«Curare significa non abbandonare il paziente alla prigione della malattia»
Intervista allo psichiatra e scrittore Paolo Milone in occasione della recente uscita del suo ultimo libro, Una piccola fine del mondo.
A Paolo (Milone), psichiatra e scrittore, mi legano un’amicizia sincera (da qui il “tu”) e una profonda stima, nate in un’occasione ben precisa: il nostro primo incontro online (qui per rivederlo), durante la presentazione del suo esordio letterario L’arte di legare le persone (Einaudi, 2021), alla Fondazione Sasso Corbaro, nella primavera del 2021. In quell’opera, accolta con entusiasmo da pubblico e critica, Milone ci conduceva dentro il reparto psichiatrico d’urgenza in cui ha lavorato per oltre quarant’anni, con uno stile insieme lirico, ironico e disarmato. Da allora, ha pubblicato un secondo libro, Astenersi principianti (Einaudi, 2023), una raccolta di brevi prose che spostano lo sguardo su altri angoli oscuri e poetici della condizione umana, mantenendo intatta quella voce aperta e riconoscibile che lo caratterizza sin dal debutto. Oggi, in occasione dell’uscita del suo terzo libro, Una piccola fine del mondo (Einaudi, 2025), mi è sembrato quasi naturale quindi, tornare a fargli qualche domanda. Come sempre, i temi che attraversano la sua scrittura – fragilità, cura, dolore, umanità – risuonano profondamente con il lavoro che portiamo avanti da anni alla Fondazione Sasso Corbaro.
Ah, fermi tutti… prima di passare all’intervista stavo dimenticandomi di dirvi una cosa molto importante: Paolo tornerà in Canton Ticino il 7 e 8 luglio, ospite della Fondazione Don Guanella di Riva San Vitale. In quei giorni, dalle 9.00 alle 12.00 guiderà una riflessione sul tema: Il contenimento emotivo, ambientale e fisico quale atto consapevole. La formazione è aperta anche ad operatori esterni (iscrizione a info@fdguanella.ch). Inoltre, lunedì 7 luglio 2025, dalle 18:00 alle 19:00, sempre presso la sede della Fondazione Don Guanella, si terrà un incontro gratuito e aperto al pubblico in cui, in dialogo con Marco Aschwanden, lettore appassionato e Responsabile del Servizio giuridico dell’Ente Ospedaliero Cantonale (EOC), lo scrittore presenterà il suo Una piccola fine del mondo.
26 Giugno 2025 – Intervista, Comunicazione, Dolore, Medical Humanities, Psichiatria, RelazioneTempo di lettura: 17 minuti
26 Giugno 2025
Intervista, Comunicazione, Dolore, Medical Humanities, Psichiatria, Relazione
Tempo di lettura: 17 minuti
Paolo, non c’è due senza tre: dopo Astenersi principianti, forse avrei dovuto aspettarmelo, questo nuovo Una piccola fine del mondo. Ci stai prendendo gusto, o sbaglio? Cosa ti dà la scrittura?
Grazie per l’intervista Nicolò. Le interviste sono utili anche a chi risponde perché gli consentono di mettere in ordine le sue esperienze e i suoi pensieri, chiarendo le loro relazioni e complessità. Io scrivo per la stessa ragione: mettere ordine dentro di me, rammendare tra loro diverse isole di chiarezza, che altrimenti resterebbero fari isolati nel buio. Aver scritto tre libri mi ha consentito, vedendoli dall’esterno, di avere una visione più chiara del mio modo di essere, del mio mondo, con tanto di pregi e difetti, e spero che il leggerli consenta ad un lettore interessato di avere un’idea della vita di uno psichiatra e del suo modo di approcciare i problemi.
A differenza dei primi due libri, pubblicati nella prestigiosa collana di romanzi e racconti Supercoralli di Einaudi, Una piccola fine del mondo – con il sottotitolo Intorno alla crisi psicotica – esce sempre per la casa editrice torinese, ma nella collana di saggi brevi e riflessioni personali Vele. Come mai, questa volta, hai scelto di scrivere un saggio?
Ho scritto nella collana Vele di Einaudi su invito della Casa Editrice che, nella tradizione della collana, mi ha lasciato piena libertà di mantenere la mia scrittura: una commistione tra aspetti narrativi e saggistici. Si troveranno nel libro diversi inserti che si avvicinano alla poesia, il che consente, parlando di vissuti, di sfiorare il nocciolo di un sentire, risparmiando tantissime parole. Le Vele sono libri minuscoli, agili, dei vademecum, ognuno dei quali è la sintesi di un argomento specifico, ed è stato bello per me sintetizzare un argomento, infinito e senza forma, come la psicosi acuta.
Il tema del libro è la crisi psicotica. Il capitolo iniziale si intitola Perché parlarne e lì spieghi le ragioni dell’esistenza di queste pagine. Ti chiedo allora: c’è stato un episodio, un ricordo, un incontro che ti ha spinto a occuparti proprio di questo argomento?
Confesso: sì c’è stata una specifica esperienza che mi ha fatto interessare alla psicosi acuta. Verso i quattordici anni la mia mente ha avuto un crollo, ho patito un’incredibile solitudine, isolamento, mentre provavo difficoltà a comunicare, a me e agli altri, quello che mi accadeva. Per qualche mese ho vissuto in uno stato mentale di tipo psicotico, e questo ha lasciato un segno indelebile dentro di me che mi ha sicuramente portato ad interessarmi di psicosi acuta. Questa non è la spiegazione di tutto, per esempio nella mia professione mi sono occupato approfonditamente di molti altri disturbi che non ho mai provato, uno per tutti, il suicidio. La cosa bella di questa storia è stato il mio riuscire a trasformare una brutta esperienza in qualcosa di utile, un fattore di conoscenza, una molla per il mio lavoro, una spinta ad aiutare gli altri. Fare di un proprio difetto un pregio. Chi fa il mio mestiere tutti i giorni è capace della magia di trasformare qualcosa di brutto in qualcosa di bello, altrimenti non resisterebbe…
Cito da pagina 27: «Poiché i vissuti non sono una esperienza solo razionale, il linguaggio che meglio li descrive è quello narrativo e non quello analitico-scientifico. […] Ma nella descrizione dei vissuti in psicosi, prima o poi, anche la parola narrativa comincia a vacillare, allora ci può venire in soccorso la parola poetica». Sono parole illuminanti, che richiamano ciò che da sempre sostengono le Medical Humanities: il linguaggio scientifico da solo non basta a comunicare la sofferenza, la malattia, la cura, la speranza. Come ci sei arrivato tu a questa consapevolezza?
Io ho avuto un approccio alla psichiatria molto analitico, razionale, sono figlio di due laureati in fisica, poi a metà della mia carriera sono incappato in un gran scoramento perché mi sono reso conto che nessuna teoria a impronta scientifica poteva spiegare da sola la vita – la complessità della vita biologica e affettiva dell’uomo –, né lo potevano tutte le teorie del mondo messe insieme. Mi pareva, dopo tanto studio e fatica, di essere rimasto con un pugno di mosche in mano. Senza pensare che questo significhi che occorre abbandonare le teorie, e senza deciderlo, sono passato nel lavoro ad una visione più spontanea, accettante, unitaria, di quello che vedevo e vivevo, una visione a-teorica, e questo mi ha rinfrancato e mi ha consentito di non abbandonare il mio lavoro ma di restare in campo fino alla pensione e, per chi lavora in psichiatria di urgenza, questo non è poco. Vuol dire che abbiamo scelto il “nostro” mestiere.
Ancora una citazione, non riesco a farne meno, stavolta da pagina 50: «Poiché la mente non tollera la frammentazione, piuttosto che restare confusa può abbracciare un delirio, che le consente di legare i fatti in una catena di causa ed effetto». Trovo affascinante questa idea del delirio come difesa biologica alla perdita di coerenza dei pensieri, delle emozioni, dell’identità. Ma nel linguaggio comune, la parola “delirio” viene spesso usata a sproposito. Ti va di aiutarci a fare un po’ di chiarezza su cosa significhi in ambito clinico?
Quando si entra in psicosi, quale che sia la causa, la mente regredisce ad un modo di funzionare più primitivo – di cui noi abbiamo sempre disponibilità – in cui, tra moltissime altre cose, si perde la complessità della realtà e si torna a pensare per semplificazioni, estremi, dicotomie che non esistono, tipo buono e cattivo, bello e brutto. Facilmente il passo successivo è un delirio persecutorio nel quale noi espelliamo il male da noi e lo mettiamo in un persecutore esterno. Il delirio persecutorio è solo uno dei tanti, ma quale che sia il delirio, esso è meglio della confusione che è una frammentazione totale. Così il delirio in clinica può essere considerato sia un disturbo da eliminare che un sistema difensivo, ed è vero che non ci si deve accanire contro un delirio senza fornire al paziente altre tutele e paracadute per la sua fragilità. Infatti, i pazienti difendono i loro deliri appassionatamente; per la loro mente il delirio è qualcosa di vitale perché evita la frammentazione e la confusione. Il delirio ricompone la realtà in una sequenza di cause ed effetti, ed esprime la sofferenza del paziente che generalmente si sente vittima e perseguitato, tanto che taluni paranoici aspettano il medico fuori dall’ospedale o sotto casa e, come mendicanti, cercano di convincerlo delle loro idee, mendicano una approvazione delle loro idee. È inutile litigare razionalmente col paziente cercando di convincerlo della assurdità delle sue idee. L’approccio terapeutico al delirio – oltre agli psicofarmaci che sono molto efficaci – è entrare in rapporto con la fragilità, il dolore, la paura, la solitudine, il sentirsi incompreso, che il paziente prova e il delirio esprime.
Quando ero giovane ho vissuto un’esperienza clinica drammatica ma molto significativa. Curavamo un’anoressica grave sui vent’anni e la nostra equipe del Centro di salute mentale, in stretta collaborazione con una psicologa privata, con i genitori, gli amici, tutti, ci siamo molto impegnati per far passare questa malattia, utilizzando i modi più tecnici e specifici possibili. Così avvenne che l’anoressia in pochi mesi migliorò e poi scomparve e noi eravamo molto contenti ma, mentre tutti noi ci complimentavamo, la paziente si uccise. La lezione è: non bisogna accanirsi ciecamente contro un sintomo, un disturbo, una malattia, bisogna invece tener conto dell’equilibrio generale della mente del paziente. Questo non significa predicare l’astensione terapeutica: è predicare l’interventismo terapeutico con una visione allargata e prudenziale.
Tra le figure retoriche di più frequente utilizzo in letteratura c’è la metafora. Si sostituisce – in base a una somiglianza più o meno esplicita – un termine reale con uno figurato; la si usa spesso per ragioni estetiche, poetiche ma anche per spiegare concetti astratti o complessi usando immagini più concrete. Anche i pazienti – in particolare quelli psichiatrici – se ne servono per provare a comunicare il proprio vissuto, per rendere comprensibile il proprio malessere. Nel libro parli, per esempio, della «caduta nel pozzo»: qual è, da psichiatra, la tua esperienza con il linguaggio metaforico dei pazienti?
Il paziente psicotico usa spesso un linguaggio figurato, fantasioso che potrebbe apparire metaforico, ma in realtà non lo è. Il paziente crede o vive realmente quello che dice. Se dice: «la sete mi taglia la gola», per lui non è una metafora: ha veri tagli nella gola. L’anoressica grave che dice: «sono grassa», per lei è grassa davvero. Per il paziente psicotico grave non esiste il mondo metaforico, gli psichiatri dicono che non esiste il “come se”: è tutto vero. Poi nelle fasi di miglioramento il paziente può riprendere una capacità metaforica o simbolica e con lui si può parlare liberamente.
Se il paziente non sa usare il linguaggio metaforico e non lo sa decifrare, bisogna stare attenti a come si parla con lui e non usare metafore, non posso dire: «se il mio collega nella stanza accanto non smette di far rumore vado di là e lo strozzo», perché il paziente prende la cosa alla lettera e si spaventa e pensa che siate un assassino e smetterà di parlare con voi.
Alla Fondazione Sasso Corbaro riflettiamo da sempre sul significato della parola “cura” e sulle sue declinazioni: “curanti”, “prendersi cura”… utilizziamo anche un gioco di parole, quasi poetico, “curare i curanti”, che è persino diventato il titolo fisso di una rubrica sulla nostra rivista Quaderni delle Medical Humanities. Anche tu, in Una piccola fine del mondo, parli della “cura” nel contesto della psichiatria d’urgenza. Ti andrebbe di raccontarci cosa significa per te questa parola?
In psichiatria d’urgenza il curare non è qualcosa di puramente umano che ha a che fare con l’empatia, il rispetto, l’accoglienza, ma è qualcosa di molto tecnico che necessita di studio ed esperienza. Non è una disposizione mentale ma una professione, la quale spesso utilizza strutture complesse e apparecchiature complesse. Restringendo il campo agli aspetti umani, personalmente ritengo fondamentale il saper distinguere la persona dalla malattia. Il saper rispondere alla domanda: quello che dice e che fa la persona, dipende da lei o dalla malattia? Mi spiego: i disturbi mentali acuti cambiano il modo di essere di una persona, i suoi affetti, il suo modo di pensare, schiavizzano la persona, la trasformano in qualcos’altro e la privano della sua libertà – come un virus fa del computer. Rispettare la dignità e la libertà della persona significa allora saper riconoscere la persona e lottare contro la malattia.
Curare, in psichiatria di urgenza, significa arrivare ad un contatto con quel che resta della persona che, spaventata ed impotente, sopravvive alla malattia, vuol dire fortificare questa parte perché ritorni autonoma.
Curare significa non abbandonare il paziente alla prigione della malattia, ma andare in direzione contraria a dove lo portano le forze regressive, auto-aggressive, mortifere, ovviamente con tutte le cautele e gli equilibri del caso.
Curare significa avere il coraggio di stilare, quando necessario, un ricovero coatto, anche contro la volontà del paziente e di qualche parente.
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