fa che aggiungere nuovi strati di complessità. «E la figlia che sta per partorire? Non ha forse un interesse morale di cui dobbiamo tenere conto?» domanda qualcuno. «E le risorse limitate? Non possiamo ignorarle», incalza un altro. Una terza ribatte: «Ma non dobbiamo assecondare i desideri dei nostri pazienti, costi quel che costi?». Qualcuno domanda: «Ma sta davvero a noi giudicare al di là delle nostre competenze cliniche? Il nostro ruolo è offrire raccomandazioni mediche sulla base delle evidenze». Una voce si fa spazio, quasi immediatamente: «Sì, dobbiamo conoscere le loro ragioni. Non possiamo ignorarle».
Il dibattito rallenta, ma non per mancanza di argomenti. È come se un’improvvisa consapevolezza avesse fatto il suo ingresso in aula, sfiancandoli. La complessità li avvolge e li costringe a guardare in faccia il paradosso di ogni decisione. Gli occhi si abbassano, le spalle si incurvano. Qualcuno si lascia andare a un gesto di resa, un’alzata di spalle, come a dire: «Non c’è una risposta». Un altro scuote la testa, incredulo, come se non si aspettasse che sarebbe stato così complesso. Poi, all’improvviso, una voce dal primo banco rompe quel silenzio di arresa.
«…and you’re not alone».
È una voce timida, appena un sussurro, ma è come un filo di luce che si fa spazio tra le ombre. Le cinque parole si posano sulla classe con delicatezza, come un invito, non una certezza. E non sarete soli. Ma è un “e non sarete soli” che lascia spazio al dubbio, alla possibilità che quella promessa non si realizzi, a meno che non siano loro stessi a volerlo davvero.
Gli studenti si guardano, qualcuno accenna un lieve sorriso, un altro sospira come se avesse trovato un po’ di sollievo. Io li osservo, grata per quel momento, consapevole che quelle parole non sono una conclusione, ma un inizio. Un invito alla coesione, alla responsabilità condivisa, alla collaborazione e al sostegno reciproco. Un promemoria che la squadra può fare la differenza, ma solo se ognuno decide di esserci davvero l’uno per l’altro. E in aula, almeno per un attimo, il peso della discussione degli ultimi 45 minuti si fa più leggero.
Nota dell’autrice
Ho scritto questo testo in italiano perché mi dà accesso a più vocaboli per raccontare la mia esperienza. Tuttavia, la vicenda è avvenuta in inglese (lingua nella quale tengo le mie lezioni all’interno del Master). Da qui il titolo, che è il cuore della storia, mantenuto nella sua lingua originale.
Marta Fadda
Commento di Matta Lepori
In quel capolavoro cinematografico di Charlie Chaplin che è Il grande dittatore vi è una scena nella quale viene impartito un ordine da parte del comandante volto a far eseguire una mansione molto rischiosa: il controllo di un proiettile inesploso. Ognuno dei presenti, quando ha ricevuto questo ordine, si gira alla sua destra e lo trasmette al milite seguente fino a quando si arriva al protagonista (Chaplin appunto) il quale dopo aver girato lo sguardo sulla sua destra si accorge che non c’è più nessuno e quindi l’esecuzione della mansione pericolosa spetta a lui.
Molte volte ho pensato a questa scena durante i miei anni di pratica clinica quando mi sono trovato, magari la notte, a dover assumere da solo la responsabilità e il peso di una decisione clinica difficile. Il racconto di Marta Fadda mi ha fatto ri-evocare questi momenti e quindi questa scena cinematografica. Negli anni la medicina ospedaliera si è evoluta molto e la possibilità di contare su “una squadra” è sempre più presente e in caso di dubbio la possibilità di far ricorso a una struttura di supporto etico può a volte aiutarci. Tutto ciò non toglie che il nostro mestiere è e rimarrà sempre basato, oltre che sulla competenza, anche sulla capacità di assumersi delle responsabilità: e questo anche nell’era dell’intelligenza artificiale.
Mattia Lepori
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