“Avrai sempre la mia voce”

Intervista all’interprete medica Linda De Luca 

All’inizio dell’anno, leggendo l’inserto culturale di un quotidiano italiano, mi sono imbattuto in un breve articolo che annunciava la pubblicazione, da lì a poche settimane, di un libro sulla professione di interprete medico. L’autrice, Linda De Luca, ha lavorato come interprete medica negli Stati Uniti e nel suo libro racconta questa sua esperienza. Curioso di scoprire qualcosa in più su una professione di cui conoscevo a malapena l’esistenza, ho acquistato il libro, Avrai sempre la mia voce. Non appena l’ho terminato, ho subito pensato che Linda – nel frattempo ci siamo conosciuti, quindi ci diamo del tu – fosse la persona ideale per un’intervista sui Sentieri. Ora capirete perché: 

Linda, per cominciare, vorrei sapere qualcosa in più su questa professione piuttosto particolare. Non è molto comune sentir parlare di interpreti in ambito medico. 

In realtà è stata quasi un’epifania anche per me. Quando mi sono trasferita negli Stati Uniti, avevo già una formazione da interprete e traduttrice in Italia. Mi sono laureata a Varese e ho conseguito un master in traduzione letteraria e tecnico-scientifica. Come molti interpreti e traduttori, ho fatto la gavetta lavorando a numerose fiere a Milano. In questo campo, più ambiti si toccano e più terminologia si acquisisce, meglio è. Sta poi a te capire quale settore preferisci per specializzarti. 

La mia vita personale mi ha portato negli Stati Uniti, un paese verso cui ho sempre avuto un certo interesse. Una volta arrivata, ho cercato di continuare il mio lavoro di traduttrice e interprete. È stato un po’ casuale quando, durante la ricerca di lavoro, mi sono imbattuta in un annuncio per un corso di interpretariato medico. 

Vengo da una famiglia di professionisti sanitari: mio padre, mio fratello e mia sorella sono rispettivamente medico dentista, odontoiatra e dietista. Sono quindi cresciuta con il desiderio di entrare in qualche modo nel mondo della medicina. Quando dovevo scegliere l’università, ero indecisa tra Psicologia e Interpretariato e Traduzione. L’amore per le lingue ha prevalso, ma quando ho trovato questo corso di interpretariato medico a New York, ho capito subito che era la mia strada. 

Ho seguito un corso intensivo che sviluppava la conoscenza della terminologia medica e di anatomia e patologia per costruire un glossario di base, anche se negli anni ho scoperto che ogni visita in ospedale mi insegnava qualcosa di nuovo. Dopo aver superato un esame, sono stata contattata da un’agenzia specializzata nella fornitura di interpreti agli ospedali. Superato il colloquio, sono entrata in questo fantastico mondo dell’interpretariato medico nei principali ospedali di New York, in particolare a Manhattan, alcuni dei quali avevano persino un dipartimento linguistico interno. 

Per me era quasi un paradiso professionale, specialmente amando la medicina e sentendomi a mio agio nei corridoi di un ospedale. Ogni mattina andavo al dipartimento linguistico dove trovavo le cartelle con gli incarichi per tutti gli interpreti, che coprivano moltissime lingue. Avevo colleghi che parlavano russo, georgiano, polacco, greco, coreano, albanese… Questo dava davvero la sensazione che ogni paziente fosse rispettato e assistito adeguatamente. 

Gli ospedali, essendo privati negli Stati Uniti, sembravano hotel a cinque stelle fin dalla hall d’ingresso. Ritiravo i miei incarichi e mi spostavo nei vari reparti, visitando anche diversi ospedali nella stessa mattinata. Ho seguito sedute di fisioterapia, visite di controllo per pazienti oncologici e sono stata in sala operatoria più volte. 

Ho accumulato molte esperienze, emotivamente intense ma anche formative a livello professionale e terminologico. Questa esperienza mi ha poi permesso di insegnare inglese medico e, parallelamente, ho iniziato un’attività di traduzione di serie TV, tra cui Grey’s Anatomy. Insomma, ho sviluppato molto questo tema sia nell’interpretariato orale che nella traduzione scritta. 

Tu adesso continui a fare l’interprete medica? 

Da quando sono rientrata in Italia tre anni fa, purtroppo non lavoro più come interprete medica in presenza, ma continuo a farlo online. Esiste un’app che richiede interpreti quando un paziente dichiara che l’inglese non è la sua prima lingua. 

Anche quando ero negli Stati Uniti, non tutti gli ospedali avevano i fondi necessari per avere un interprete fisicamente presente. In quei casi, utilizzavano dispositivi specifici dove il paziente selezionava la lingua e compariva il volto dell’interprete, oppure usavano quella che chiamavano “language line”, cioè una linea telefonica dedicata. 

L’interpretariato telefonico è certamente più complesso. A volte è disponibile anche il video, altre volte solo l’audio, il che rende più difficile capire il paziente e interpretare correttamente certe parole. 

Come funziona questo servizio nel contesto americano? Quando un paziente accede a una struttura ospedaliera, gli viene chiesta la lingua madre e tutte le strutture offrono questo servizio? 

L’Associazione di Interpreti Medici opera a livello nazionale. Io ho conseguito la specializzazione in interpretariato medico a New York, ma esistono corsi analoghi a Los Angeles, Chicago e in altre città. Questo significa che avrei potuto lavorare come interprete anche in un ospedale di San Francisco, per esempio. 

È chiaro che gli ospedali con maggiori risorse economiche possono permettersi di avere un dipartimento linguistico interno e interpreti che coprono una gamma più ampia di lingue. Da quanto posso vedere anche attraverso il servizio telefonico che svolgo attualmente, moltissimi ospedali in tutto il paese, non solo a New York, utilizzano questo servizio. Recentemente ho ricevuto una chiamata da un ospedale della Florida che aveva una paziente italiana incinta che necessitava di una visita ostetrica. Per quanto ne so, è un sistema ormai normalizzato e diffuso a livello generale, il che è davvero positivo. 

In pratica, tu dai disponibilità comunicando gli orari in cui sei disponibile? 

Sì, esatto. Adesso con l’app posso mettermi online o offline quando voglio. In realtà sono quasi sempre online, e quando non posso proprio rispondere fisicamente, semplicemente non accetto la chiamata. 

Quando lavoravo in presenza negli Stati Uniti, ero disponibile tutta la giornata fino alle quattro del pomeriggio circa, perché poi iniziava la mia seconda attività come insegnante di italiano e inglese. L’agenzia mi mandava le richieste via SMS del tipo «Sei disponibile per un paziente da quest’ora a quest’ora?». E lì, come purtroppo accade per tante cose negli Stati Uniti e in particolare a New York, dove si sgomita un po’ per tutto, chi risponde prima si aggiudica il lavoro. Quindi organizzavo tutti gli appuntamenti in sequenza: magari sala operatoria dalle 6:00 alle 8:00, poi fisioterapia dalle 10:00 alle 12:00. 

E una volta arrivata in ospedale?  

All’ospedale ritiravo il mio modulo e compilavo sempre un documento con il nome del paziente e il suo Medical Record Number, registrando tutte le ore di servizio. Quando necessario, firmavo anche i moduli di consenso, dove c’era proprio uno spazio per la “Firma dell’interprete”, il che dimostra quanto il mio ruolo fosse riconosciuto ufficialmente. 

Ti davano un riassunto del caso oppure avevi accesso alla cartella medica del paziente? 

No, molte meno informazioni. Se andava bene, mi comunicavano il reparto e il tipo di visita, per esempio “valutazione psicologica” oppure “fisioterapia”. A volte mi davano solo il numero del piano. 

Ricordo il mio primissimo paziente: non sapevo neanche che fosse in riabilitazione neurologica, né che avesse avuto un ictus. Non sapevo assolutamente nulla. 

Quindi tu arrivi senza informazioni preliminari e il tuo ruolo è tradurre ciò che dice il medico e poi ciò che risponde il paziente. 

Sì, faccio da ponte nella conversazione. Non solo per il paziente, ma spesso, anzi quasi sempre, c’era almeno un familiare presente; quindi, dovevo tradurre anche quello che diceva il membro della famiglia al medico. L’unica eccezione per l’interprete era quando i medici parlavano tra loro o con gli infermieri, specialmente quando entravano in discussioni tecniche. 

In queste situazioni, cosa facevi esattamente?   

Di solito chiedevo al medico cosa volesse effettivamente che io traducessi per il paziente, perché spesso i dettagli tecnici possono confondere o addirittura allarmare inutilmente il paziente. Se non ricevevo istruzioni specifiche, estraevo autonomamente i concetti principali dalla conversazione e li comunicavo. 

Immagino che nel tuo lavoro sia fondamentale la capacità di capire chi hai di fronte e adattare il linguaggio alla persona? 

Esatto, è molto importante questo adattamento del registro linguistico. Lo capisci dal paziente: spesso erano persone che magari vivevano negli Stati Uniti da poco tempo, con un livello di istruzione non elevato, per cui anche termini come “pneumologo” potevano metterli in confusione. È tutta una questione di sensibilità personale: come intervenire, quanto intervenire e con quali termini, anche se la linea guida del corso era sempre “traduci tutto ciò che dice il medico al paziente e viceversa”. Devo ammettere che in certi casi ho, tra virgolette, disobbedito un po’, perché entra in gioco l’aspetto culturale. Quando un paziente usa un’espressione che potrebbe sembrare offensiva a un americano, ma che so non essere tale in italiano, tendevo ad addolcire un po’ i termini. 

Ma ora arriviamo al tuo libro Avrai sempre la mia voce, uscito nel gennaio di quest’anno per Bollati Boringhieri. Brevemente, per chi ci legge, dico che si tratta di un saggio autobiografico dove tu racconti cos’è l’interpretariato medico, usando alcuni esempi di situazioni reali che ti sono capitate nel corso della tua carriera. Perché hai deciso di scriverlo? 

Inizialmente avevo cominciato a scrivere degli articoli per alcuni giornali italiani di New York, come La Voce di New York. L’avevo fatto inizialmente per questioni legate al visto, che richiedeva di avere materiale pubblicato online. Dal feedback che ricevevo dai lettori, ho capito quanto interesse ci fosse da parte del pubblico italiano, sia in Italia che a New York. Parallelamente, stavo accumulando tantissime storie incredibili di questi pazienti, e sentivo che se non le avessi messe per iscritto, prima o poi le avrei dimenticate. Nella vita, io ho sempre scritto, anche lettere, sia per me che per altri. Il mio stile è sempre stato di scrittura molto intima. Ho pensato che queste storie meritassero di essere documentate in modo più dettagliato. La scrittura però ha attraversato diverse fasi: all’inizio era proprio un desiderio di raccontare le storie, poi ho notato quanto gli studenti di interpretariato fossero interessati a questa professione e avevo pensato di dare un taglio più didattico, quasi scientifico o accademico, come fosse un manuale di casi clinici. Un’altra fase è stata poi quella della “denuncia” di un servizio che manca in Italia. È stata anche la casa editrice a suggerirmi di dare un taglio più forte in questo senso, e io ero completamente d’accordo, perché il mio obiettivo ora è riuscire ad avere interpreti medici in Italia. Alla fine, il libro è risultato un ibrido, tanto che è stato difficile catalogarlo – l’altro giorno in libreria l’ho visto tra le biografie. Però generalmente viene classificato in medicina, salute, benessere e psicologia. 

Mi interessa il percorso che hai fatto: quanto tempo ci hai messo, dall’idea iniziale al prodotto finale? 

La scrittura è durata quasi un anno e mezzo, anche perché nel frattempo ci sono stati dei miei spostamenti tra Stati Uniti e Italia. In Italia non riuscivo molto a scrivere, mancava quella concentrazione; forse trovarmi fisicamente nel luogo dove ho vissuto queste storie rendeva più facile la scrittura, proprio il calarsi nella parte. 

Come catalogazione mi è stato detto che questo è un “saggio narrato”, che trovo sia la definizione migliore. All’inizio pensavo fosse un memoir, ma in fondo è un ibrido tra narrato e saggistica, e mi piaceva molto l’idea di trovare un equilibrio tra i due. 

Inizialmente ero quasi più scientifica, però poi un agente letterario mi ha detto: «Quello che interessa alle persone sono le storie e, soprattutto, se vuoi sensibilizzare su un tema devi portare casi concreti». Capire perché quella paziente – anche idealmente o forse romanticamente nella mia testa – è guarita o è migliorata molto a livello di salute grazie al fatto che riusciva a parlare la sua lingua non è scontato. Ho notato quanto, raccontando a me i loro sintomi, i pazienti usassero molti più dettagli, parlassero in maniera molto più estesa, mentre quando si trovavano a parlare direttamente con un medico, dicevano due parole in croce. Però non puoi non dire che hai un’allergia a un certo farmaco, perché può essere fondamentale. 

Una delle cose che ho trovato più interessanti in Avrai sempre la mia voce è il fatto che tu spesso racconti di esserti trovata ad affrontare un dilemma – dilemma tra i più frequenti nel mondo sociosanitario – tra il ricorso al buonsenso o l’utilizzo di un approccio più deontologico, più legato all’etica professionale.  

In realtà non ho mai avuto una fase in cui sono stata strettamente legata alle linee guida fornite dall’agenzia o dall’istruttore che mi ha formato. Lo ricordo già dal primissimo paziente, un uomo dal fare molto rude perché non accettava di aver avuto un ictus e di essere improvvisamente diventato incapace di parlare e muoversi come prima. Una cosa che non mi avevano insegnato era come reagire al rifiuto di un paziente nei confronti dell’interprete, che viene quasi percepito come una sorta di offesa personale. Entra in gioco l’orgoglio: “Ma come? Io sono qui per lavorare e lui non mi vuole”. 

Bisogna entrare subito nella sua testa per capire la sofferenza che sta provando, e quindi uno sfogo di rabbia è in qualche modo giustificato. Quello è stato il primissimo caso che mi ha un po’ scombussolato e disorientato. Però poi vedevo quanto la mia interazione fosse di giovamento e supporto, e quanto distaccarsi troppo non portasse a nulla di buono. 

Nei casi in cui avrei dovuto fare un passo indietro, a volte lo facevo e a volte no, probabilmente per una questione di empatia. Il fil rouge di tutti questi casi è proprio l’empatia – etimologicamente quanto riesci ad entrare nel sentimento della persona. Ho capito che entrare un po’ di più in relazione con il paziente rispetto a quanto mi avevano consigliato funzionasse meglio, rendesse il risultato del mio lavoro migliore – forse anche perché culturalmente l’italiano tende a stabilire un rapporto più profondo e umano con il suo connazionale. 

Raramente questo mi ha messo nei guai o sono stata “bacchettata” dalle agenzie. La mia giustificazione, quando questo succedeva, era: “Non lo avrei fatto con un paziente che conoscevo per la prima volta”. Avere un po’ di pregresso della storia della persona non solo aiuta il medico a decidere la terapia migliore, ma aiutava anche molto me a capire quanto in là potessi spingermi e quanto invece dovessi restare ferma al mio posto. 

Ti sei mai trovata a dover affrontare questioni legate alla privacy? Questo è un tema molto attuale in medicina oggi.  

Assolutamente. Una delle linee guida principali era proprio quella di non parlare mai del paziente, nemmeno in ascensore o al telefono. Non doveva trapelare alcuna informazione. Era necessario firmare un modulo di consenso in cui si dichiarava di non divulgare nessuna notizia, nemmeno dire che si era presenti a quel colloquio. Non potevo accettare nulla, nemmeno un caffè o un dolce, e tanto meno soldi. Non si poteva mai scambiare un contatto personale con un paziente. 

Dev’essere stato particolarmente difficile, soprattutto nel contesto culturale italiano, dove l’ospitalità è molto sentita. Immagino che tu abbia avuto delle difficoltà in tal senso? 

Eh sì, mi è capitato. Quando un paziente sente che la sua vita è stata un po’ più leggera o facilitata dalla tua presenza, questo crea una connessione profonda. Ancora oggi, quando vado a New York, mi capita di vedere alcuni pazienti che mi abbracciano con emozione. È un effetto che non scordi. 

Diventi parte del loro processo di guarigione. Quanto dici è l’ennesima dimostrazione che la cura non riguarda solo l’aspetto puramente biologico della malattia, ma anche la relazione che si crea con il paziente. Non si tratta solo di trattare una malattia organica, ma di affrontare un processo che è sicuramente più completo se passa anche attraverso la comunicazione e la comprensione reciproca. La tua figura di interprete mi sembra fondamentale proprio per questo, perché in qualche modo diventi un veicolo di cura, dove le parole giocano un ruolo cruciale. 

Sì, è vero. Una parola, se detta in un certo modo, può scatenare una risposta completamente diversa. A volte basta un verbo o un aggettivo diverso per fare la differenza. Mi viene in mente un episodio con una paziente che stava parlando con un endocrinologo del suo regime alimentare. Avevo capito che lei confondeva le verdure con i legumi; quindi, pensava che mangiare legumi fosse come mangiare verdure. Ho deciso di chiederle cosa mangiasse esattamente, e lei ha elencato lenticchie, fagioli, piselli. Ho tradotto la lista per il medico, perché lei li chiamava “vegetabili”, una storpiatura di “vegetables” inglese. Quello che faccio, spesso, è cercare di leggere tra le righe, capire ciò che non viene detto ma che è essenziale per la comprensione del quadro generale. 

Però, io so che adesso, dopo il libro, sempre riguardo questa tua professione tu ha in mente anche qualcos’altro?  

Sì, ho in mente di provare a creare un sistema di interpreti medici in Italia. Il messaggio che vorrei trasmettere è che non voglio che questa professione venga svolta solo da volontari. Deve avere una sua dignità, e gli interpreti devono essere retribuiti e formati in modo altamente professionale. Sto iniziando a capire quali siano le possibilità. Mi sto informando chiedendo ad amici che lavorano in ospedali, soprattutto quelli con un numero consistente di pazienti stranieri. Molti ospedali sono sensibili al tema, e parallelamente ci sono università che offrono corsi di interpretariato medico. Il problema, però, è che i laureati da queste università non hanno ancora un sistema strutturato che permetta loro di lavorare in modo stabile. Per me è stato molto facile negli Stati Uniti, avevo una struttura organizzata che smistava il lavoro. Nei miei anni di esperienza, ogni colloquio tra medico e paziente non iniziava mai prima del mio arrivo. Questo sottolinea quanto fosse essenziale la mia presenza. Ora vorrei capire anche a livello economico e finanziario in Italia quali siano le reali possibilità per far crescere questo progetto, lavorando in parallelo sulla formazione e sulla pratica ospedaliera. 

So anche che tu però non fai solo l’interprete medica, soprattutto ora che sei rientrata in Italia – lo accennavi già prima. Mi chiedo, come concili le tue attività professionali? E… cosa c’entra Grey’s Anatomy?  

Sì, mi occupo, appunto, anche di altro. Principalmente, direi, di traduzione scritta. Da qualche anno, infatti, mi dedico quasi esclusivamente alla traduzione di film e serie TV (tra cui Grey’s Anatomy). In realtà, ho sempre fatto sia traduzione scritta che interpretariato, due professioni che hanno un profondo legame dato dall’uso della lingua. Però, nella traduzione scritta, hai più tempo per scegliere le parole giuste. Io adoro, per esempio, scegliere tra dieci sinonimi il termine perfetto; quindi, c’è una cura maggiore nell’uso delle parole nella traduzione proprio perché hai più tempo per riflettere a differenza invece di quando mi occupo di interpretariato, medico e non, nel quale questo tempo purtroppo non c’è. Inoltre, insegno l’italiano negli Stati Uniti da molti anni e recentemente ho iniziato a insegnare l’inglese medico a studenti universitari che frequentano medicina all’estero.  

Adesso, torno un attimo ancora ad Avrai sempre la mia voce perché leggendolo, si intuisce il tuo amore per la letteratura. A questo proposito, mi chiedevo, come vivi le tue passioni in relazione alla tua professione?  

Per me, tutte le mie passioni, anche quelle che non sono strettamente professionali, sono orientate, consapevolmente o inconsapevolmente, ad allenare l’aspetto dell’umanizzazione e dell’empatia. Ogni cosa che faccio, come il canto, il disegno, o anche suonare la chitarra, mi aiuta a coltivare una maggiore sensibilità verso le emozioni e le esperienze umane. Ad esempio, faccio volontariato in ospedale con la Clown-terapia, perché sento che devo mantenere un legame con quell’ambiente. L’arte, in tutte le sue forme, serve proprio a tenere viva questa parte di me, quella che mi aiuta a relazionarmi con gli altri e a comprendere le loro fragilità. Quando leggo, ad esempio, non amo la fantascienza, ma preferisco leggere storie che riguardano l’introspezione, la psicologia e le vite degli altri. Da ragazzina ho adorato La coscienza di Zeno, perché analizza psicologicamente un individuo che poi è anche un paziente. Mi piacciono anche i lavori di Natalia Ginzburg, come Le piccole virtù, che parlano delle fragilità umane. Amo capire come le persone affrontano le proprie debolezze, perché spesso sono fragilità che appartengono anche a noi stessi. 

Fragilità universali. 

Esattamente, fragilità che o affronterò io o che ho già affrontato, ma che, in ogni caso, fanno parte dell’esperienza umana. L’arte, per me, è tutta orientata a questo: a farci riflettere sulle nostre vulnerabilità, su come metabolizzarle e affrontarle. 

Hai citato alcuni libri… volevo chiederti se c’è una lettura che, recentemente, ti ha colpito più di altre e che ti sentiresti di consigliare ai nostri lettori, magari legata proprio alla tua professione o a temi che affronti nel tuo lavoro.  

Mi prendi un po’ alla sprovvista, perché in questo momento ho cinque libri iniziati a metà! (ride). Allora trasgredisco e consiglio una serie, una che ho tradotto recentemente e che si chiama Good American Family. Parla di una famiglia che decide di adottare una ragazzina affetta da nanismo. La cosa interessante è che i genitori adottivi non si aspettano i risvolti psicologici complessi che nascono da questa scelta e che arrivano a mettere in crisi la famiglia stessa. All’inizio, prendi una parte, poi l’altra, e alla fine il tuo punto di vista cambia completamente. Ti metti in empatia sia con la ragazzina che con la famiglia. È una serie che ti fa riflettere sul fatto che spesso nella vita non esistano risposte facili o giuste, ma ci siano… ci siano… tante sfumature e come la realtà sia spesso più complessa di quanto appaia. 

Ottimo consiglio. Te la sei cavata alla grande. Grazie Linda!  

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