Dentro la caldera: il respiro della foresta

Medici d’autore 

Questo contributo fa parte di una rubrica. Trovate il primo numero qui, il secondo qui, il terzo qui, il quarto qui, il quinto qui, il sesto qui e il settimo qui.

Con le prime gelate novembrine, quando arriva la sera, l’unico desiderio è raggomitolarsi sotto il caldo abbraccio della coperta preferita. Forse, molti di voi inizieranno ad accendere il caminetto. Magari a concedersi anche un sorso di quel liquore buono, quello che scalda il cuore. È tutto? Forse no. Ci sarà chi, tra voi, è disposto anche a nutrire l’anima con qualcosa di altrettanto stuzzicante.  

Perché allora non condire questi momenti di piacere con un nuovo romanzo? Un buon rimedio alla nostalgia della scorsa bella stagione, una panacea capace di appagare la ghiotta curiosità letteraria che l’inverno porta (o dovrebbe portare) proprio a tutti.  

La foresta della caldera (2024, Ed. Creativa) è l’ultima novità dal fronte dei nostri umanisti clinici. Una narrazione fresca, godibile, condita da una bella dose di mistero capace di tenere incollati alle sue pagine anche i più assopiti poltronati domenicali. 

Adriano Tango, mutatis mutandis, è il nostro medico scrittore. Nato a Roma nel 1950, vive a Crema dal 1977. Accanto all’attività da medico, come primario ortopedico dell’ospedale di Crema dal 1999 al 2012, Tango è un medico umanista affermato. Tra pubblicazioni accademiche e saggistica, si annoverano anche dei romanzi, pubblicati da Creativa Edizioni: La baia (2010), Sibari scavo 3 (2012), Edena Kely (2014) e Simias (2022). Tango ha vinto premi come il Cronin 2022 per la narrativa medica, e le sue opere intrecciano spesso storia, mistero e introspezione psicologica. Formatosi in un contesto che valorizza la medicina narrativa – una branca terapeutica riconosciuta, come sottolinea l’autore durante l’intervista – Tango usa la scrittura per esorcizzare dolori e riflettere sulla condizione umana. 

Nell’intervista a Tango, gli chiedo in quale momento nasca per lui l’esigenza di scrivere: «la magia inizia sempre di notte, dopo qualche ora di sonno, diciamo verso le tre, e lascia serenità, tanta da consentire un sonnellino breve ma sufficiente per l’efficienza nel nuovo giorno.

Se l’avessero saputo i miei pazienti cosa facessi in preparazione di un intervento, magari della durata di varie ore…».

Incalzo quindi il nostro autore sull’esistenza di uno “sguardo medico” nell’osservare la realtà. Mi risponde: «certamente! Questo ed altri.

Un medico è un archivio di confessioni, come un prete, e di incontri ad alta tensione emozionale, e, come diceva un mio editore, vedrai che la carta ti restituirà tutto ciò che hai provato.

Quei personaggi restano vivi e vogliono vivere! Che siano antichi greci o contemporanei poco conta: l’uomo è uomo».  

Il suo ultimo romanzo mescola elementi autobiografici con un mistero avvolgente, ambientato in un bosco incontaminato che riecheggia i luoghi dell’infanzia dell’autore. Ne La foresta della caldera, questo archivio interiore si apre al mondo naturale: il dolore umano e quello della terra sembrano confondersi. La cicatrice del protagonista è anche quella del bosco, inciso da scavi, incendi, incuria.

Ogni ferita chiama una cura, e la ricerca di memoria si trasforma in ricerca di equilibrio.

Lo “sguardo del medico” si avverte nella precisione dei dettagli, nella tensione analitica delle descrizioni. Ma non è uno sguardo freddo o distaccato: è uno sguardo partecipe, empatico. Tango non osserva da lontano, ma entra nel corpo del paesaggio come entrerebbe in una stanza d’ospedale: con rispetto, con una domanda di senso. 

Ma leggiamo alcune righe dell’introduzione a questa storia: 

«Tre colpi ravvicinati nel pieno di una notte immobile. Secchi, ma presto raggiunti dal loro eco, e infine una gragnola di altre esplosioni, come il finale di uno spettacolo di fuochi di artificio. Poi solo il silenzio. Il bambino attendeva una prosecuzione, un soffio di vento che portasse qualcosa, un suono che servisse da spiegazione. Era piena estate, certo, ma le feste paesane hanno un altro timbro: festoso, vociare di gente…». 

Giulio, protagonista e alter ego del medico scrittore, è solo un bambino quando ode gli spari dei cacciatori sui cinghiali della foresta circostante il paese di Boscombrone, da qualche parte nelle campagne laziali. L’immagine dell’animale sacrificato è audace: 

«Quando i primi armati furono stilati arrivarono i portatori, ma non di un Santo, niente si innalzava sulle spalle che sostenevano i pali. Tutto invece pendeva. Il carico di carne morta oscillava verso l’asfalto nuovo della strada, e a tratti lo sfiorava con quei musi tronchi socchiusi da cui spuntavano le zanne. E il sangue lo macchiava, scorreva giù da quei denti mostrati come in un ultimo ringhio di collera impotente. Sgocciolava, ma presto le suole delle scarpe di quelli dietro impastarono sangue e polvere, e tutto divenne fanghiglia bruna». 

Il protagonista (ormai cresciuto), fotografo naturalista di nome Giulio Barbagallo, ritorna per un’inchiesta su un caso legato proprio ai luoghi dell’infanzia. Periodo di cui ricorda ben poco, dopo un incidente e una cicatrice che gli hanno sottratto la memoria in gioventù. Gli viene fornita una vecchia Polaroid sfuocata – una donna che allatta un cinghialino – e da quella immagine inizia la discesa nel mistero. Nel bosco che circonda il paese di Boscombrone si intrecciano storie di appalti, streghe, cani rinselvatichiti, solfatare e leggende locali. La foresta diventa un organismo vivo, un personaggio vero e proprio: respira, ferisce, nasconde. È un luogo dove il confine tra realtà e mito si dissolve. 

L’esperienza medica di Tango permea l’opera: l’amnesia di Giulio, causata da un intervento neurochirurgico, richiama lo “sguardo medico” dell’autore, quella «costante propensione all’analisi, a una sorta di semeiotica dell’io» come confessa durante la nostra intervista. Il romanzo si spinge fino ad esplorare la vulnerabilità della mente umana, i traumi rimossi e il potere terapeutico del ricordo. Non è solo un mistero da risolvere, ma un viaggio nella psiche, dove la natura selvaggia simboleggia i recessi più reconditi dell’anima. 

Racconta Giulio, il protagonista: 

«Non ricordavo niente della morte di mio padre. Un incidente di caccia. Così si era detto. Eppure, all’epoca della sua morte non ero più un bimbetto, la cosa doveva avermi traumatizzato. Possibile che non ricordassi nulla e nessuno mi avesse dato spiegazioni? E che centrava quella mia ferita al torace, quel buco in testa? La mamma morta poco dopo la mia dimissione, un nuovo grande dolore nella mia vita, il senso di solitudine assoluta al mondo, in un’età ancora inerme e dopo l’esperienza spersolanizzante dell’ospedale, e la paura di quel che mi avrebbero fatto, certo, giustificavano lo smarrimento che ancora mi opprimeva». 

Viene da chiedersi quanto ci sia di personale nel romanzo del nostro medico. Ma forse, come spesso accade per questa particolare “categoria” di autori, la narrazione diventa strumento per elaborare dolori personali e professionali, invitando il lettore a riflettere sulla fragilità umana e sull’empatia come cura. La foresta allora non è solo sfondo, ma anche metafora della mente: un luogo dove i confini tra razionale e irrazionale si dissolvono, e dove la guarigione passa attraverso l’ascolto di storie sepolte. 

Lo stile di Tango è essenziale, con una sottile ironia (e qualche coloritura dialettale romanesca) alleggerisce i temi profondi. Evita tecnicismi medici, ma il contesto clinico – l’amnesia post-operatoria, il recupero della memoria – contamina tratti della storia, rendendola autentica. Come dice l’autore, la sua scrittura nasce di notte, dopo poche ore di sonno, lasciando “serenità” per il giorno. 

Dicevamo: una strega che allatta dei cinghialetti, uno strano caso di sabotaggio a un cantiere edile, una foresta colma di insidie e l’odore di zolfo. Tutti permeano le pagine di un romanzo che crea dissonanza, che verrà a svelarsi (chiaramente) solo nell’epilogo. 

Io posso dirvi che Tango, con il suo nuovo libro, è lì a ricordarci che, di fronte ai limiti della cura fisica, resta l’essenziale: l’empatia, la comprensione della condizione umana.

La foresta della caldera è infatti un romanzo di mistero e di memoria, ma anche una riflessione poetica sulla ferita e sulla cura. È una storia che intreccia l’eco del bosco e il battito del cuore umano. E Tango, ci conferma che il medico e lo scrittore non sono due mestieri distinti, ma due aspetti della stessa vocazione: quella di prendersi cura – dei corpi, delle parole, delle storie. 

Nel suo bosco, come in una stanza d’ospedale, tutto respira. E ogni respiro, anche il più affannoso, merita di essere ascoltato. 

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Una risposta a “Dentro la caldera: il respiro della foresta”

  1. Adriano Tango

    Non posso che complimentarmi con Ivan. Non abbiamo concordato niente, giuro, ma ha afferrato l’essenza del mio messaggio, da vero professionista della critica letteraria. Una cosa vorrei che fosse chiara: la scrittura è terapeutica, la narrazione nutre lo spirito di chi legge, ma in misura forse maggiore anche di chi scrive. Perché chi scrive oltre un certo limite si dissocia, legge a sua volta ciò che scaturisce sul monitor, come se ci fosse un’entità terza nel gioco. E forse c’è realmente: lo chiamiamo clinicamente subconscio? Una collezione di qualia, mutuando dalle neuroscienze? Direi esperienza di vita vissuta e dimenticata che preme per riemergere.

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Un pensiero su “Dentro la caldera: il respiro della foresta

  1. Adriano Tango dice:

    Non posso che complimentarmi con Ivan. Non abbiamo concordato niente, giuro, ma ha afferrato l’essenza del mio messaggio, da vero professionista della critica letteraria. Una cosa vorrei che fosse chiara: la scrittura è terapeutica, la narrazione nutre lo spirito di chi legge, ma in misura forse maggiore anche di chi scrive. Perché chi scrive oltre un certo limite si dissocia, legge a sua volta ciò che scaturisce sul monitor, come se ci fosse un’entità terza nel gioco. E forse c’è realmente: lo chiamiamo clinicamente subconscio? Una collezione di qualia, mutuando dalle neuroscienze? Direi esperienza di vita vissuta e dimenticata che preme per riemergere.

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