Cercare la luce. Poesia per le mie ferite

Scrivere versi per rimanere in ascolto.

Quando mi è stato proposto di scrivere un articolo per i Sentieri nelle Medical Humanities, ho subito pensato che tutte le mie poesie, in un modo o nell’altro, nascono da una relazione di cura: degli altri e di me stessa. 

Scegliere di cominciare a scrivere di ciò che vivevo è stata la prima scintilla di questo avere cura: sentivo il bisogno di ritrovare me stessa tra le macerie di quello che era stato, tra tutte le mancanze che si erano accumulate negli anni; sentivo il bisogno di ritrovarmi in mezzo a tutte quelle voci che volevo ritrovare e a cui volevo ridare voce e luce. Così ho cominciato a scrivere quello che poi è diventato Il tempo di una cometa: calcolavo i mesi, i giorni e i minuti che mi separavano da chi non c’era più (“Le nove e cinquantuno e otto anni / di mani lette al contrario / somiglianze, riflessi / come un pendolo da caricare.”), cercavo di comprendere i simboli, come se mi indicassero la via o rivelassero verità nascoste e importantissime, cercavo qualcosa che mi desse di nuovo “la certezza di esistere”. Il lungo viaggio alla scoperta di me stessa e del resto del mondo era iniziato e cominciava dalle mani, «le prime con cui conosciamo il mondo» mi aveva detto qualcuno. E così era stato, senza nemmeno pensarci mi accorgevo finalmente quanto le mani erano sempre state fondamentali per me (“chissà se saremo lontani, / se sarai / le mie mani”; “Rimettevo le mie nelle tue mani / le nostre similitudini”; “sarebbe stato facile trovarsi / anche senza il privilegio / delle mani.”; “Ma le mani sentono tutto / il sapore degli astri”; …).  

Sigmund Freud, nel suo Trauer und Melancholie (Lutto e melancolia), descrive il lutto profondo che si vive in caso di perdita di una persona amata. In questo testo si dice quanto sia importante che “tutta la libido sia sottratta ai legami con quell’oggetto (amato che non esiste più, ndr)” e, ancora, si parla di come “tutti i ricordi e le aspettative in cui la libido era legata all’oggetto, debbano venir evocati individualmente e subiscano una ipercarica, perché si compie il distacco della libido rispetto ad esso”. E proprio per questo occorre che ci sia un “compromesso”; che è necessario fare con la realtà per riuscire a far sì che l’Io torni libero. 

Libertà. Compromesso. Queste due parole sono forse la chiave che mi ha permesso di riconoscere il dolore e dargli una forma, chiamarlo per nome e fare in modo che, avendo una forma, fosse più facile individuarlo e liberarmene. Rinegoziare un nuovo rapporto con la realtà e con il mondo, affinché tutti gli spazi riescano a prendere nuove misure e ad accettare la creazione di nuovi ricordi che, non necessariamente, cancelleranno ciò che già era impresso nella memoria. 

Così, Il tempo di una cometa veniva pubblicato a dieci anni dalla mia prima perdita importante e dopo aver indagato il rapporto che legava Orfeo e Alcesti, l’amore e la morte, l’ubris e il sacrificio perfetto. Il tempo di una cometa cominciava a prendere forma e i protagonisti erano, ancora una volta, loro: Amore e Morte, Eros e Thanatos.  

Isabel Allende in Paula descrive il processo di scrittura dicendo che “altre voci parlavano attraverso di me”, parole che, per similitudine d’esperienza, avrei potuto scrivere io. Come quando aggiunge che “la scrittura è una lunga introspezione, è un viaggio verso le caverne più oscure della coscienza, una lenta meditazione”. 

Oscurità: il punto di partenza per la ricerca della luce. Anche l’inizio del mondo ha luogo grazie a quel “fiat lux”. La luce come inizio della vita o, meglio, come un tornare alla vita. Le parole creano il mondo, anche un mondo immaginario, realtà parallela dove tutto è perfetto. Oppure creano e ri-creano la realtà che è stata e cercano di imprimere per sempre un ricordo. 

Il tempo di una cometa, così come altre poesie scritte da me sia in precedenza che in seguito, hanno cercato a modo loro di far sì che la memoria restasse come eterna e che i ricordi, cioè quella memoria che torna al cuore, restassero per sempre, pur lasciando spazio al nuovo. Sì, la mia raccolta di poesie è stata un po’ questo: offrire un omaggio sincero a chi mi aveva lasciata, cercando di donare una testimonianza di quello che era stato, non come confessione, ma come racconto fedele di ciò che sentivo. Ed è stato, come diceva Freud, un rinegoziare il rapporto con la realtà. La poesia che chiude Il tempo di una cometa racconta proprio questo, racconta il non voler perdere nemmeno un dettaglio del tutto. 

“Se durassero per sempre / i ricordi, non chiuderei gli occhi / per cercare. / Invece li strizzo, tengo le mani / ripercorro strade. / Ti ho impresso negli occhi per sempre / come se mai dovessi rivederti.” 

Ricordare per colmare i vuoti, per svuotarsi e trovarsi pieni di nuovo, anima: “crescere voleva dire perderti per sempre, / ritrovarmi completa”. Far sì che le ferite diventino feritoie: non più aperture sghembe e dolorose, da cui ferire o generare altra sofferenza, ma luoghi da cui far passare la luce. Cercare questa luce scrivendo poesie per curare la mia anima. 

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