«Crepe»

Intervista allo scrittore Marco Steiner 

Lo scorso 15 marzo, ho avuto la fortuna di moderare un incontro presso La Casa della Letteratura per la Svizzera italiana tra gli scrittori Paolo Milone, amico di lungo corso della Fondazione Sasso Corbaro (qui potete rivedere la presentazione del suo L’arte di legare le persone) e Marco Steiner.  

La serata, grazie a Paolo e Marco, è stata un vero successo. Non solo i biglietti per l’evento sono andati, come si dice, “sold out”, ma il pubblico, molto entusiasta, si è soffermato a lungo alla conclusione a parlare con i due ospiti, facendo loro domande e ascoltando incuriositi i molti aneddoti che questi avevano ancora da raccontare.  

Il fortunato moderatore ha poi avuto il piacere e l’onore di continuare la serata andando a cena con i due scrittori. Chiacchierando del più e del meno, “tra un bicchier di vino ed un caffè”, ho potuto conoscere meglio Marco Steiner, raccontargli di questa rivista, delle altre attività di cui si occupa la Fondazione e, soprattutto, gli ho strappato la promessa che saremmo rimasti in contatto…  

Beh, quella promessa è stata da entrambi mantenuta.  

© Marco D'Anna
© Marco D’Anna

Marco, visto che a marzo alla Casa della Letteratura ci è stato proposto dagli organizzatori di «navigare l’ignoto, attraversare la follia» e visto che proprio di quest’ultima, la follia, ti chiesi quella sera di darmi una tua definizione… ti va di riproporla anche qui, ai i lettori dei Sentieri? 

“Follia”, servono diverse parole per descrivere questo concetto: alienazione da sé, sentirsi in un altrove, non quello dei poeti, ma in un’assenza o in una realtà diversa, un’esasperata soggettività e poi disorientamenti, smarrimenti, traumi, fragilità, disagi più o meno importanti e duraturi, percorsi e derive che ci parlano di sconfinamenti, rasentano la “follia”, ma fondamentalmente ci raccontano che siamo tutti feriti, che siamo, in qualche modo, frammenti dello stesso dolore” come ho scritto nel romanzo La nave dei folli 

Questo metaforico navigare l’ignoto per attraversare la follia diventa, dunque, un tentativo di viaggio verso la nostra sanità originaria della nascita ed è un vero percorso con cui si affina e rinforza la capacità di vivere e affrontare la vita, nonostante traumi, fragilità e vulnerabilità, con cui dobbiamo, inevitabilmente, fare i conti.  

© Marco D'Anna
© Marco D’Anna

È giusto, dunque, parlare di crepe, ferite, cicatrici che possono aprirsi e riaprirsi al ripetersi di determinate situazioni. «Nella vita, come nel mare, ci sono momenti di tempesta, momenti di calma, nebbie fitte e dense, nuvole basse, il vuoto oppure il sole abbacinante. È la vita. Siamo su questa nave per ritrovarci, per riunire i lembi delle nostre ferite…in certe circostanze può succedere di essere vicini alla morte, oppure vicini al momento in cui ci si sente spegnere come una candela sfinita, non importa qual è stato il motivo che ci ha portati a quel punto, eppure, ogni volta, attraverso un racconto, un incontro o una semplice frase si può ritrovare una maniera diversa per continuare a vivere…» (tratto da La nave dei folli) 

A queste mie parole aggancerei i versi di Leonard Cohen: «There is a crack, a crack in everything, that’s how the light gets in…». C’è una crepa, una crepa in ogni cosa – canta Cohen nel suo magnifico brano Anthem – ma è da lì che entra la luce – aggiunge. Queste crepe, segni, cicatrici raccontano senza bisogno di inutili parole i nostri passaggi, i transiti, i superamenti e fanno intravedere la nostra personale, unica e irripetibile storia.

Serve però attenzione per vedere oltre quelle crepe e cicatrici, serve immaginazione e ascolto profondo per interpretare le parole non dette.

Non mi sono mai piaciute le cose troppo perfette, lucide, patinate. Non mi è mai piaciuto scrivere su un tavolo dal piano di vetro, preferisco appoggiare le mani, la carta o il computer su una superficie di legno, meglio se un po’ usurato, un legno che abbia vissuto una storia. 

Ricordo che un giorno, durante un viaggio in Argentina, entrai in un caffè a Buenos Aires, mi trovavo nel quartiere di San Telmo, ma era sera tardi e c’era poca gente in giro, alle pareti campeggiavano ritratti di scrittori e personaggi che avevano frequentato nel tempo quel famoso locale, c’era il mitico cantore del Tango Carlos Gardel e altri musicisti con fisarmoniche o chitarre fra le mani e poi c’era una fotografia di uno dei miei scrittori preferiti, Jorge Luis Borges, aveva il suo tipico sguardo sognante e un po’ annebbiato, l’intera immagine era tagliata in due da un filo di fumo che saliva in verticale da una sigaretta infilata fra le sue dita. Il tavolo a cui ero seduto era vecchio, usurato, segnato in più punti da incisioni che sembravano unghiate nere, sui bordi era macchiato dalle bruciature lasciate da sigarette consumate e dimenticate in silenzio. «Questo è il tavolo dove si sedeva quel Metafisico Immortale, señor». Mi disse il titolare del locale indicandomi la fotografia quando mi vide sfiorare una di quelle macchie nere. Sorrisi e per ringraziarlo della complicità ordinai un altro bicchiere di Malbec. 

Quella “cicatrice” mi riportò dentro ai “labirinti” e fra le nebbie delle “finzioni”. Quei segni neri sul tavolo mi disegnarono i fiumi di parole che quell’immenso scrittore era stato capace di tracciare esplorando le profondità dell’animo umano per poi vagare al di fuori dalla realtà, per raccontare storie libere da ogni confine e limite spazio-temporale. «L’unica vera letteratura è quella fantastica a partire dal viaggio di Ulisse, il resto può essere definito storia o, al limite, buon giornalismo, ma il racconto della realtà non basta» diceva Borges in una magnifica intervista rilasciata allo scrittore Arbasino che avevo ascoltato decine di volte. 

Tu hai scritto di recente quella che io definirei una dualogia ideale sulla follia, composta da Isole di ordinaria follia (un’opera ibrida e frammentaria che mischia la non fiction, la fiction e la fotografia di Marco D’anna e Gianni Berengo Gardin) e da La nave dei folli (un romanzo puro, una straordinaria avventura nei mari del mondo e… della mente). Mi parli un po’ di questi libri: cosa li lega a te e cosa li lega tra di loro?  

Questi libri raccontano in due diverse modalità l’attitudine all’ascolto che mi ha guidato fin dal primo momento in cui mi sono ritrovato negli archivi dell’ex-manicomio di San Servolo, un’isola malinconica, luminosa e oscura allo stesso tempo, un pezzo di terra infilata nel mezzo della laguna veneziana, ma profondamente diversa dalle atmosfere di maschere e le luci della sfavillante piazza San Marco.  

La prima volta, ci sono entrato, guidato dall’eccezionale lavoro fotografico sui manicomi realizzato da Gianni Berengo Gardin negli anni ‘70, volevamo tornare insieme negli stessi luoghi a distanza di tempo (cinquant’anni) per raccontare e fotografare i cambiamenti e, soprattutto, quello che era rimasto. Poi, però, a causa di un problema di salute del Maestro sono arrivato a San Servolo soltanto con Marco D’Anna e il mio caro amico psicologo, Antonio Dragonetto, che da anni andava lì a studiare le cartelle cliniche dei ricoverati e che aveva già preparato il terreno alla nostra visita con la direzione del Museo della Follia e con gli archivisti. Berengo mancava, ma avevo ancora negli occhi le sue fotografie e le immagini dei suoi “matti”. Il Maestro sarebbe stata una presenza fondamentale per quel lavoro, stavo per rinunciare, ma spinto dall’entusiasmo dei miei due compagni di viaggio ho deciso di avventurarmi sull’isola.  

E lì è iniziato un vero viaggio immaginario. Immediatamente, appena entrato nei locali dell’archivio, sono stato avvolto e circondato dalla mole delle schede diagnostiche di ammissione e mi sono reso conto che quel manicomio era stato aperto nel 1725 e chiuso nel 1978. Ho letto le ultime cartelle e ho avuto in mano i primi registri di ammissione, fra questi c’era un antico volume ingiallito vergato con una magnifica calligrafia, l’occhio si è soffermato sul nome di un ricoverato che si chiamava Mattio Lovat, un ciabattino di Forno di Zoldo, un paese delle Dolomiti bellunesi che si era auto-crocifisso perché voleva salvare il mondo dal peccato e in pratica era diventato “folle” per una delle ragioni più comuni in quelle valli a quell’epoca: la povertà. Molti individui in quelle zone si cibavano quasi esclusivamente di polenta e, privi degli apporti nutritivi dei cibi freschi, erano affetti da una malattia piuttosto diffusa, la pellagra, una carenza, o meglio, il mancato assorbimento delle vitamine del gruppo B con conseguenze, in determinati casi, disastrose. Allora la pellagra, la malattia della pelle “agra”, cioè secca e squamosa veniva definita la malattia delle 3 D: dermatite, diarrea e demenza, appunto. 

Povertà, malattia, delirio, disperazione che portano inesorabilmente alla malattia mentale, questo è stato il mio primo contatto con la “follia”.

Poi mi è capitata fra le mani un’altra cartella clinica, quella di una paziente molto più recente, la sua diagnosi di ammissione era: “Ipomoralità costituzionale”. Sono rimasto allibito, mi sono informato meglio e sono entrato in quella storia, la tragedia di una ragazzina che subisce violenza dal padre, fugge dalla famiglia per evitarlo e liberarsi da lui, viene avviata alla prostituzione da un paio di “amici”, ma appena viene a sapere che suo padre è morto tenta di evadere da un istituto di suore nel quale, nel frattempo, è stata rinchiusa, ma si ferisce al braccio rompendo una vetrata, viene ricoverata in ospedale e quell’incidente viene interpretato come un tentativo di suicidio in soggetto affetto da “ipomoralità costituzionale”. Quella ragazzina, me la sono ritrovata davanti, era diventata col passare del tempo una donna, c’era la sua fotografia sulla scheda e mi fissava.

Quegli occhi erano due crepe.

Quella donna era rimasta rinchiusa a San Servolo per tutta la vita, fino alla chiusura del manicomio, agosto 1978, a seguito dell’entrata in vigore della legge 180, la legge Basaglia. «Non scriva il suo nome, la signora è ancora in vita e vive in una struttura protetta perché ha perso ogni capacità di vita autonoma». Mi ha detto gentilmente il Direttore del Museo del manicomio. Quel nome non l’ho scritto, ma non dimenticherò mai quello sguardo e quella storia e, soprattutto, la pochezza e l’inconsistenza psichiatrica delle diagnosi di ammissione di quasi tutti gli altri casi. 

Isole di ordinaria follia è nato così, le cartelle erano tantissime, ma ho cercato di dare voce a sette personaggi femminili e a sette maschili immaginando le loro storie drammatiche e, a volte, ruvidamente poetiche. Non ho voluto scrivere storie precise e circostanziate, ho provato a immergermi nelle loro esistenze liquide e negate. Ho provato a immaginare quelle quattordici esistenze come fossero i sette figli e le sette figlie di Niobe, la madre diventata “folle” perché gli dèi per punirla della sua “Hybris”, la tracotanza, le avevano ucciso l’intera prole condannandola a diventare una fontana di pietra che potesse, come estrema bonaria concessione, piangere per sempre, nel silenzio, il suo immenso dolore ed essere di monito agli altri esseri umani.

Ho provato ad ascoltare le voci di chi non aveva potuto esprimere la propria voce. 

Ma dopo questa storia, anzi, dopo essere entrato in queste storie non mi potevo fermare perché certi argomenti smuovono l’anima e la mente e così, anche in virtù alla mia propensione alla scrittura d’avventura in particolar modo marina, ho immaginato di far arrivare a San Servolo, in una strana notte rischiarata da due lune, un veliero misterioso. È nato così il secondo romanzo, La nave dei folli, volevo immaginare una possibilità di fuga, o forse di riscatto e di recupero esistenziale per alcuni degli internati guidati da un marinaio, un uomo che era riuscito ad avere una conversazione liberatoria con un dottore diverso dagli altri, un medico che era riuscito ad ascoltarlo e, in qualche modo, ad avviarlo al confronto con i dolori del suo passato. In questo secondo romanzo c’è un viaggio Fantastico verso un altrove possibile, c’è qualcosa che sembra una fuga, ma nel corso di quest’avventura racconto soprattutto la visione e il superamento del disagio, il transito verso la vera Isola del Tesoro: la guarigione. 

Per quella chiacchierata di marzo, ho cercato qualcosa che mettesse te e Paolo Milone su un terreno neutro – tipo quei match sportivi giocati da entrambe le squadre “fuoricasa”. Avevo bisogno di proporvi un testo che legasse la malattia mentale e la letteratura ma che vi distanziasse da quanto avevate già scritto a riguardo. A venirmi in aiuto è stato un libro per me molto importante, Morire di Classe del 1969, ripubblicato come Manicomi, di Gianni Berengo Gardin, le cui foto – in realtà, i contact sheet di quelle foto – sono anche presenti nel tuo Isole di ordinaria follia. All’interno di Manicomi, che è un insieme di reportage fotografici fatti da Gardin tra il 1968 e il 1970, da Parma, Gorizia, Firenze e Venezia San Servolo (l’isola da cui parte l’avventura di Indio, il protagonista de La nave dei folli), c’è un saggio che si intitola Che cos’è la psichiatria? scritto da Franco Basaglia, lo psichiatra padre di quella legge 180 che nel 1978 decretò, almeno sulla carta, la chiusura dei manicomi in Italia. Ah, tra l’altro, quando Che cos’è la psichiatria? venne pubblicato per la prima volta nel 1967 recava in copertina un autoritratto del tuo grande amico Hugo Pratt, con una camicia di forza non allacciata – che potenza quell’immagine! Franco Basaglia che lo scorso 11 marzo avrebbe compiuto 100 anni, parla in questo saggio di psichiatria, partendo dalla letteratura e citando Sartre: «C’è un’ambiguità nelle parole: – da un lato non sono che parole – “letteratura”; dall’altro designano qualcosa e a loro volta agiscono su ciò che designano: modificano. La letteratura deve giocare su queste ambiguità. Se si pone l’accento più sull’uno che sull’altro aspetto, o si fa della letteratura di propaganda o la si riduce a quel nulla che non vuol essere… Ma se si mantiene fermamente l’ambiguità, se non si sacrifica né l’uno né l’altro aspetto delle parole, si sarà già a buon punto per fare la vera letteratura: una contestazione che contesta sé stessa». Siccome i tuoi libri non mi sono sembrati né letteratura di propaganda, né «quel nulla che la letteratura non vuol essere», mi dici il perché della scelta di parlare di malattia mentale utilizzando la tua arte?  

Perché per principio generale e metodo naturale racconto quello che sento senza pormi un obiettivo intellettuale o una precisa destinazione narrativa e quello che ho vissuto fra le cartelle diagnostiche di quell’isola aveva smosso l’ex-medico che vive ancora in me, cioè l’uomo che vuole capire e, se possibile curare, e lo scrittore e il viaggiatore che sono diventato dopo aver dato una svolta alla mia vita. Il medico voleva ascoltare in profondità determinate vicende, ma lo scrittore non voleva farne un trattato da analizzare come fosse una fredda sezione anatomopatologica da distendere sopra a un vetrino per poi studiarla al microscopio. Tempo fa ho scritto una frase che riassume questo concetto:

«Per vedere le cose, non devi guardare le cose, devi sbatterti dentro, graffiare sul fondo, sanguinare e, dopo, uscirne ridendo».

Questo è il motivo per il quale ho scritto questi due libri che considero una mia ricerca personale sulla sofferenza, la solitudine, il disagio, l’incomprensione e l’ascolto, ma con un ampio spazio dedicato alla possibilità e alla necessità, tramite il superamento delle difficoltà, di uscire dall’abisso per ricercare aria nuova e un orizzonte diverso e luminoso. «La mira dell’artista deve essere superiore a quella dell’arciere, perché punta all’infinito», scriveva Valentino Zeichen un poeta anticonformista che ha conosciuto l’emarginazione e il dolore. 

Cambio ora totalmente argomento. Tu sei un grandissimo viaggiatore. Se il Novecento è stato, secondo alcuni, il secolo del “tempo”, adesso si dice che siamo nell’epoca dello “spazio”. Quanto i luoghi geografici che hai visitato e frequentato hanno influenzato la tua scrittura?  

© Marco D'Anna
© Marco D’Anna

I luoghi geografici che mi hanno ispirato maggiormente sono quelli vuoti, cioè totalmente liberi, i deserti di varie zone geografiche del mondo; i tratti di mare sconfinati dove non si vedono coste, ma solamente l’incerto confine fra cielo e mare; le pampas della Patagonia; le candide distese di sale che diventano azzurre, rosa o viola con il cambiare delle luci; le steppe gelide della Mongolia. Sono luoghi liberi e aperti al passaggio e all’immaginazione, sono un po’ come dei fogli bianchi sui quali è possibile intravedere e scrivere storie.  

Arriviamo ora alla forma del tuo scrivere. Tu intervalli nei tuoi libri una prosa poetica – a volte inserisci delle vere e proprie poesie – con una prosa, passami il termine, più “tradizionale”. Perché questa scelta?  

Perché ho cambiato e forse migliorato il mio modo di scrivere da quando ho iniziato a leggere le mie storie a voce alta e in certi momenti sentivo la necessità di una pausa, per uno sguardo a chi mi stava ascoltando o per immaginare meglio la situazione che avevo appena descritto, 
come in questo momento. 
Si sta bene con uno spazio libero, 
lo sguardo si distacca dalla riga, 
c’è una specie di confronto con il lettore, 
quasi un respiro, 
una musica lontana, 
si ascoltano le parole, 
determinati momenti diventano note invisibili, 
e si percepiscono i silenzi fra le parole, 
che non sono vuoti.
Per questo in certi momenti sento il bisogno di scrivere così.
 

Un amico esperto di letteratura ha definito questo procedere letterario “prosimetro”. Racconto storie, emozioni, fatti e stati d’animo in “quasi versi” per cercare di arrivare al centro di ogni lettore. 

Dopo le parole, in chiusura, vorrei che parlassimo anche di arti visive: di fotografia, fumetto e cinema… dei tuoi amici Marco D’Anna (fotografo), Hugo Pratt (fumettista), Stefano Knuchel (regista)… che ruolo hanno giocato e giocano, nella tua vita e nella tua produzione, queste arti e queste relazioni con altri artisti? 

Ti ringrazio per questa domanda, la risposta mi viene estremamente naturale:

la mia scrittura è nata fin dall’inizio dalla visione.

Ho iniziato a scrivere professionalmente partendo dai fumetti di Hugo Pratt, ho collaborato con lui nel trasformare in romanzi due delle sua grandi storie: Una ballata del mare salato e Corte Sconta detta Arcana come ho detto prima, non ho scannerizzato e trasformato in letteratura le sue storie, l’inizio di tutto è proprio qui, Pratt mi ha concesso la magnifica libertà di “entrare” nelle sue storie e modificarne certi particolari e situazioni, mi ha stimolato ad espandere lo sguardo oltre al susseguirsi delle vignette e come in un vero viaggio iniziatico, ho scoperto che lui stesso aveva lasciato tracce, personaggi da approfondire, piste da cui partire per magnifiche digressioni, veri e propri vagabondaggi letterari. 

Poi sono arrivati quindici anni di viaggi con Marco D’anna in giro per il mondo sulle tracce imprecise di Corto Maltese nei luoghi reali attraverso i quali quel personaggio di fantasia non era mai passato cento anni prima. Dovevo scrivere le prefazioni a tutte le avventure di Corto e Marco D’Anna doveva trovare suggestioni più che carpire immagini in quei luoghi. Questi viaggi sono stati fondamentali per me per cercare ogni volta di ascoltare oltre ai racconti delle persone che incontravamo lungo la strada, anche le atmosfere dei luoghi geografici. Non dimenticherò mai il silenzio e lo spazio di mare libero visibili dalla tomba di Robert Louis Stevenson situata ad Apia, in cima al monte Vaea. Da lassù, accanto a quelle pietre bianche, in mezzo agli alberi smossi dal vento, guardando il Pacifico ho respirato il concetto di infinito.  

Poi ci sono stati l’infinito sferragliare, i gelidi paesaggi e gli incontri impensabili avvenuti sui treni che percorrono la Transmongolica e la Transiberiana che separa Pechino da Mosca e tanti altri percorsi in diversi luoghi del mondo. Quei viaggi sono stati un caleidoscopio magico in cui si alternava una giostra di immagini reali e di immaginazione. 

E poi non posso non nominare quel “visionario” di Stefano Knuchel perché lavorare con lui alla sceneggiatura del documentario Hugo in Argentina è stato ancora una volta entrare fisicamente nella storia di quel periodo fondamentale della vita di Hugo Pratt. Parlare con lui, leggere brani appena scritti per lui, viaggiare con lui è stato entrare davvero in un mondo di visioni, non di semplici immagini da mettere in fila. Il suo metodo rigoroso di consultare gli archivi per poi collegare le realtà storiche alla più libera fantasia sono la dimostrazione che la tecnica narrativa prattiana ha segnato un magnifico sentiero da percorrere per continuare a inventare storie in una maniera assolutamente originale e autentica.

Allargare l’immaginario dei lettori per me vuol dire restituire un regalo che la vita mi ha fatto, per questo scrivo, a cominciare da queste parole chiave: «C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce». 

Marco Steiner 
12 giugno 2024  

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