Čechov, Tolstoj e il racconto che li divide
Primo appuntamento alla (ri)scoperta del grande scrittore russo, maestro insuperabile del genere racconto
10 Febbraio 2025 – Medical Humanities, NarrazioniTempo di lettura: 17 minuti
10 Febbraio 2025
Medical Humanities, Narrazioni
Tempo di lettura: 17 minuti
Quando si pensa alla grande letteratura russa dell’Ottocento, il pensiero corre subito a Lev Tolstoj e Fëdor Dostoevskij, spesso non includendo Anton Čechov, non meno “grande” dei primi due, per quanto molto diverso. Forse ciò si deve al fatto che Čechov è più noto per le sue opere teatrali (Il gabbiano, Zio Vanja, Il giardino dei ciliegi…) che per la sua produzione letteraria che oltretutto è composta più che altro da racconti e non certo dal genere romanzo, come per Tolstoj e Dostoevskij.
È un peccato perché i racconti di Čechov sono altissima letteratura, e in essi lo scrittore, che era anche medico, si riconosceva più che nello scrivere per il teatro.
In una lettera a un amico, del 1895, scriveva: «Quanto alla mia drammaturgia, a quel che pare è destino ch’io non sia drammaturgo. È una disdetta. Ma non mi perdo d’animo, giacché non smetto di scrivere racconti: in questo campo mi sento a casa mia, mentre quando scrivo per il teatro mi sento agitato, come se qualcuno mi mettesse alla porta» [1].
Di racconti ne scrisse circa 650, anche se in una selezione da lui stesso curata ai fini di una pubblicazione organica ne selezionò 240. Alcuni sono famosissimi, come Il bacio, La steppa, Una storia noiosa, La corsia n. 6, Il monaco nero, Il violino di Rothschild, Lo studente, La casa col mezzanino, L’uva spina, per finire con i celeberrimi La signora col cagnolino (a cui si è anche ispirato il film Oci ciornie, del 1987, con Marcello Mastroianni) e La fidanzata.
Čechov, dunque, nella sua produzione non teatrale, non si spinse mai oltre il genere racconto (anche se alcuni, forse per via della loro lunghezza, vengono definiti romanzi brevi), ben lontano perciò dalle opere monumentali di Tolstoj.
I due si conoscevano (si hanno anche alcune foto di loro due insieme) e, inutile dirlo, Čechov ammirava molto Tolstoj. In una lettera del 1900, preoccupato per la salute di Tolstoj, scriveva: «La morte di Tolstoj mi fa paura. Se morisse, rimarrebbe nella mia vita un gran vuoto. Anzitutto, non ho mai amato nessuno quanto lui; io non sono un credente, ma di ogni fede, la sua fede la considero come la più vicina a me. Secondariamente, quando in letteratura c’è un Tolstoj, essere uno scrittore è semplice e bello; persino il riconoscere che non hai fatto e non fai niente non è così terribile, perché Tolstoj basta per tutti. La sua opera serve di giustificazione a quelle speranze e aspettative che vengono riposte nella letteratura. Terzo, Tolstoj è una forza, la sua autorità è enorme, e finché è vivo lui il cattivo gusto in letteratura, ogni trivialità, maliziosa o meschina che sia, ogni amor proprio puntiglioso e astioso resterà lontano, sprofondato nelle tenebre. Solo la sua autorità morale è capace di tenere a una certa altezza i cosiddetti umori e le correnti letterarie. Senza di lui sarebbero un gregge senza pastore, o una molle poltiglia in cui difficile sarebbe orientarsi» [2].
Ma ne prendeva anche le distanze, eccome. Così si confidava in una lettera al suo editore: «La filosofia tolstojana mi ha dominato per sei o sette anni; su di me influivano non tanto le sue tesi fondamentali, che conoscevo già da prima, quanto la sua particolare maniera d’esprimersi, il suo parlare per sentenze e, probabilmente, una specie di ipnotismo. Ora invece qualcosa in me protesta; un ragionamento imparziale mi dice che c’è più amore per l’umanità nella forza elettrica e nel vapore che nella castità e nell’astenersi dal mangiar carne» [3].
Insomma, era la visione della vita e dell’aldilà che li separava.
Emblematico questo episodio, raccontato magistralmente nel racconto di Raymond Carver dal titolo L’incarico: una volta, Tolstoj era andato a trovarlo in ospedale dove Čechov era ricoverato per via della tubercolosi che lo affliggeva (di cui sarebbe morto a soli 44 anni). «Tolstoj si tolse la sciarpa di lana e la pelliccia d’orso e si sedette su una sedia accanto al letto di Čechov. Non si curò del fatto che l’infermo era sotto cura e che gli era stato addirittura proibito di aprire bocca, figurarsi quindi se poteva sostenere la fatica di una conversazione. Čechov si ritrovò ad ascoltare, con un certo stupore, le disquisizioni del conte sulle sue teorie dell’immortalità dell’anima. A proposito di quella visita, più tardi Čechov scrisse: “Tolstoj crede che tutti noi (uomini o animali, non importa) continueremo a vivere sotto forma di principio (come la ragione o l’amore) la cui essenza e i cui fini sono per noi un mistero. Non so che farmene di una tale immortalità. Non la capisco e Lev Nicolaevič ne è rimasto molto stupito”» [4].
Ma torniamo ai racconti di Čechov:
Sentieri nelle Medical Humanities mi ha offerto tre articoli nel corso del 2025, cosa di cui sono molto grato, per parlarvi di questo immenso scrittore russo
di cui, va da sé, sono un grande appassionato (“grande” nel senso della mia passione). A lui ho dedicato un libricino pubblicato nel 2019 (Leggere Čechov – Racconti 1886-1903) che vuole essere una guida alla lettura dei suoi racconti.
In questo primo appuntamento vorrei parlarvi proprio di un racconto che sancisce l’enorme differenza con Tolstoj. Si intitola Terrore – Racconto di un mio amico, ed è del 1892. Il terrore, cui rimanda il titolo di questo racconto (o la paura, secondo altre traduzioni) è quello che Dmìtrij Petròvič Silin prova nei confronti della vita:
– Io, amico caro, la vita non la capisco e la temo. Non so, forse sono un essere malato, un disadattato. All’uomo normale e fisicamente sano pare di capire tutto ciò che vede e sente, mentre per me si è perduto il valore di questo “pare” e di giorno in giorno mi sto avvelenando di terrore. Esiste una malattia: paura dello spazio. Così anch’io sono malato della paura della vita. Quando, sdraiato tra l’erba, guardo a lungo un insetto nato soltanto ieri e che nulla comprende, mi pare che la vita di quell’essere consista in un complesso di terrore e in esso io scorgo me stesso.
Tutto mi incute terrore. Io sono, per natura, un uomo piuttosto superficiale e poco mi interesso a certi problemi, come quelli del mondo dell’al di là, del destino dell’umanità, e in genere molto di rado mi elevo ad altezze celesti. Soprattutto mi incute terrore la realtà della nostra vita quotidiana, alla quale nessuno di noi riesce a sfuggire. Io sono incapace di distinguere ciò che nelle mie azioni è verità da ciò che è menzogna e questo mi sconcerta; sono consapevole del fatto che le circostanze della vita e l’educazione mi abbiano rinchiuso in un’angusta cerchia di menzogne, che tutta la mia vita non sia altro che la quotidiana preoccupazione di ingannare me stesso e il mio prossimo e di non accorgermene; e mi terrorizza il pensiero che, fino alla morte, non riuscirò a liberarmi da questa menzogna. Oggi faccio una certa cosa e domani non capisco già più perché l’abbia fatta. Prestavo servizio a Pietroburgo e ne sono rimasto sbigottito; sono venuto qui per occuparmi della mia azienda agricola e ne ho provato lo stesso sbigottimento… Mi accorgo che noi sappiamo assai poco e perciò ogni giorno sbagliamo; mi accorgo che siamo ingiusti, calunniatori, che roviniamo l’esistenza altrui, che disperdiamo ogni nostra forza per sciocchezze che non ci sono necessarie e che ci impediscono di vivere, e questo è terribile, in quanto non comprendo a che scopo e a che cosa queste cose occorrano. Io, mio caro, non comprendo gli uomini e ho paura di loro. Mi fa paura osservare i contadini: non so per quali alti scopi essi soffrano e per che cosa essi vivano. Se la vita è un piacere, allora essi sono uomini superflui, inutili; se invece lo scopo e il senso della vita sono la miseria e l’ignoranza invincibile e senza speranza, allora mi riesce incomprensibile a chi e a che cosa serva questo tormento. Non comprendo nulla e nessuno!
Dmìtrij è un uomo di trent’anni, intelligente, buono, sincero, che manda avanti la sua azienda agricola. L’amico, cui rivolge questa drammatica confessione, è la voce narrante del racconto. Ci dice di andare spesso a trovarlo, nella sua azienda, per due o tre giorni e certo perché gli è amico, anche se con una intensità assai minore di quella che Dmìtrij ha per lui. Anzi, l’amicizia di lui, così totalizzante, lo imbarazza. Ma c’è un’altra ragione per cui va a trovarlo spesso, ed è che gli piace straordinariamente sua moglie, Marìja Sergéevna, una donna giovane, molto bella ed elegante. Non che ne sia innamorato, ma gli piacciono il suo viso, i suoi occhi, la sua voce, il suo modo di camminare.
E un’altra confidenza che Dmìtrij fa all’amico, un giorno in cui è loro ospite, è proprio circa il loro matrimonio, apparentemente perfetto e che tutti gli invidiano: non è affatto così; si sono sposati solo per le insistenze di lui, pazzo d’amore. Lei ha ceduto solo alla sesta volta che l’ha chiesta in moglie dicendogli di non amarlo, ma che gli sarebbe stata fedele. E ora questa vita familiare (sono arrivati anche due figli), in cui lui ama senza essere riamato, che non capisce, che lo confonde, è la sua più grande infelicità, il suo più grande terrore.
Giunta la sera, Dmìtrij va a coricarsi presto: la mattina dopo dovrà alzarsi alle tre, e lascia l’amico in compagnia della moglie. E tra i due, dopo qualche schermaglia amorosa, sguardi di desiderio, approcci e ritirate, complice una magnifica notte di luna, si consuma un incontro appassionato, travolgente, anche se per lui vuole essere solo un’avventura («avrei voluto che non ci fosse nulla di serio, non avrei voluto né lacrime né giuramenti né parole sull’avvenire: avrei voluto che quella notte di luna balenasse nella nostra vita come una luminosa meteora e basta»), mentre lei gli rivela il suo amore che dura da due anni e lo supplica di portarla con sé.
Quando Marìja lascia la sua stanza (son giusto le tre…), lui dalla soglia la segue con lo sguardo, ma in quel mentre sopraggiunge il marito:
– Ieri ho dimenticato qui il mio berretto… – disse senza guardarmi.
Lo trovò e se lo calcò in testa con ambo le mani, poi fissò lo sguardo sul mio viso turbato, sulle mie pantofole e proferì con una voce non sua, ma stranamente rauca:
– Si vede che fin dalla nascita sono stato destinato a non comprendere nulla. Se voi comprendete qualcosa, allora… mi rallegro con voi. Nei miei occhi c’è buio pesto.
E uscì tossendo. Poi dalla finestra lo vidi intento, vicino alla scuderia, ad attaccare i cavalli. Le mani gli tremavano, cercava di affrettarsi e si voltava a guardare la casa; pareva in preda al terrore. Poi salì sul tarantas e con un’espressione strana, quasi temesse di essere inseguito, frustò i cavalli.
Dopo poco partii anch’io. Ormai stava sorgendo il sole e la nebbia della notte si stringeva timidamente ai cespugli e ai poggi. […]
Quel terrore di Dmìtrij Petròvič che non mi riusciva di cacciare dalla mente si comunicò anche a me. Pensavo a quanto era accaduto e non capivo nulla. Guardavo le gracchie e mi pareva strano e pauroso che esse giungessero a volare. – Perché ho fatto questo? – domandavo a me stesso, pieno di disperato sgomento. – Perché la cosa è accaduta così e non altrimenti? A chi e per che cosa era necessario che ella mi amasse seriamente e che lui comparisse in camera mia a prendere il berretto? E che c’entra, qui, il berretto?
Quel giorno stesso partii per Pietroburgo; con Dmìtrij Petròvič e sua moglie non mi incontrai più. Si dice che continuino a vivere insieme.
Ecco, Tolstoj non avrebbe mai scritto un racconto così.
La sua fede assoluta, le sue certezze, il suo essere predicatore (per quanto poi nella vita reale fosse tutt’altro che un santo, specie da giovane quando ogni volta che entrava in un’isba si compiaceva con la contadina) non avrebbero mai potuto cogliere i tormenti di un uomo che la vita non la capisce e la teme, anzi ne ha terrore.
Riferimenti
[1] Lettera a Aleksej S. Suvorin, del 13 dicembre 1895. Citata in Anton Čechov, Vita attraverso le lettere. Profilo biografico a cura di Natalia Ginzburg. Einaudi, Torino, 1989.
[2] Lettera a Michail O. Men’šikov, del 28 gennaio 1900. Citata in Anton Čechov, Vita attraverso le lettere. Profilo biografico a cura di Natalia Ginzburg. Einaudi, Torino, 1989.
[3] Lettera a Aleksej S. Suvorin, del 27 marzo 1894. Citata in Anton Čechov, Vita attraverso le lettere. Profilo biografico a cura di Natalia Ginzburg. Einaudi, Torino, 1989.
[4] L’incarico. In Carver Raymond. Da dove sto chiamando. Racconti. Edizioni minimumfax, 2003.
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Una risposta a “Čechov, Tolstoj e il racconto che li divide”
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Un pezzo ben costruito, scorrevole e ricco di spunti. Il dr. Cornegliani ha il pregio di essere allo stesso tempo accessibile e denso di spunti critici. Senza indulgere in toni accademici, riesce a tratteggiare con chiarezza il rapporto tra Čechov e Tolstoj, evidenziando le affinità e le profonde divergenze tra i due autori. Interessante è l’uso delle lettere di Čechov, che non vengono citate solo come testimonianza storica, ma diventano la chiave per comprendere il suo sguardo sul mondo e sulla letteratura.
Il cuore dell’analisi, il racconto Terrore – Racconto di un mio amico, è presentato con un equilibrio efficace tra sintesi della trama e riflessione tematica. L’articoletto mette bene in luce il senso di smarrimento esistenziale del protagonista, il suo essere intrappolato in una vita che non capisce e che lo spaventa, senza appesantire il discorso con analisi eccessivamente tecniche. Il risultato è una lettura che stimola la curiosità, anche per chi si avvicina a Čechov per la prima volta, senza rinunciare a una profondità critica che chi già lo conosce potrà apprezzare. Non conoscevo il racconto di Carver “L’incarico” che andrò a recuperare sicuramente.
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