Cosa c’è di speciale nella musica?
Riflessioni di Andrea Casale, farmacista e cantautore, sul potere della musica su di noi.
10 Agosto 2023 – Medical Humanities, Arte, Comunicazione, Musica, NeuroscienzeTempo di lettura: 8 minuti
10 Agosto 2023
Medical Humanities, Arte, Comunicazione, Musica, Neuroscienze
Tempo di lettura: 8 minuti
«Attenti alla musica. Può essere pericolosa. Può farti sentire così vivo, così connesso alle persone intorno a te e connesso a ciò che sei veramente dentro. E può farti pensare che il mondo dovrebbe e potrebbe essere un posto molto migliore. E solo occasionalmente, può renderti molto, molto felice.» – Peter Gabriel
Poche esperienze possono dirsi universali quanto la musica. La musica è con l’essere umano fin dalla notte dei tempi e tutti noi, cultori incalliti o ascoltatori distratti, ne facciamo uso quotidianamente. Nel 2012 collaboravo come volontario con alcuni festival jazz in Puglia ed ebbi l’onore di portare in auto il noto batterista Billy Hart (ha suonato con Herbie Hancock, Stan Getz e Wayne Shorter, solo per citarne alcuni). Nel viaggio da Roma a Taranto ingaggiai con lui una conversazione sul rapporto tra musica e ascoltatore medio. Mi rimproverò amorevolmente quando, perentorio, affermai che «ci sono persone che non hanno una loro visione della musica» e che conoscono solo le due o tre canzoni del momento, quelle che passano in radio e durano il tempo di una stagione. Hart mi rispose che anche questi “non-appassionati” hanno comunque una loro visione della musica, e che questa, parimenti alle altre visioni, ha la stessa ragione d’essere. Non ho mai smesso di pensare a questa frase, ma solo di recente credo di essere arrivato alla conclusione che, sì, in effetti, quello straordinario batterista aveva proprio ragione.
La relazione tra musica e medicina, nella Grecia Antica, venne attribuita ad Apollo, il dio delle arti. Ai nostri giorni, questo rapporto duraturo trova una sua concreta applicazione nella così definita “musico-terapia”, ma non solo. Infatti, la connessione tra musica e medicina è anche un argomento di sempre crescente interesse per i ricercatori, soprattutto nel campo della neurologia e della psichiatria.
La musica ha dimostrato d’influenzare l’attività cerebrale e la connettività neuronale. L’ascolto stimola diverse aree del cervello, tra cui l’amigdala, coinvolta nell’elaborazione delle emozioni, e il sistema dopaminergico, associato al piacere e alla ricompensa.
L’effetto della musica sulla neuroplasticità (capacità del cervello di adattarsi e cambiare) è particolarmente interessante. La pratica musicale regolare è stata associata a un aumento della densità di materia grigia in alcune regioni cerebrali coinvolte nell’elaborazione uditiva e motoria, nonché a una maggiore connettività tra le diverse aree del cervello. Questi cambiamenti possono avere benefici a lungo termine sulla funzione cognitiva e sulla capacità di apprendimento.
Però, al di là delle implicazioni che la ricerca sta mostrando sulla relazione tra musica e neuroscienze (e, più in generale, medicina e salute) quello che mi ha sempre personalmente affascinato è il rapporto estremamente emotivo e intimo che molte persone – come me – hanno con la musica. Faccio il farmacista e sono un cantautore. Forse, proprio per questo,
ho sempre pensato alla mia collezione di dischi come al cassetto delle medicine nel quale trovare il giusto rimedio per le turbe dell’anima.
Posso sentirmi triste, volermi crogiolare nella malinconia e ascoltare Nick Drake. Scelgo invece Esperanza Spalding quando voglio essere stupito e i Genesis per sentirmi a casa. Metto su Ayanna Witter-Johnson quando desidero che tutto sia possibile o Luciano Berio e i Gentle Giant per smarrirmi. Ricorro a Charles Aznavour se ho bisogno di essere rassicurato. Ho spesso sognato – colpa della deformazione professionale, direi – una mia “farmacia della musica” con la quale curare gli stati d’animo dei miei pazienti. Al «Dottore, mi dia qualcosa che mi tiri un po’ su», che bello e che piacere sarebbe, anziché dispensare integratori di qualsivoglia tipo e gusto, consigliare un bel disco di Curtis Mayfield o di James Brown?
Un’altra riflessione che spesso mi capita di fare è quella di pensare al cosa sia veramente questa “musica”. Le mie conclusioni sono sempre, bene o male, le stesse:
la musica non è solo intrattenimento e non è “solo” arte ma è anche uno dei mezzi di comunicazione più potenti che esistano.
La musica arriva direttamente al cuore delle nostre emozioni. Le canzoni interagiscono con i nostri neuroni e provocano cambiamenti nel nostro cervello, modificano l’umore, consolidano i ricordi, rafforzano buone e cattive abitudini. Qualcuno sostiene che possano addirittura farci innamorare o salvarci la vita – che poi, in fondo, non sono forse la stessa cosa? La musica apre i canali del sentire, quelli normalmente messi da parte dall’abitudine, dall’individualismo o dalle esigenze della vita quotidiana. Nel suo libro del 1872, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, Nietzsche descrisse due forze opposte all’opera nelle nostre vite. La prima è l’attrazione dell’ideale apollineo, che prende il nome proprio da quell’Apollo citato in precedenza, dio del sole, dell’ordine, della luce e della conoscenza. L’altra, contraria, la chiamò dionisiaco, da Dioniso, dio greco del vino, del caos, dell’irrazionalità e della libertà. Il grande filosofo tedesco credeva che entrambe queste forze, apollineo e dionisiaco, fossero necessarie sia nella vita individuale che in quella collettiva. Dobbiamo essere riflessivi e sobri, ma anche istintivi e aperti all’irrazionale, teorizzava. Combinando queste due forze procediamo, spesso inciampando, verso la maturità. Per questo
la musica e la danza hanno tanta importanza per Nietzsche («senza musica la vita sarebbe un errore»), perché ci forniscono un ambiente in cui le parti trascurate della nostra personalità possono essere riscoperte e riconciliarsi.
E allora, mi piace credere che il “brivido lungo la schiena” che sentiamo ogni tanto quando ascoltiamo quel pezzo, sia proprio il segno dell’incontro tra i nostri desideri più profondi, reconditi, la riconciliazione con essi, il loro arrivare a noi con maestà alienata.
Non mi sono mai trovato, o almeno non per ora, a pensare che un album o una canzone mi abbiano salvato. Ma se persino una leggenda della musica come Elton John ha dichiarato che la canzone di Peter Gabriel “Don’t give up” – splendido duetto con Kate Bush – gli ha impedito di «cadere nel baratro», direi che non abbiamo alcuna ragione per essere scettici e non credere a questa potenza salvifica delle note. Chiaro, voi direte, è senz’altro un caso estremo questo di John e lo so, per la maggior parte di noi la musica non allevia i tormenti e non dà risposte agli interrogativi esistenziali. Tuttavia, citando di nuovo Peter Gabriel, penso davvero che la musica possa «aiutarci a porre le giuste domande». E, fidatevi, soprattutto di questi tempi, è già molto!
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4 risposte a “Cosa c’è di speciale nella musica?”
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Ben scritto, Andrea
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Bell’articolo, molto “Gabriel-oriented”, comunque sagace.
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Consiglio di lettura “Con la musica. note e storie per la vita quotidiana” di P. Leveratto edizioni sellerio
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Brian Auger funziona quando l’ipofisi è in panne.
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