Desiderio e incompiutezza
Il trauma da sopportare
21 Ottobre 2024 – Medical Humanities, ArteTempo di lettura: 12 minuti
21 Ottobre 2024
Medical Humanities, Arte
Tempo di lettura: 12 minuti
C’è una frase di Aristotele che spesso viene menzionata e dibattuta da esperti e non. La frase è molto eloquente e semplice, ma non per questo poco profonda.
A volte dimentichiamo il nesso che sussiste tra semplicità e profondità.
Dimentichiamo che le cose semplici sono finanche le più profonde, le più intime. Pensiamo di trovare la profondità, la verità delle cose in qualcosa di complicato, di complesso, nella sommità del monte. Pensiamo di dover scalare montagne ripidissime per poi scoprire infine che talvolta la verità sta a valle, abita la semplicità, è molto più vicina a noi di quanto crediamo. La frase di Aristotele è semplice. E in questa semplicità risuona la straordinaria forza della verità.
Dice Aristotele: «Tutti gli uomini per natura tendono al sapere (Pantes anthrōpoi tou eidenai oregontai physei)» [1]. Per comprendere questo passo è fondamentale soffermarsi sul verbo “tendere”, in greco orego. Questo verbo ha una molteplicità di significati. Esso, infatti, rimanda al tendere nel senso del “camminare”, del mettersi in cammino, percorrere una strada producendo un cambiamento. Gli uomini che tendono al sapere sono quelli che si incamminano lungo il sentiero del sapere. Quando tendo verso qualcosa, non sto facendo altro che muovermi verso il raggiungimento di quel qualcosa. Il greco orego rimanda però allo stesso tempo al desiderio, significa “desiderare”.
Gli uomini tendono al sapere perché lo desiderano per natura (kata physin) sono mossi da un forte slancio desiderante: io desidero sapere!
Cosa significa desiderare? Quando desidero qualcosa sono mosso da una mancanza. Desideriamo ciò che non abbiamo, che non possediamo. Gli uomini che desiderano il sapere si muovono verso qualcosa che non hanno.
Questo desiderare altro non è che un avere fame.
Mi incammino verso il sapere, voglio conoscere le cose, mettere tutto in questione e in discussione perché ho fame di conoscenza, che è contemporaneamente fame di essere (di essere nel mondo). Tutto ciò riguarda il non sentirsi mai appagati. Io ho appetito, fame: desidero, mi incammino, non sto mai fermo, mai in quiete.
Nel passo summenzionato Aristotele non dice però che gli uomini posseggono il sapere, ma che lo desiderano e tendono verso di esso. C’è un elemento che, se vogliamo, si rivela in fondo drammatico, che esprime massimamente quel dramma esistenziale che da quando siamo in vita ci portiamo addosso e che rimane insopprimibile: il non potere mai possedere in pieno il sapere, ma rimanere sempre in cammino.
L’uomo è l’essere che vive nella tensione, che si mantiene nel cammino, in un infinito tendere che, se ci pensiamo, assume sempre le sembianze dell’incompiutezza.
Tutto ciò è meravigliosamente descritto nel primo stasimo dell’Antigone di Sofocle, e in particolare nei seguenti versi corali iniziali: «Molte sono le cose straordinarie [tremende, inquietanti], eppure nulla di più straordinario [tremendo, inquietante] dell’uomo esiste» [2].
Se da un lato viene celebrato il talento dell’uomo, dall’altro le parole cantate dal coro sottendono un forte senso di smarrimento per gli eventi che stanno sconvolgendo la polis greca. Il coro preannuncia l’infausto dramma che va abbattendosi sulla povera Antigone, una sciagura che parla essa stessa della natura dell’umano, le sue potenze e i suoi limiti, le incredibili ascese e le improvvise cadute. È tutta l’umanità a essere convocata e chiamata in causa. La tragedia sofoclea diventa l’occasione per fare emergere la domanda sull’umano nel suo carattere universale. Così, il coro intona un canto nel quale riecheggia e incalza la questione sull’essere dell’uomo e sul suo posto nel mondo-polis. La tragedia narra dunque la straordinarietà e la povertà o lo smarrimento di un uomo interpretato come to deinotaton: “il più misterioso”, il più straordinario”, ma anche “il più inquietante” o “il più terribile”, e ancora “il più straniero” o “il più estraneo a se stesso”:
«Suscita stupore, meraviglia, ammirazione, ma anche paura e sgomento. Il deinos dei Greci, termine emblematicamente polisemico, contiene tutti questi sentimenti. Proprio come l’uomo, la cui potenza provoca tutto ciò: meraviglia, certo, ma anche spavento. E il fatto che Sofocle lo faccia dire al Coro è tutt’altro che casuale. Qui è la città che parla e che si interroga. Alla ricerca, appunto, di un nuovo sapere capace di inquadrare questa ambigua potenza e di dare senso alle sue azioni».
La tragedia si interroga sull’uomo come essere molteplice e multiforme, che in sé raduna la molteplicità e che si fa perenne contraddizione, un’immagine non totalizzante e mai finita nella quale sono tenute insieme tonalità e vibrazioni fluide e contradditorie: presenza e assenza, inclusione ed esclusione, identità e differenza, guadagno e perdita, e così via. Nella tensione patetica e drammatica dei fatti, la tragedia parla il linguaggio dell’umano e consente alla verità di venire alla luce e mettersi in piazza. La voce del coro è quella della verità. Una verità, pietosa e terrificante, che, tutt’altro che indifferente, incide e suscita nell’animo dello spettatore coinvolto sentimenti profondi di “commiserazione” e “paura”, eleos e phobos.
Le tragedie, asserisce Aristotele nel capitolo sesto della Poetica, attraverso la riproduzione (mimesis) di fatti e l’intervento della parola (logos) e della sua intrinseca musicalità, provocano tutte in chi le osserva passioni intime e segrete che, una volta riemerse, generano un vero e proprio “piacere” (edoné). Un piacere inteso quale piacere “catartico”, una purificazione o sublimazione delle passioni di commiserazione e paura che produce nello spettatore un cambiamento, un desiderio di novità. Lo spettatore è partecipe delle sofferenze che la tragedia mette in scena veementemente. Esso vive il trauma dell’altro, quel tormento dell’eroe tragico che in qualche modo riguarda la sua esistenza: nell’altro lo spettatore si rivede. Ma la tragedia stessa, in quanto forma di arte, e dunque nel suo svolgersi e andare in scena, non provoca nello spettatore soltanto l’affermazione del trauma, bensì la sua sopportazione. Nella possibilità di sopportare le passioni più profonde risiede il “piacere” che la tragedia provoca. Per questo motivo Ippocrate di Kos, padre della medicina moderna occidentale, considera la tragedia – e la commedia – alla stregua di uno dei tanti strumenti di cura capaci di ridestare il malato e fomentare processi di ripresa e riequilibrio di sé.
La visione della tragedia è dunque per Ippocrate parte integrante del percorso di cura, che è sempre un cammino e mai una sosta.
Il malato che partecipa alla tragedia da spettatore si misura, difatti, con le proprie passioni e la propria natura, stimolando un “corpo vivo” che nell’incontro-scontro (polemos) con l’arte si rimodella e ridefinisce. La tragedia sottrae il malato all’indifferenza, ricuce una distanza. Essa porta il malato alla scoperta di sé, alla riscoperta cioè di un corpo che è ancora in grado di patire e sopportare il trauma, di sentire dentro emozioni forti.
Certo, la tragedia non è la risoluzione della malattia, non produce qualcosa come una completa guarigione, ma innesca in senso proprio un cambiamento di essere, offrendo nuovi occhi per guardare da vicino ciò che siamo e non siamo: uno strumento di cura e non di guarigione che ci mostra apertamente l’inquietudine e ci insegna a sublimarla, ad abitarla, a sopportarla pur smisurata che sia.
Attraverso la riproduzione dello spettacolo della tragedia il corpo del malato riprende vigore e si consegna al pathos, guadagnando momenti assoluti di vitalità e libertà. Quella libertà di confrontarsi autenticamente con sé e con la propria condizione che sta a fondamento di ogni relazione di cura.
Siamo incompiuti, dalla nascita alla morte, indefinibili e sempre instabili, ci spezziamo facilmente e conviviamo continuamente con la frattura.
Viviamo dentro di noi l’inquietudine di essere spaesati, di non avere una casa determinata o un punto di appoggio definitivo.
Ragion per cui siamo ogni volta stranieri a noi stessi. E siamo al contempo esseri che sopportano lo straniamento e l’inquietudine nel nome del desiderio e della cura, di uno slancio che ci trasporta dentro il trauma e oltre esso, negli abissi di un dolore che pienamente disvela la nostra condizione inaggirabile di vulnerabilità, dove il potere è sospeso per sempre e dove è in gioco la danza della cura.
Questa straordinarietà, che la tragedia così come ogni altra forma di arte rende palese, ci definisce pur non definendoci, parla di noi come uomini incompleti e mai appagati.
Uomini che portano nell’intimo ferite e lacerazioni, che hanno la forza di “sopportare” (farsi carico di) tutto ciò che sta “dentro”. Siamo così portatori di esperienze profonde, commiserevoli e paurose, che ci toccano e scompaginano integralmente, che ci appartengono.
Tutti gli uomini desiderano per natura conoscere perché non sono appagati ma inquieti. Un desiderio che è esso stesso un bisogno vitale, carnale, di mettersi continuamente in discussione in un continuo rapportarsi con sé, con il mondo e con l’altro. Gli uomini non posseggono il sapere come qualcosa di proprio, di privato, da gestire e amministrare. Probabilmente mai lo raggiungeranno appieno, ma questa ambizione e speranza di sapere – di conoscersi – li orienta per tutta la vita.
Nel corso dello scorso secolo c’è stato soprattutto un filosofo, Emmanuel Lévinas, che ha dato origine grazie alle sue idee a una sorta di filosofia del desiderio. La relazione con l’altro, afferma Lévinas, si manifesta come desiderio; un desiderio inestinguibile che si alimenta della propria fame e che fomenta la fiamma ma non si consuma.
Una relazione autentica è una relazione in cui io e l’altro non siamo mai appagati, ma siamo sempre aperti alla novità, all’incompiutezza, alla scoperta: alla cura.
La ricchezza dell’esistenza umana sta nel riconoscersi come esseri che desiderano, che hanno fame e che per questo sono carenti, mancanti, finiti, inquietanti. Siamo soggetti che desiderano e che molto spesso non realizzano i propri desideri. Ma il desiderare rimane condizione essenziale della nostra vita che ci apre, ogni volta differentemente, all’altro, al mondo, a noi stessi, ai nostri traumi. È in questa apertura, in fondo, che viene inverandosi l’esperienza di cura. Qui, infine, ci riscopriamo ancora una volta, come non smettono di ricordarci le parole del coro dell’Antigone, inquietanti, tremendi, stranieri, straordinari.
Bibliografia
[1] Aristotele, Metafisica, ed. it. a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 3.
[2] Sofocle, Antigone, vv. 332-333. Cfr. Sofocle, Antigone, ed. it. a cura di M. Cacciari, Einaudi, Torino 2007, p. 13.
[3] A. Andronico, Sulla dismisura. Una lettura dell’Antigone di Sofocle, in “Diritto & Questioni Pubbliche”, vol. 18, n. 2, 2018, p. 158.
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Una risposta a “Desiderio e incompiutezza”
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cosí vero, cosí fragile e allo stesso tempo ispirante. Ció che ci tiene vivi secondo me é proprio questo. Finché c’é desiderio c’é speranza di vita, seppur illusorio o fragile che il desiderio sia. Nell’arte, nella lettura, nella scrittura, nel viaggio, nel circo, sul palco, nella sete di studio, di scoperta e nella sete di incontri veritieri.
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