Breve pazienza di ritrovarti

Letteratura, famiglia, disagio psichico 

Le riflessioni proposte in questo contributo sono nate in margine a un incontro organizzato da Eros Ciccone all’Osteria sociale BarAtto di Morbio Inferiore nell’autunno del 2023. I due racconti a cui fanno riferimento sono tratti dalla raccolta “Breve pazienza di ritrovarti. Nel gorgo di salute e malattia” (Interlinea, Novara 2015), per la quale, nel 2016, Giovanni Fontana è stato insignito del Premio svizzero di letteratura. I testi integrali sono recuperabili qui. 

A Raffaella Cammarota e Manuela Cattola

 

Mi piacerebbe poter dire che scrivo da sempre, come fanno i “veri” scrittori quando vogliono accreditare l’immagine o il mito di una vocazione, di una chiamata.

In realtà, le cose per me non stanno così. Certo, ho sempre sentito – come tutti, credo – il bisogno di esprimermi, di coltivare quella che con un po’ di imbarazzo potrei definire la mia creatività. Ma per molti anni questa mia necessità ha trovato sfogo nella critica letteraria, che ha sempre avuto per me un’impronta fortemente soggettiva. Scrivere su Luzi, su Betocchi, su Orelli, sulla Morante è stato per anni il mio modo di esprimermi. 

Poi, qualcosa è cambiato, direi dopo il 2001, che è stato per me un anno spartiacque, segnato dalla morte di mio padre:

nello smarrimento di quei mesi, ho cominciato infatti a sentire il bisogno di stilare un bilancio della mia vita, di fare chiarezza in me stesso, anche rivisitando esperienze di malattia e di sofferenza che mi avevano toccato direttamente e forse non avevano ancora avuto il tempo di decantare e di rivelare il loro vero significato.

E ho sentito il bisogno di farlo in un modo che fosse solo mio, uscendo dal cono d’ombra in cui ero rimasto fino a quel momento, trovando una strada personale, diversa da quella che mio padre (professore universitario di Letteratura italiana e a sua volta critico letterario) aveva percorso prima e molto meglio di me. Di qui il progetto di un romanzo, presto abortito, e quindi la scoperta della misura nel racconto, anche in coincidenza con la lettura di scrittrici come Alice Munro, che mi hanno fatto capire come anche la forma breve potesse contenere storie complesse. 

Il titolo originale della raccolta era Organza – titolo che non è piaciuto all’editore ed è stato presto sostituito da Breve pazienza di ritrovarti, che, lo dico per chi non avesse avuto ancora l’occasione di tenere fra le mani il volume, è tratto dal terzo racconto della raccolta. Il primo titolo giocava sull’evocatività di un nome (un’immagine virata seppia, il fascino ambiguo delle cose lontane, il gusto agrodolce dei ricordi infantili) e metteva in esponente il racconto che, fra tutti quelli che avevo scritto fino a quel momento, mi sembrava allora il più compiuto; il secondo è, a una prima lettura, piuttosto misterioso, addirittura ermetico nel suo voluto lirismo (penso soprattutto alla costruzione anomala “avere pazienza di”) e allude al tormentato rapporto fra i personaggi del libro, in cui uno dei temi dominanti è l’incomunicabilità. L’espressione, come spiega la nota finale del libro, è tratta da una poesia inedita di mio padre – una poesia d’amore che ho scoperto nella dedica di un’edizione degli Inni alla notte di Novalis che mio padre regalò a mia madre nel Natale del 1949, durante il periodo del loro fidanzamento. Questo titolo è piaciuto subito all’editore ed è diventato presto anche per me l’unico possibile per il libro, anche perché mi ha permesso di saldare pubblicamente un debito: questa raccolta di racconti non esisterebbe infatti senza la mia famiglia – i miei fratelli, mia madre, la nuova famiglia che ho creato con Antonella e Valentina – ma soprattutto non esisterebbe senza mio padre, che da vivo mi ha trasmesso la passione per la letteratura e da morto – o meglio attraverso la sua morte – mi ha spinto a scrivere. 

La malattia, e nella fattispecie la malattia psichica, la follia (per usare una parola che oggi è tabù) è certo uno dei temi centrali del libro – un tema a cui alludono il sottotitolo “luziano” Nel gorgo di salute e malattia e la quarta di copertina e su cui hanno molto insistito le primissime recensioni uscite sui giornali e in riviste.

Per me, però, il cuore del libro, più ancora della malattia, è la famiglia in cui la malattia germina e che della malattia subisce più o meno direttamente le conseguenze, sfaldandosi, compattandosi, reinventandosi in modi di volta in volta diversi.

Una malattia, vorrei aggiungere, che può manifestarsi come evento deflagrante, in grado di rimettere in discussione equilibri consolidati, ma anche, paradossalmente, come esperienza illuminante, come smagliatura nel tessuto della realtà, che ci consente o addirittura ci impone di guardare in fondo a noi stessi e alle relazioni che intratteniamo con gli altri. 

C’è un racconto, l’ultimo della raccolta (ma il primo in ordine di ideazione e di scrittura) in cui la duplice valenza di eventi traumatici come la malattia e ancor più la morte emerge in maniera particolarmente nitida: si tratta di Ma quando te ne andasti – una sorta di oratorio profano in cui, al capezzale di un padre/patriarca morente, si raccolgono quattro personaggi, messi a confronto con una perdita che, sorprendentemente, illumina di una luce vivida la loro vita. In epigrafe a questo racconto di impianto fortemente teatrale, in cui si alternano quattro voci recitanti (due uomini e due donne), ho scelto di collocare un brano di una bellissima poesia di Rilke intitolata Esperienza della morte: 

Ma quando te ne andasti, un raggio di realtà
irruppe in questa scena per quel varco
che tu ti apristi: vero verde il verde,
il sole vero sole, vero il bosco. 

Noi recitiamo ancora. Frasi apprese
con pena e con paura sillabando,
e qualche gesto; ma la tua esistenza,
a noi, al nostro copione sottratta, 

ci assale a volte e su di noi scende come
un segno certo di quella realtà;
tanto che trascinati recitiamo
qualche istante la vita non pensando all’applauso.  

La morte di una persona amata squarcia il velo della finzione in cui siamo avviluppati, apre un “varco” attraverso cui un “raggio di realtà” irrompe nella nostra vita, restituendo alle cose e alle esperienze il loro “vero” colore, il loro “vero” significato (“vero verde il verde, / il sole vero sole, vero il bosco”).

Segnati da questa esperienza rivelatrice, noi forse torneremo a recitare, ma come inciampando nelle parole, senza più pensare all’“applauso” di chi ci sta intorno, consapevoli che la vita è – dev’essere – altro dalla finzione. Lo stesso vale, credo, per la malattia mentale, per chi la vive in prima persona e per chi la accompagna come parente o amico di un ammalato. 

Con questo spirito, con l’impressione di “vedere per la prima volta” in me stesso e negli altri, ho cominciato a scrivere all’indomani della morte di mio padre, cercando di guardare in faccia il disagio, la malattia psichica, sondandone la genesi e le ripercussioni sulla vita familiare, senza nascondere il dolore che porta sempre con sé, ma cercando di valorizzarne anche le potenzialità conoscitive. 

Fra i tanti possibili percorsi di lettura del libro, ne scelgo due, che coincidono con due diverse manifestazioni del disagio psichico: nella seconda parte di questo intervento vorrei proporre qualche riflessione sul racconto intitolato Organza, in cui questo disagio si traduce in atti clamorosi, che sconvolgono la vita dei protagonisti, e scivola in maniera dirompente nella follia; prima però vorrei soffermarmi su un’altra categoria di personaggi, su figure in apparenza “normali”, che si mantengono una zona grigia di eccentricità solitaria e idiosincratica. In questo caso il retaggio di storie familiari tormentate si manifesta, per così dire, a bassa intensità, in percorsi esistenziali acerbi e irrisolti, in vite bloccate o deviate su binari morti. 

È il caso, ad esempio, di Marco, protagonista di Sotto il lenzuolo, la cui vita si è letteralmente fermata nel momento in cui la sua unica figlia, Alice, tradendo tutte le sue aspettative, ha allacciato una relazione con un divorziato, per di più straniero, e ne ha addirittura avuto un figlio. Da quel momento in poi Marco l’ha tagliata fuori dalla sua vita di recluso, e ogni 28 del mese, con un lucido rituale, sostituisce il cilindro della serratura di casa per ribadire, prima di tutto davanti a se stesso, la bontà della sua decisione. Contemporaneamente comincia a frequentare assiduamente il cimitero del suo paese e prende l’abitudine di collocare nel bagagliaio della sua macchina, ogni volta che esce di casa, un grande lenzuolo bianco: 

 

L’importante è procedere con metodo. Il detersivo liquido dev’essere spremuto all’estremità superiore della lastra, sul lato corto del rettangolo di marmo lucido, proprio dove la base fa angolo con l’alzata – ma avendo cura di dosarlo con precisione, perché il terreno in leggera pendenza rischia di farlo colare rapidamente fino allo spigolo opposto. Marco ha nella mano sinistra una spugna porosa (la stessa che usa anche per lavare la macchina), sa che cosa dovrebbe fare; eppure si sente inspiegabilmente stanco, quasi svogliato. 

Il liquido colloso sgocciola in due rivoli sottili. Ecco, le due scie bianche stanno attraversando la fotografia della madre, scavando due solchi nelle guance contratte da un sorriso forzato, che l’operatore le ha strappato in un pomeriggio di giugno, poco prima che la malattia la uccidesse. 

Marco osserva la lenta alluvione che si porta via quel che resta del suo passato, depone la spugna sul bordo della tomba e si avvia verso il lato est del cimitero. Un reticolo di fosse che conosce ormai a memoria. Da quando ha cominciato a frequentarlo? Ma sì, è ora di riconoscerlo, da quando Alice se n’è andata. Da quando lui l’ha cacciata di casa. 

Si è accorto qualche mese fa che sulle lapidi cominciano ad apparire date di nascita vicine a quelle di sua figlia; non molte, certo, ma qualcuna sì.  

È attratto soprattutto dai volti di ragazzi. Chissà, forse se gli fosse nato un maschio, tutto questo non sarebbe successo.   

Strano, quello che prova: vorrebbe ‘aver avuto’ un figlio maschio. 

Prenderlo per mano, insegnargli a riconoscere le razze più rare, sussurrargli all’orecchio il pedigree degli esemplari più pregiati, trasmettergli il segreto dei pigmenti che consentono di ricreare i capolavori di Renoir, rendendoli ancora più belli degli originali, insegnargli come si tiene una macchina, come va equipaggiata, che cosa non deve mancare nel baule di un automobilista attrezzato e responsabile… Sì, tutto questo; ma, anche, quando comincia a sbagliare, quando non vuole più ascoltare i tuoi insegnamenti, cancellarlo dalla tua vita. Anzi, visto che è fatale che finisca così, Marco ha pensato tante volte che sarebbe meglio che i figli morissero giovani, quando appartengono ancora interamente ai genitori. 

Sfiora con la punta delle dita una fotografia, togliendo due minuscole foglie ingiallite dalla lastra di vetro. 

Si è immaginato più volte la scena: una telefonata in piena notte, la corsa in automobile verso il luogo dell’incidente, il tempo appena di sigillare la sua esistenza con alcune frasi che Marco ripassa ogni mattino, silenziosamente, mentre fende il traffico con la bicicletta verso l’edicola. 

Non prova dolore, mentre immagina di pronunciare quelle parole; gli sembra di stendere un lenzuolo bianco, che profuma di bucato, su una vita ben spesa, che lui ha voluto e determinato in ogni suo attimo. 

Da qualche mese non esce in macchina senza aver riposto nel bagagliaio, accanto ai morsetti, alla batteria di ricambio e alla scatola degli attrezzi, un lenzuolo bianco ripiegato in quattro, che cambia ogni mese, come la serratura di casa. 

Sfilando lentamente, in coda dietro ad altre macchine, accanto alle carcasse di automobili capovolte o incastrate le une nelle altre, gli è capitato più volte di incrociare lo sguardo implorante di un morto che gli chiedeva di oscurare definitivamente il suo cielo. 

Forse è questo il suo destino. Stendere un lenzuolo bianco sul corpo di un ragazzo, di un figlio. 

Il custode del cimitero sta raccogliendo gli innaffiatoi che i visitatori hanno abbandonato nei vialetti, vicino alle tombe su cui si sono fermati a pregare e a chiacchierare. Anche lui, in qualche modo ha capito. 

Mentre varca il cancello e si avvia verso il posteggio, gli sembra di cogliere ai margini del campo visivo la massa dei capelli biondi di Alice che scompare dietro l’angolo. 

 

«In fondo sarebbe meglio che i figli morissero giovani, quando appartengono ancora interamente ai genitori», pensa Marco, che da qualche tempo – come vi anticipavo – ha preso l’abitudine di portare nel baule della macchina un lenzuolo bianco, da usare in caso di incidente stradale «perché forse questo è il suo destino. Stendere un lenzuolo bianco sul corpo di un ragazzo, di un figlio». Stendere un lenzuolo bianco sul corpo della vittima di un incidente, cancellare dal proprio orizzonte una figlia che ha sbagliato. Fra questi due estremi si consuma il destino abnorme, la follia a bassa intensità del protagonista del racconto, a cui la vita riserva però un’amara sorpresa (di cui, qui, abbiamo solo un presentimento nella massa di capelli biondi di Alice, la figlia, che entra per un istante nel campo visivo del protagonista…). 

Veniamo ora a Organza, di cui, prima di analizzare qualche pagina, vorrei ricostruire la genesi. So che descrivere la genesi di un racconto significa – fatalmente – privare il lettore del piacere della scoperta, specie quando il racconto si è costruito, come in questo caso, su una ricerca che trova il suo compimento nell’ultima pagina, in una scena “rivelatrice”. Detto questo, proverò comunque a raccontare come è nato Organza, cercando di preservare almeno in parte il mistero e la sorpresa del finale. Il punto di partenza è stato un racconto fattomi da una delle mie sorelle, un racconto di cui ho dimenticato quasi subito i particolari, ma che ha lasciato nella mia memoria il ricordo di una scena bizzarra e inquietante. Un bambino di dodici o di tredici anni si traveste da donna, indossando un abito da sposa, e inscena un’improbabile cerimonia di matrimonio nel box di un’enorme casa di appartamenti di periferia con una sua coetanea. L’immagine ha continuato ronzarmi per la testa per parecchio tempo:

nella sua stranezza mi sembrava contenere quell’elemento di mistero che hanno alcuni momenti della nostra vita infantile, quando giocando ci accade di sfiorare un segreto, il senso ultimo delle cose (e del nostro destino…).

Finché non ho cominciato a chiedermi quale potesse essere stata la sorte di quei due bambini, che cosa fossero diventati e in che modo quell’esperienza strana e scioccante potesse averli segnati. Il primo personaggio che si è affacciato sulla pagina è stata Anna, che mi è apparsa nei panni di una giovane donna in fuga da una relazione sbagliata, che, mentre si prepara ad abbandonare l’appartamento nel quale ha vissuto per qualche mese con un fidanzato che non ama più, si imbatte in una vecchia fotografia che la ritrae bambina, sullo sfondo di un cortile. Una di quelle fotografie da cui la rabbia ci fa ritagliare i contorni di un personaggio che vogliamo dimenticare. Il braccio sopravvissuto alla forbice, Anna però lo riconosce subito: è quello di Bruno, il “grande amico” con cui ha condiviso una traumatica esperienza infantile legata a un velo d’organza. Qualcosa si mette in moto in lei, nella sua memoria. Mentre Anna incomincia una ricerca che la porterà dapprima a recuperare, in un vecchio box abbandonato, l’oggetto talismano (il velo di organza, appunto) e quindi a immergersi nel pozzo delle memorie più oscure e dolorose, Bruno, evocato come per sortilegio nei suoi pensieri, fa irruzione nel racconto con queste parole: 

 

Vuoto spinto. Aria soffiata dentro un sacchetto che esplode quando lo si schiaccia sul tavolo. 

Squamare, scrostare, ripulire; scandagliare, dragare, bonificare. 

Me, il mio io. 

Verbi all’infinito: senso di pulizia, di benessere. Per uscire di qui.  

Il paziente Bruno S. s’impegna d’ora in poi, giorno dopo giorno, a estirpare pazientemente dalla propria cavità interiore ogni residuo del proprio io infetto. 

Scavare un cunicolo che dal cervello del paziente Bruno S. porti ai sotterranei di questo ospedale psichiatrico, alla lavanderia e al piccolo obitorio, ai margini del parco e di lì conduca al viale alberato che intravedo dalla mia finestra. 

(Ancora un aggettivo possessivo e un verbo coniugato: stasera, per punirmi, digiunerò o forse mi chiuderò le dita fra il battente e lo stipite della porta). 

Da qualche giorno Bruno S. ha smesso di gridare e non sta più nudo, accovacciato sui suoi escrementi, come nei primi tempi. Nella sua camera d’angolo, protetta da doppi vetri e da una grata attraverso la quale la luce penetra a stento, sta per ricevere la visita dei suoi anziani genitori.  

Tutti i sabati, da cinque anni, trascinano i propri abiti fuori moda, le proprie scarpe impolverate, fino al grande parco, ai margini della cittadina di M., appena oltre il liceo classico che il loro figlio primogenito ha frequentato per un breve periodo. 

Percorrendo i viali che si dipanano fra aiuole e vivai che i pazienti accudiscono con zelo, cercano di immaginare degli argomenti di conversazione che riempiano il vuoto plumbeo che li attende nella camera del figlio. ‘Conversazione’, del resto, è un termine quasi immorale per definire la pantomima in cui si esibiscono, sul ridottissimo palcoscenico della stanza n. 6, in fondo al corridoio del padiglione Genziana.  

Non appena mettono piede sul pavimento di linoleum giallastro, non appena varcano i confini del trapezio delimitato dalla porta, dal letto, dalla finestra e dal corpo nudo del paziente Bruno S., sdraiato per terra sopra le proprie feci, gli spunti che hanno raccolto leggendo i giornali, gli aneddoti che si sono preparati a raccontare – da soli o più raramente in coppia (anche nella disgrazia sono competitivi) – sembrano evaporare dalla loro mente, sospinti dal mantice silenzioso di quella presenza, dallo squallore di quegli arredi, dall’odore di sudore e di medicinali. 

(Li vedo dalla finestra: mio padre basso, calvo, con occhiali di tartaruga, la pipa all’angolo della bocca con cui cerca di mascherare l’amarezza dell’ennesima giornata in ospedale, il fascio di giornali sotto braccio; mia madre leggermente curva, i capelli raccolti in una coda di cavallo troppo giovanile, la maglietta girocollo color panna che lascia nude le braccia grinzose, la carne cascante sotto le ascelle; la camminata lentissima, i passi brevi e fragili, in mano un grosso sacco con i dolciumi che cercherà in ogni modo di farmi mangiare, per potersene andare la sera con la sensazione di aver lasciato qualche cosa. 

Che cosa provano quando mi vedono? Sentono anche loro – come la sento io ogni volta, anche adesso che non li attendo sdraiato per terra, ma li spio dall’angolo della finestra a doppi vetri – la forza gravitazionale che attrae i nostri corpi, la mano paziente che cerca di cucire i lembi delle nostre solitudini?) 

 

Bruno è dunque rinchiuso in un ospedale psichiatrico, dopo un’adolescenza tormentata, e aspetta la visita dei suoi genitori. L’impulso a ricordare che in Anna è attivato dalla fotografia e dal velo d’organza, in Bruno nasce dalla visione del proprio padre e della propria madre. Osservo en passant che, se non esiste in senso proprio una “scrittura della follia”, in qualche parte del monologo di Bruno ho cercato di rendere quasi plasticamente, attraverso scelte eminentemente linguistico-grammaticali (come, per esempio, l’uso dei verbi all’infinito) il rifiuto, quasi il disgusto del proprio io che sperimenta il personaggio. 

Di qui in poi racconto si trasforma in una sorta di dialogo a distanza – certo non realistico, ma emotivamente plausibile – fra due personaggi che, pur murati dentro le proprie solitudini (e lontani nello spazio), inseguono lo stesso brandello di verità, ritornando con la mente quella sorta di scena primaria che ha segnato la loro vita. Anna dialoga con se stessa, ma cerca anche, disperatamente, un contatto con Bruno. Bruno si rivolge a suo padre e a sua madre – e solo incidentalmente indirizza i suoi pensieri ad Anna. 

 

(Non sai, papà, come ho cercato di imitarti da bambino e nei primi anni dell’adolescenza: proprio mentre ostentavo un assoluto disinteresse per quanto dicevi o facevi, voltandoti platealmente le spalle quando mi rivolgevi la parola o mi portavi un libro, di ritorno da uno dei tuoi viaggi – un regalo prezioso che finiva immancabilmente nell’angolo più buio del mio armadio – proprio allora, a tua insaputa, cercavo di tradurre nel mio linguaggio ogni tua movenza, ogni tua frase, per essere te senza somigliarti. Così, la cura con cui catalogavi e archiviavi le planimetrie dei monumenti che erano oggetto delle tue ricerche alimentava segretamente lo zelo con cui collezionavo, ordinavo, lustravo – e collaudavo instancabilmente – coltelli, temperini e taglierine, che rubavo nel negozio di ferramenta all’angolo della strada. 

E la violenza con cui reprimevi ogni discussione, la violenza inaudita dei tuoi silenzi, che ricacciavano me e la mamma negli esigui spazi che ci avevi assegnato nel santuario della casa  come naufraghi dispersi da una misteriosa esplosione sottomarina, credi che mi sia rimasta estranea? Quella violenza io la accoglievo in me come un dono e la distillavo ogni giorno nel cortile sotto casa, riversandola implacabilmente sulle mie compagne di gioco. 

L’ampio parcheggio riservato agli inquilini dello stabile e ai clienti del ristorante al piano-terra era circondato su due lati dai box coperti, chiusi da porte in legno ribaltabili verso l’alto. 

Cinque di questi box erano affittati dai genitori delle mie amiche e durante il giorno restavano vuoti. 

In ogni cubo chiudevo una di loro, tutte più piccole e tutte innamorate di me, l’unico ragazzo della casa. Esigevo che mi aspettassero al buio; bloccavo dall’esterno le porte, in modo che non potessero muoversi. L’attesa durava a lungo, a volte anche più di mezz’ora. Dalle grate giungevano a volte deboli proteste, quasi sussurrate, come se le ragazzine non volessero disturbare il ticchettio dei miei passi, su e giù lungo la striscia d’asfalto antistante i box. 

Con i soldi che razziavo nella borsetta della mamma, con le monete che disseppellivo dal fondo delle tasche di cappotti e soprabiti temporaneamente in disuso, comperavo ogni giorno piccoli oggetti – biglie, anelli, minerali, giornalini – che distribuivo capricciosamente alle ragazzine in attesa, divertendomi a frustrare le loro aspettative. L’apertura di una di quelle enormi porte di legno cigolanti dava inizio ad un piccolo rito che officiavo con severità: attesa, apparizione, dono, grida e sospiri che imponevo implacabilmente di soffocare nella mano o nel lembo del vestitino. 

La ragazzina che otteneva il regalo più prezioso aveva diritto di salire con me nell’appartamento dei miei e di frugare nei cassetti di mia madre, fra i suoi reggiseni e le sue sottovesti. 

Ma nemmeno Anna, la mia preferita, sapeva che parte dei soldi che rastrellavo quotidianamente erano accumulati in un salvadanaio, per il grande ‘progetto’). 

*          *          *

Sono di nuovo qui, nella mia casa di allora. Devo muovermi con circospezione. Il garage che un tempo i miei avevano in affitto è ormai trasformato in un ripostiglio e i vecchi mobili che lo riempiono sono accatastati alla rinfusa e coperti di ragnatele, in attesa che un figlio o un nipote venga a prenderseli, per arredare residenze di campagna o appartamenti di vacanza. 

La lampadina che pende dal soffitto è fulminata; dovrei aprire la porta del box o richiamare la vecchia portinaia a cui ho estorto la chiave con un pretesto, ma non voglio farlo. E poi, non era così che ti aspettavo, Bruno? 

Qui, a metà della parete di fondo, devono esserci ancora i nostri nomi, il graffito che ho lasciato quel venerdì, mentre contavo i minuti, i secondi che mi separavano dal tuo arrivo. Ti ricordi come tremavo quando sei entrato? 

Mi avevi mostrato il velo, il giorno prima, e io avevo creduto di capire. 

*          *          *

(Anna, tu ti sarai dimenticata di quel giorno. Oggi sicuramente sei sposata, hai dei figli e solo di rado, molto di rado, quando fuori piove e tuo marito tarda a rientrare, ti capita di ripensare al tuo passato. È bene così, in fondo. 

Per me, invece, quel venerdì è come una cisti che nessun intervento chirurgico potrà mai rimuovere, è la piaga che m’inchioda a questa stanza d’ospedale – poco importa se in piedi, alla finestra o nudo e sdraiato sui miei escrementi… 

Tu non avevi niente in comune con mia madre. Non la luce malinconica degli occhi, non la dolce ritrosia dei gesti. Tu eri solo Anna. Ma eri innamorata di me ed eri disposta a credere qualsiasi cosa. 

Avevo cominciato a comperare le prime cose in un negozio di abiti usati, in una via periferica: i lunghi guanti bianchi, un velo d’organza, una piccola bomboniera. Ma presto avevo capito che non erano adatti a lei. Per essere lei, almeno per un istante, ci voleva ben altro). 

*          *          *

È incredibile come potessi essere ingenua, Bruno. Per tutta la notte non avevo chiuso occhio pensando al velo, sentendo sotto le dita la grana morbida del tessuto, tanto che al mattino mia madre si era spaventata vedendo le mie occhiaie e mi aveva spedito dalla zia infermiera, all’altro capo della città, a farmi misurare la pressione. 

   Tu ti eri accorto della mia assenza e avevi mandato Francesca a chiedere notizie, sul mezzogiorno, e a darmi appuntamento per le quattro, nel box dei miei genitori. 

Del pomeriggio ricordo solo la consistenza granulosa dell’aria sfibrata dal caldo, il cigolio della porta che si apriva e la lama di luce che risaliva rapidamente la parete fino ad accecare anche me, che aspettavo in piedi, nell’angolo più lontano – come tu volevi. 

*          *          *

(Nei negozi del centro avevo trovato tutto quanto occorreva. Solo le scarpe avevano richiesto una ricerca più lunga, dato che nelle boutiques specializzate i modelli erano disponibili solo fino al numero trentotto. 

Per vincere l’imbarazzo delle commesse era bastato parlare di una recita scolastica, di una commedia in costume che sarebbe stata messa in scena per la cerimonia di fine-anno. 

La scatola e i sacchetti erano ammucchiati sotto il mio letto, a pochi centimetri dal materasso sul quale mia madre si sedeva ogni sera per darmi il bacio della buona notte). 

*          *          *

Quando ti ho visto entrare con un enorme sacco gonfio in mano, mi sei sembrato bellissimo e ti sarei voluta correre incontro, come avevo visto fare nei film. Ma tu eri Bruno, e mi avresti certamente rimproverata, forse addirittura picchiata. 

*          *          *

(Con i mobili di tua nonna – da sempre allineati alle pareti – ti ho fatto costruire una specie di camerino, chiuso su un lato da un lenzuolo che mi ero portato da casa. 

Tu mi guardavi con occhi luccicanti, impreparata alla scena che si andava componendo in quel cubo di cemento). 

*          *          *

Ho pensato, con un tuffo al cuore, questa sarà la nostra camera, qui verremo dopo la cerimonia, e gli preparerò da mangiare, gli stirerò i vestiti, e lui mi insegnerà i segreti di sua madre. 

*          *          *

(Quando ti ho detto di sederti per terra ad aspettarmi e sono entrato con la sacca nel minuscolo rettangolo del vestiario, richiudendomi accuratamente alle spalle la porta-lenzuolo, ho sentito sulla schiena il tuo sguardo deluso e, per un attimo, ho avuto la tentazione di rinunciare. Ma poi, mentre toglievo i vestiti dalle confezioni e li appoggiavo delicatamente su una cassa di bottiglie vuote, ho cominciato a immaginare come si era sentita lei, vent’anni prima, quando con l’aiuto della nonna si era preparata per la cerimonia. 

E tu sei scomparsa). 

*          *          *

Sentivo il frusciare della seta, immaginavo la morbidezza dell’organza e cercavo di consolarmi pensando che tu mi stessi preparando un’altra delle tue sorprese, la più bella di tutte. Sicuramente volevi lasciarmi senza fiato, mostrandomi il mio vestito tutto insieme, facendo scomparire i sacchetti e le scatole che avevo intravisto pochi minuti prima. Forse – non osavo nemmeno pensarlo – mi avevi comprato un diadema, magari finto, ma luccicante come quelli che avevo ammirato nei cassetti della camera di tua madre. 

Pigiato nella tasca della mia salopette tenevo il reggiseno bianco che avevo preso dal suo armadio e non avevo osato provarmi, per paura di essere scoperta. 

*          *          *

(Mentre mi aggiustavo il corpetto di raso sul petto ricoperto dalla prima pelurie, mentre mi infilavo i collants bianchi sulle gambe nodose, piene di sbucciature e di croste, pensavo a te, mamma, cercavo di immaginare che cosa avevi provato in quel paesino della Brianza, nel soggiorno illuminato dalle fioche lampadine di quel dopoguerra periferico, lontano anni-luce da ogni ipotetico miracolo… 

La paura delle notti che ti avrebbero atteso là, in Svizzera, con quell’uomo di cui conoscevi solo la voce calda e i paradossi scintillanti, la sentivo anch’io sulla mia pelle, in quel camerino improvvisato; la stessa apprensione per il futuro, lo stesso senso di vuoto. Mi sentivo te, mamma). 

*          *          *

Finché da sotto il lenzuolo non ho visto spuntare quelle lunghe scarpe bianche e dentro i piedi pelosi di Bruno; e ho sentito una mano che mi schiacciava il petto e m’impediva di respirare. E, pur senza capire quel che stava succedendo, ho sentito che in quel momento ero fuori posto; anzi, vuoi che ti dica la verità, Bruno, ora che tutto è finito? ho avvertito che non sarei mai stata al posto giusto nella mia vita. E in quel momento avrei dato qualsiasi cosa per poter palpare col dito sul fondo della tasca non la superficie fredda di quel reggiseno di raso, ma il gattino di péluche che ogni sera mi appoggiavo sulla tempia per addormentarmi… 

*          *          *

(Quando sono uscito da quello spogliatoio di fortuna, aggiustandomi il velo in testa, e mi sono avviato verso l’angolo dove Anna mi aspettava, spaventata, ho sentito, mamma, che ti avrei portato sempre dentro, che noi tre saremmo stati sempre insieme – come ora, in questa camera d’ospedale). 

*          *          *

Quando nella penombra di questo stesso garage ti ho visto uscire infagottato nel mio abito da sposa, barcollante sulle scarpe col tacco che avevo sognato ai miei piedi, quando ho visto la spilla che fissava il velo al ciuffo dei tuoi capelli castani, ho capito che ‘felicità’ è una parola senza peso, una farfalla che si brucia le ali sfiorando una lampadina da quattro soldi.  

 

In queste pagine, volevo che il lettore sentisse il dialogo farsi sempre più concitato, sempre più affannoso; volevo che si sentisse in balia di flussi, di correnti narrative opposte (il movimento all’indietro della memoria, che si protende verso il ricordo più remoto e più fortemente rimosso, e il movimento lineare, progressivo del racconto, che ripercorre i preparativi e la celebrazione del rito). Una macchina narrativa complessa che dovrebbe restituire a chi legge il senso di una ricerca faticosa, insidiata dai buchi della memoria e dalle trappole della rimozione. Quanto al mistero di quella scena, anch’io che l’ho scritta posso limitarmi a formulare delle ipotesi: forse il sogno di Bruno è quello di tenere uniti tutti i pezzi del suo mondo infantile, di portare dentro di sé il maschile e femminile, il padre e la madre, ricucendo ogni giorno i brandelli delle loro solitudini; per Anna, invece, quel rito coincide con la scoperta precoce che la «felicità è una farfalla che si brucia le ali sfiorando una lampadina quattro soldi», che il suo bisogno di affetto, di tenerezza è destinato a rimanere (sempre) deluso. 

Cosa ne pensi?
Condividi le tue riflessioni
e partecipa al dialogo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Desideri essere aggiornato sulle ultime novità dei Sentieri nelle Medical Humanities o conoscere la data di pubblicazione del prossimo Quaderno? Iscriviti alla nostra Newsletter mensile!

Iscriviti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *