Di fumetti, pinguini nel deserto e provocazioni

Intervista alla sociologa della salute Alice Scavarda 

Di recente, ho partecipato come relatore ad un festival a tema Medical Humanities organizzato dal Centro Studi Cura e Comunità per le Medical Humanities (CSCC) dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Alessandria. L’invito mi è arrivato dalla direttrice del Centro Studi, Mariateresa Daquino che, sapendo essere una lettrice della nostra rivista, approfitto, anche in questa sede, per ringraziare.  

Nel corso di questo evento, ho avuto modo di seguire alcuni interessanti interventi, tra cui quello intitolato “Esperienza di Graphic Medicine Italia”, che mi ha permesso di “conoscere” Alice Scavarda, una sociologa della salute che insegna all’università di Torino e che di Graphic Medicine Italia è una delle fondatrici.  

Incuriosito dagli argomenti proposti, quello stesso pomeriggio sono andato sul sito di Graphic Medicine Italia – di cui già sapevo l’esistenza ma che, colpevolmente, non avevo ancora trovato il tempo di esplorare a dovere –, ho cercato tra i membri dello staff e mi sono imbattuto in questa biografia della Dr. ssa Scavarda: «Di formazione sociologa, fin dall’infanzia appassionata di letteratura (nonché di cinema, fotografia e teatro) ha cercato di coniugare le sue passioni e il lavoro scientifico, sviluppando metodi creativi nelle esperienze di ricerca e formazione nelle quali è stata coinvolta. Inoltre, occupandosi di disabilità, malattia cronica e invecchiamento, è andata alla ricerca di strumenti capaci di coinvolgere e comunicare in modo più ampio possibile. Fumetti e Graphic Novel da un lato rappresentano una felice sintesi di alcuni dei suoi interessi principali, grazie alla combinazione di immagini e testo, e dall’altro costituiscono strumenti comunicativi, formativi e di ricerca efficaci e inclusivi. L’incontro con la Graphic Medicine le ha aperto nuovi orizzonti di studio e di approfondimento, che sta mettendo a frutto in alcune indagini nazionali e internazionali».  

Allora: 1) sociologa della salute 2) appassionata di letteratura 3) si occupa di disabilità, malattia, cronica e invecchiamento… non devo dirvelo che tempo qualche millisecondo ho cercato la sua mail e le ho scritto per proporle un’intervista, vero?! 

… e, a quanto pare, ho ricevuto una risposta positiva:  

(NB: in questa intervista io e la Dr.ssa Scavarda ci daremo del tu, perché così abbiamo deciso di fare sin dai nostri primi contatti) 

Alice, perché una sociologa decide di specializzarsi in sociologia della salute? Da dove nasce il tuo interesse per questo settore  

Credo di essere sempre stata interessata ai temi della malattia e della disabilità, fin da adolescente. Mi capitava spesso di scegliere romanzi o film che trattavano la malattia, soprattutto mentale, da Doctor Faustus di Mann a La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj fino a Follia di McGrath. Credo che la malattia sia il “lato notturno della vita”, parafrasando Susan Sontag, ma proprio per questo aiuti a illuminare alcuni aspetti centrali della vita stessa. La malattia evoca lo spettro della morte e mette in luce la fragilità dell’esistenza, temi che sono veri e propri tabù all’interno della cultura occidentale e che, come tali, sono oggetto di rimozione collettiva. Studiarli significa esplicitarli e far emergere quel processo di soppressione della sofferenza che la cultura occidentale ha sostanzialmente favorito attraverso la medicalizzazione e razionalizzazione dei suoi processi. La tecnoscienza tratta la sofferenza medicalmente come una malattia in una sede idonea, creando la dovuta distanza tecnica. È lì che la sofferenza, ridotta a dolore neurofisiologico, può essere misurata, diagnosticata, curata, per lo più farmacologicamente e con altre tecnologie. Io cerco di mostrare, come sociologa, che c’è molto altro, innanzitutto l’esperienza soggettiva del malato, il modo in cui affronta la malattia e la gestisce nella vita quotidiana e all’interno della sua rete sociale. Infine, i significati che sono socialmente attribuiti alla malattia, in termini di norme, convezioni e rappresentazioni sociali, incidono su come le altre persone interagiscono con il malato e come il malato stesso si percepisce e definisce la propria condizione. La visione biomedica tradizionale riesce a far emergere solo un aspetto molto limitato della condizione di malattia. E credo proprio che questa difficoltà di accettare, gestire e interpretare la sofferenza come condizione propriamente umana ed esistenziale come sostiene Georges Canguilhem e non come uno specifico e delimitato stadio dell’esistenza, ha fatto sì che la sofferenza sia stata espulsa dalla vita quotidiana. La sofferenza è diventata sempre più vergognosa, indicibile e inguardabile, in contraddizione con un consumismo che, con Baudrillard, si è sempre più illuso di poter sconfiggere ogni forma di sofferenza stessa. 

Pensandoci bene, non son così convinto che tutti i nostri lettori sappiano cosa fa nel concreto un sociologo della salute (onestamente, se non avessi studiato Salute Pubblica, anche io non l’avrei saputo). Non è una figura così comune quando si parla di sanità, non la si sente molto spesso nominare. 

Un sociologo della salute si occupa degli aspetti sociali della malattia, cerca di capire quanto l’appartenenza a una specifica classe sociale, unita all’appartenenza etnica e di genere, nonché a specifiche reti e gruppi sociali, possano incidere sull’esperienza e sugli esiti della malattia. Inoltre, la sociologia della salute si occupa di studiare come cambi la concezione della malattia, in termini di rappresentazioni sociali, norme, ruoli e convenzioni, a seconda del contesto socioculturale e storico di riferimento. Io mi occupo nello specifico di malattia mentale e di disabilità, soprattutto di forme di diversità neuro-cognitiva. 

Una parte importante dei tuoi lavori di ricerca si concentra sulla disabilità. Su questo tema, oltre a moltissime pubblicazioni scientifiche su riviste specializzate, nel 2021, hai anche pubblicato un saggio, per la casa editrice Il Mulino, dal bellissimo titolo Pinguini nel deserto, nel quale parli di «Strategie di resistenza allo stigma da Autismo e Trisomia 21». Perché hai scelto di occuparti proprio di disabilità?  

Bella domanda. La scelta di occuparmi di disabilità dipende in parte da motivazioni personali, come spesso accade, e in parte da motivazioni scientifiche. Come sostiene Max Weber, uno dei padri fondatori della sociologia, i valori spesso incidono sulla scelta di ciò di cui ci occupiamo, ma non su come lo affrontiamo, dovremmo cioè cercare, come studiosi, di non farci influenzare dai nostri interessi personali mentre svolgiamo le attività di ricerca. Mio marito ha una malattia neurodegenerativa che mi ha avvicinato alla malattia cronica e inevitabilmente anche alla disabilità. Ero interessata a studiare come l’irruzione di una malattia cambiasse la percezione di sé e le relazioni e ruoli sociali della persona malata. Mi sono poi chiesta cosa accadesse quando la malattia è congenita, come in molte forme di disabilità. In quel caso la malattia non rappresenta una rottura biografica, come sostiene il sociologo Michael Bury, ma è una condizione esistenziale, che fa parte della propria concezione di sé e immagine sociale fin dalla nascita. In questo senso, mi sembra che la disabilità sia più interessante e radicale perché mette in luce quel processo di rimozione collettiva della sofferenza di cui parlavo prima. La disabilità è spesso rappresentata come una condizione deficitaria e minoritaria, una tragedia personale che accade raramente e dev’essere affrontata principalmente dal punto di vista medico-sanitario. Come sociologa, invece, metto in luce che la disabilità è una condizione umana più frequente di quanto si pensi e che caratterizza il corso di vita di ognuno di noi, perché come sostiene Irving Zola nasciamo disabili e moriamo disabili. Fuor di provocazione, neonati e anziani sono spesso individui che dipendono da altre persone e che quindi hanno poche possibilità di autonomia e autodeterminazione. Ma quello che più mi interessa è mostrare che la disabilità è una condizione di svantaggio sociale prodotta da una ambiente poco capace di rispondere alle diverse manifestazioni che i corpi e le menti umane possono presentare. Queste sono le principali barriere alla partecipazione sociale e all’autodeterminazione delle persone con disabilità, incluse sotto l’etichetta dell’abilismo, ovvero l’insieme di aspettative sociali che rappresentano l’essere umano come privo di disabilità e strutturano tutto il mondo sociale attorno a questa aspettativa. 

A questo punto però, son troppo curioso e non riesco a non chiedertelo… perché il titolo Pinguini nel deserto?  

Certo, è un titolo evocativo in effetti. È un’espressione usata da una delle intervistate, madre di una bambina con Sindrome di Down, che richiama la sensazione di trovarsi nel posto sbagliato, perché spesso i genitori che ho conosciuto sono in una situazione di isolamento e di marginalizzazione sociale. I miei intervistati, genitori con figli trisomici o autistici, non si sentono compresi dagli altri genitori, dagli amici e talvolta anche dai parenti, che hanno una visione della disabilità stereotipata. Spesso le reazioni sono di allontanamento o di creazione di una distanza relazionale per imbarazzo, ignoranza o presupposto pudore. Purtroppo, questi atteggiamenti non fanno che aumentare la sofferenza dei genitori, che si percepiscono come oggetto di stigma e di pietismo. L’atteggiamento accondiscendente di chi pensa che la nascita di un figlio disabile sia una condanna infastidiva molto i miei intervistati, anche perché spesso non corrispondeva alle loro esperienze. Ciononostante, l’immagine rimandata da amici, parenti e colleghi è relativa alla creazione di una barriera che distingue nettamente le famiglie con figli disabili, percepite come “diverse” e inadeguate alle richieste sociali della società contemporanea, e le altre famiglie. Questa percezione di inadeguatezza sociale e di radicale differenza spesso si è tradotta in pratiche discriminatorie, come il mancato invito a feste, gite o occasioni di socializzazione, e in generale in una perdita di status sociale da parte delle famiglie coinvolte. L’aspetto interessante è che i tentativi di separazione e di discriminazione non riguardano solo le persone con disabilità, ma si estendono anche ai loro famigliari, proprio perché lo stigma, il marchio della diversità, si propaga alle persone che sono legate dal punto di vista sociale alla persona stigmatizzata. Anche in questo caso, lo stigma non è dovuto a caratteristiche intrinseche alla condizione, ai presunti deficit legati all’autismo o alla Sindrome di Down, ma è il riflesso di una società che è ancora fondata su principi abilisti, secondo cui corpi e menti che divergono dalla “norma” non hanno diritto a una piena partecipazione sociale. 

Mi permetto una riflessione un po’ provocatoria. Durante il mio percorso in medicina, girava la massima: “If we cant measure it, it doesnt exist” (se non possiamo misurarlo, non esiste). In altre parole la metodologia quantitativa era il nostro pane quotidiano, sia nella scelta degli studi da leggere, sia nelle ricerche di cui ci occupavamo. Solo più tardi nella mia carriera, durante il Master in Salute Pubblica, ho scoperto, attraverso lo studio dellantropologia e della sociologia che esiste anche un altro modo di fare ricerca, quello qualitativo. Tu utilizzi principalmente metodologie qualitative nel tuo lavoro. Mi dici, nelle tue ricerche sulla malattia, quali dimensioni dellesperienza umana si riescono a cogliere soltanto attraverso questo approccio? E come riesci a far accettare questo tipo di metodologia in un ambiente medico-scientifico tradizionalmente orientato ai numeri e alle statistiche 

Premetto che io non faccio parte di un ambiente medico, ma di un ambiente scientifico, questo sì, che ha ampiamente riconosciuto la validità e l’attendibilità dei metodi di ricerca qualitativa. Forse è per questo che la domanda a me suona un po’ datata, ma capisco che sia principalmente una differenza disciplinare e accetto volentieri la tua provocazione. Per rimanere nel mio ambito di competenza, quello sociologico, negli ultimi cinquant’anni sono stati fatti passi da gigante e ormai la metodologia qualitativa è ben consolidata, sia a livello internazionale, sia a livello nazionale e non ha più bisogno di ottenere legittimazione mostrando la propria solidità scientifica. Ho il privilegio di lavorare con il principale metodologo qualitativo italiano vivente, Mario Cardano, che ha aperto la strada ai metodi qualitativi in Italia oltre trent’anni fa. Con lui molti altri studiosi hanno riflettuto sulle specificità epistemologiche ed epistemiche dei metodi qualitativi. È un ambito molto ampio e non credo di avere spazio sufficiente per esplorarlo. Considera che tengo un intero insegnamento sull’argomento, però provo a rispondere sinteticamente alla tua domanda. Nell’ambito della ricerca sulla salute i metodi qualitativi hanno avuto e hanno tutt’ora un ruolo centrale nel mettere in luce gli aspetti culturali e sociali della condizione di malattia. Buona parte dell’antropologia e della sociologia medica è basata su studi qualitativi, proprio perché se si vogliono indagare significati individuali e sociali legati alla sofferenza i metodi quantitativi non sono particolarmente utili. Si può chiedere attraverso un questionario se e come ci si senta stigmatizzati dalla propria disabilità motoria? Lo si può fare, ma certamente si potrà andare poco in profondità e le risposte che si otterranno saranno standardizzate e preconfezionate dal ricercatore. Se invece voglio capire cosa significhi per quella persona la propria condizione di disabilità nella vita di tutti i giorni, quanto le barriere sociali e architettoniche incidano sulla qualità della sua vita, il miglior modo per scoprirlo è intervistarla o osservarla, in modo non completamente strutturato. La ricerca qualitativa è flessibile e permette di adattarsi non solo al contesto sociale nel quale si svolge, ma anche alle caratteristiche dei partecipanti. In questo modo in un’intervista non è tutto prefigurabile, ci saranno domande nuove stimolate dal discorso dell’intervistato, temi affrontati che non erano previsti all’interno della traccia e così è possibile raccogliere una mole ricca di dati, meno inficiati dalla prospettiva e dalle domande cognitive del ricercatore. Questo è il principale contributo della ricerca qualitativa non solo agli studi sulla salute e sulla malattia, ma a qualsiasi ambito di studio. 

Ma ora, eccoci alla ragione che ci ha portato qui: Graphic Medicine Italia. Mi dici di cosa si tratta?  

Graphic Medicine Italia è un’associazione culturale fondata un paio di anni fa da un gruppo interdisciplinare composto da un medico, il presidente (Stefano Ratti), un fumettista e segretario generale (Andrea Voglino), due sociologhe (io e Veronica Moretti, vice-presidente dell’associazione) e da un educatore (Manuel Masini). L’associazione nasce come branca italiana del Graphic Medicine Collective, collettivo internazionale formato da professionisti sanitari, educatori, artisti e pazienti nordamericani e britannici. Il termine “Graphic Medicine” è stato coniato dal medico e attivista britannico Ian Williams, che la definisce nel 2011 come l’intersezione tra i fumetti e l’ambito sanitario. Si tratta di un ambito di studi interdisciplinari che promuove l’uso dei fumetti come strumenti comunicativi, di ricerca e formazione nell’ambito della salute e della malattia. Il collettivo internazionale, che ruota intorno al sito web https://www.graphicmedicine.org/, si è espanso notevolmente negli ultimi quindici anni fino a creare alcune associazioni nazionali, in Spagna, Giappone e anche in Italia. Graphic Medicine Italia si prefigge di esportare l’approccio della Graphic Medicine nel nostro paese, promuovendo iniziative scientifiche, formative e divulgative su questi temi. Nello specifico, il nostro sito web https://graphicmedicineitalia.org/ propone una selezione aggiornata di recensioni di quelle che sono definite “patografie grafiche” ovvero narrazioni di malattia sottoforma di fumetto. Il mercato è in continua espansione e le patografie grafiche sono letteralmente esplose negli ultimi anni nel nostro paese, sia come traduzioni di opere straniere, sia come opere di autori nazionali, che spesso sono loro stessi malati, caregiver o persone interessate a quella condizione. Inoltre, all’interno del nostro sito web pubblicizziamo iniziative e pubblicazioni scientifiche o divulgative che riguardano l’uso del fumetto in ambito sanitario in Italia. Lo staff nel tempo si è ampliato fino a comprendere anche Martina Follador e Carolina Mancuso, che si occupano della gestione dei social media (Facebook e Instagram nello specifico), Rebecca Cozzato Lombardi e Sara Vallerani, che sono responsabili rispettivamente delle recensioni e dalla newsletter, inviata ai soci con cadenza bimensile. Anche la comunità è in crescita, il numero dei soci aumenta costantemente (qui le informazioni su come diventare socio: https://graphicmedicineitalia.org/pagine/diventa-socio/) e comprende professionisti, studiosi, artisti provenienti da tutta Italia, che stanno sperimentando l’uso del fumetto per comunicare informazioni, diffondere risultati di ricerca o sensibilizzare comunità locali in merito a specifiche malattie. Il collettivo italiano è interdisciplinare, perché prevede un dialogo tra scienze mediche, scienze sociali e arte, e multicentrico, perché sebbene sia radicato a Bologna, dove ha sede, Torino e Milano sono altri due contesti dove le iniziative sulla Graphic Medicine si stanno moltiplicando. Inoltre, la nostra associazione mira a espandere le proprie collaborazioni e le assemblee dei soci hanno l’obiettivo di consolidare le relazioni tra le diverse realtà coinvolte e promuovere iniziative collettive. Abbiamo già partecipato ad alcuni eventi come il Festival delle Medical Humanities, dove ci siamo conosciuti e parteciperemo anche al convegno Idea (Innovation, Design, Application) che si terrà a Genova a maggio 2025 e che è incentrato sul fumetto. Siamo in una interessante fase di cambiamento e di trasformazione e speriamo di poter presto proporre iniziative e corsi di fumetto, grazie al contributo prezioso dei soci e alle forze creative del nostro staff. 

Come sei arrivata al fumetto? È partito tutto da una passione personale che poi negli anni si è intromessa anche nella tua professione?  

Direi di sì. Ho iniziato a leggere i fumetti da bambina, prima Topolino, poi Calvin e Hobbes, Mafalda. In adolescenza sono approdata a Dylan Dog, poi li ho abbandonati per riprenderli in età adulta, grazie alla folgorazione per Persepolis di Marjane Satrapi. Il fumetto è sempre stato una fonte di ispirazione per le storie illustrate che scrivevo da bambina e ha fortemente influenzato il mio immaginario e il mio modo di approcciarmi alla narrazione. Come Calvino, che dedica un’intera “lezione americana” alla visibilità, spesso partivo e parto da un’immagine per costruire una storia. Ho sempre amato scrittori con una forte impronta visiva, Calvino e Buzzati, ad esempio, perché mi ritrovavo nel loro stesso modo di pensare per immagini. Quindi per me le immagini sono spesso interrelate alle parole e il fumetto è in qualche modo il mezzo espressivo che meglio rappresenta la sintesi tra questi due canali comunicativi. Anche da studiosa, mi rendo conto di aver spesso bisogno, quando analizzo dati, di unire ai testi stimoli grafico-visivi, per visualizzare le relazioni tra concetti e chiarire i nessi logici. I fumetti sono per me mezzi di espressione accessibili ed estremamente efficaci, perché riescono a comunicare messaggi complessi in modo economico, emotivamente coinvolgente e immediato. È stato abbastanza naturale cercare di utilizzarli nelle mie esperienze di ricerca e di studiarne le specificità dal punto di vista metodologico e pratico. 

Chiudo chiedendoti un consiglio: se ad oggi dovessi suggerire la lettura di un graphic novel a tema malattia, quale sarebbe e perché? 

Difficile indicarne solo uno! Ma se proprio dovessi limitarmi solo a un consiglio, allora forse opterei per Il grande male di David B. Si tratta di un’opera incredibilmente potente dal punto di vista narrativo e visivo e credo che David B. sia uno degli esponenti più interessanti del fumetto francese. Per restare invece in Italia, se mi concedi un suggerimento in più vedi che non riesco a limitarmi a un unico consiglio – ho apprezzato molto Quando tutto diventò blu di Alessandro Baronciani, autore eclettico ed estremamente innovativo della scena fumettistica italiana. 

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