Come Penelope, meglio di Penelope
Fare e disfare, ma sempre fedeli all’obiettivo
2 Ottobre 2023 – EOC, Casi clinici, Depressione, Dolore, Narrazioni, PsichiatriaTempo di lettura: 8 minuti
2 Ottobre 2023
EOC, Casi clinici, Depressione, Dolore, Narrazioni, Psichiatria
Tempo di lettura: 8 minuti
Sguardo sfuggente ma spaventato, mimica tesa, voce flebile, movimenti al rallentatore. Visi pallidi, braccia che pare impossibile possano sollevare una penna, cosce che non devono sfiorarsi. Anatomia di corpi sempre identici.
Apparentemente senza vita, in realtà ciascuno custode di almeno due personalità: quella del soggetto e quella della malattia.
«C’è una Maria che mi spinge a mangiare, a non muovermi, a non indurmi il vomito, e sull’altra spalla una Maria che mi suggerisce di restringere, di nascondere il cibo, di consumarmi con lo sport».
La vita ad un passo eppure inafferrabile, una funzione vitale, l’alimentazione, che viene meno non per scelta. Una voragine che si apre e fagocita il soggetto in una spirale di depressione. Appiattimento emotivo, repressione della rabbia, alterazione della percezione corporea. Involucri e sintomi sempre uguali, razionalmente impossibili da spiegare. L’angoscia, palpabile sempre. Persone, però, diverse.
Smentita la vecchia teoria che annovera i Disturbi restrittivi come patologie “da ricchi”, corpi fino all’osso appaiono tra bambini, giovani, adulti … in ogni classe sociale… indipendentemente dal contesto culturale di appartenenza. Di seguito la testimonianza di una donna di mezza età, professionista in ambito sanitario, donna colta e raffinata.
45°49′ N 8° 50′ E 383 m s.l.m.
Queste le coordinate esatte del punto in cui la faglia si aprì, sotto ai miei piedi, facendo precipitare il mio corpo negli abissi. Non c’era luce là sotto. Non c’era il sole, né le stelle. Era tutto avvolto dal buio. Non c’era aria, non c’era acqua, non c’era cibo. Nulla. Il resto del mondo era talmente distante che nemmeno urlando a pieni polmoni avrebbe udito la mia voce. Rimasi da sola, al freddo, in compagnia dei miei pensieri, anch’essi oscuri. Una sola cosa era chiara: la certezza di aver commesso qualcosa di terribile per cui meritarmi quella fine. Sperimentare la sensazione di non avere alcun valore, per nessuno, spense lentamente l’idea che qualcuno sarebbe venuto a cercarmi laggiù. Ero un’anima persa, sepolta ancora viva. La certezza di non essere in grado di poter tornare in superficie da sola, mi fece lentamente abbandonare ogni tentativo di autoconservazione.
Infine, la luce filtrò da una breccia.
Mi risvegliai in un letto d’Ospedale.
Passare rapidamente dal non avere nulla all’avere tutto, può confondere talvolta.
Per questo inizialmente diffidai e rifiutai quella luce, quell’aria, quell’acqua e quel cibo. Diffidai del fatto che quelle persone fossero sincere nel volersi prendere cura di me. Rifiutai l’idea di poter meritare quell’aiuto. Eppure, c’era. Era lì per me e per tutte le altre anime sgualcite che incontravo in corridoio. Poter allungare la mia mano e toccare le ferite di chi mi era accanto, mi fece presto comprendere di non essere sola. Abbandonai i miei abiti logori su una sedia e accettai che qualcuno si prendesse cura del mio corpo, consumato, ma ancor più, della mia anima frantumata.
Per quanta delicatezza si possa utilizzare, toccare le ferite fa soffrire. Piansi. A lungo. Ma nel pianto ritrovai qualcosa di prezioso che avevo perso: la fiducia di poter superare tanto dolore. Le ferite si possono chiudere, ma infine rimarrà la cicatrice, sempre. Ormai avevo capito quale fosse la direzione da percorrere, faticosamente e dolorosamente. Uscendo dall’Ospedale mi voltai piangendo, solo per rubare ancora un ultimo sguardo a quel posto che mi aveva restituito tutto: Centro DCA, 4° piano dell’OBV.
Allontanandomi pensai che realmente non esistesse nessun altro Centro di degenza al mondo in cui si pianga nel momento della dimissione. Perché in quel Centro, ogni giorno, è un giorno di vita.
Era tempo di andare a cercare la mia vita fuori.
Il lavoro certosino da tessere è ricostruire una trama. Per farlo è necessario un approccio multidisciplinare poiché ogni filo ha un colore diverso. L’équipe multidisciplinare del Centro Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA), sito all’interno dell’Ospedale Beata Vergine, ma facente capo alla Clinica psichiatrica cantonale (CPC) di Mendrisio dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC), risponde proprio al bisogno di ricomporre le complesse crepe di questi tessuti. Si accolgono pazienti in regime di ricovero per alcuni mesi, ma soprattutto si accompagnano vite in percorsi ambulatoriali di lunga durata, per anni.
Medici psichiatri, psicologhe psicoterapeute, infermieri in salute mentale, dietista, consulente internista, fisioterapisti, ergoterapista… ogni figura terapeutica è fondamentale per aiutare il paziente, partendo dalla narrazione della storia del suo disturbo, dalla comprensione di cause e dinamiche che stanno alla base della sua origine, passando dalla psicoeducazione sui comportamenti alimentari disfunzionali, al lavoro psicocorporeo sulla distorsione dell’immagine, all’accompagnamento infermieristico ai tanto temuti pasti. Incontri individuali, terapie di gruppo, attività extraospedaliere, interventi sulle famiglie al domicilio, reinserimento scolastico, accompagnamento alla ripresa lavorativa; contatti con i genitori, i partner, le scuole, i datori di lavoro. Corpi. Anime. Personalità. Famiglie. Struttura e funzionamento. Emozioni e sentimenti. Comportamenti. Pensieri. Autostima. Relazioni. Ogni ambito è compromesso, ogni aspetto richiede attenzione, cura, accoglienza, terapia.
Un lavoro meticoloso ed estenuante che rimanda alla figura mitologica della fedele moglie di Ulisse nel suo procedere e retrocedere. I terapeuti stessi, persone, vengono confrontati costantemente con la frustrazione di risultati che impiegano mesi, se non anni, ad arrivare. Assistere alla fatica nell’accettazione di un corpo che cambia, alla resistenza ad uno stato di salute che dovrebbe essere ambizione di ogni individuo, al disgusto di sé e della propria immagine possono apparire come “passi indietro”, “trame disfatte” dagli operatori impegnati in questo Centro. E possono sollecitare in essi sentimenti di disillusione, di inappagamento, di immedesimazione nel dolore del paziente.
Un lieve aumento di peso, un sorriso che spezza mimiche rigide, un barlume di consapevolezza che affiora sulle labbra, consumare il pasto in un tempo più ridotto e con meno angoscia sul volto. I terapeuti si entusiasmano con il paziente, ne sostengono l’impegno e la necessità di perseveranza e tenacia. E poi di nuovo la rabbia di fronte al numero che cresce sulla bilancia che riporta nella restrizione, la caduta del tono dell’umore, la minaccia dell’interruzione del percorso terapeutico. L’équipe multidisciplinare stessa continua ad elaborare al suo interno, tramite intervisioni e supervisioni, gli inevitabili vissuti di frustrazione che la cura di un Disturbo di Psiche e Soma reca con sé e con solidità ed empatia accompagna il farsi e disfarsi di questa tela perché il disegno si ricomponga e innanzitutto la malattia venga vista per quella che è: come nel disegno di una giovane paziente.
Cosa ne pensi?
Condividi le tue riflessioni
e partecipa al dialogo
Lascia un commento