Essere sani e salvi

La medicina italiana alle prese con l’eugenetica nei primi decenni del Novecento 

Ringraziamo il medico e scrittore Carlo Patriarca, recentemente ospite della Fondazione Sasso Corbaro a Gli scrittori e la malattia (qui potete recuperare la serata), per aver donato ai nostri Sentieri questo articolo.

Il giuramento di Ippocrate è uguale da millenni, eppure la capacità umana di convertire la terapia in uccisione è vasta. Quando la medicina passa dalla cura del singolo a quella della collettività può compiere grandi progressi, per esempio nel campo della prevenzione, ma se il contesto storico-politico è differente l’alibi della collettività può schiacciare il singolo in nome della “salute”. Avviene così che un epidemiologo finisca per credere che solo la sterilizzazione dei frenastenici e dei microcefali salverà l’umanità dalla degenerazione e che nel pozzo nero di Auschwitz un medico provochi malattie mortali nei prigionieri allo scopo di studiare il rapporto tra genetica e ambiente e migliorare così la “salute della razza. 

A cavallo tra otto e novecento dibattere di eugenetica (o eugenica) divenne di moda. Aveva cominciato qualche decennio prima in Inghilterra un cugino di Darwin, Francis Galton, e in Francia l’alienista B.A. Morel, discutendo di rischi di degenerazione dei ceppi familiari e di ereditarietà delle malattie. Più tardi in America fu soprattutto il biologo Charles Davenport a mettere in guardia sui pericoli sanitari della “mescolanza razziale”. 

In realtà nella cornice dell’eugenetica, sviluppatasi nei decenni in cui negli ambienti filosofici si discuteva di “spencerismo sociale”, si agitavano sia istanze progressiste e di ispirazione socialista, che aspiravano a un risanamento della popolazione, che istanze sempre più oppressive di difesa della “razza”, o come si preferiva dire in Italia della stirpe. Il contributo alla discussione da parte di medici e biologi fu enorme e, com’è tristemente noto, enorme fu in seguito la responsabilità dei medici nei programmi eugenetici del terzo Reich. 

In Europa (Svizzera, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Estonia) e negli Usa si vararono norme sulla sterilizzazione, spesso ma non sempre su base volontaria (in Svizzera, nel canton Vaud, dal 1928 si introdussero le sterilizzazioni forzate) per i portatori di una serie di patologie e talora norme sui certificati prematrimoniali di assenza di malattie reputate ereditarie. In Germania dal luglio del 1933, fu in vigore una legge sulla sterilizzazione forzata dei pazienti psichiatrici, eloquente premessa di successivi tragici sviluppi.  

In Italia viceversa vi fu su questi argomenti un profluvio di interventi pubblici da parte dei medici, ma esitarono solo in raccomandazioni su visite prematrimoniali e nell’obbligo di denuncia della tubercolosi e delle malattie veneree per talune categorie di lavoratori (operai in industrie alimentari, prostitute, impiegati in ambiti affollati come alberghi, caserme, etc.). Nella parte più avanzata del Paese, dove la medicina promossa dal “socialismo umanitario” dell’inizio del secolo cercava, non senza conflitti, di aprirsi uno spazio tra filantropia alto borghese e tradizionale carità della Chiesa, si prospettavano al massimo (e concordemente) soluzioni preventive di fronte alle patologie del tempo. 

Erano soluzioni che resistettero anche negli anni ’20 e primi ’30, quando lo Stato prese saldamente in pugno la politica sanitaria, e furono condivise da statistici influenti come Corrado Gini, che fu tra i suoi vari incarichi presidente dell’ISTAT e presidente della SIGE (Società Italiana di Genetica ed Eugenetica), e seguite da figure eminenti come il neurologo e neuropatologo Ettore Levi (fondatore dell’Istituto italiano di Igiene) e l’anziano, ma sempre ascoltatissimo, psichiatra Enrico Morselli.  

Si trattava di medici coinvolti nel dibattito eugenetico e che assieme ad altri enfatizzavano il ruolo dell’ambiente nel risanamento dei ceppi più fragili, allora si diceva “tarati”, della popolazione. Le ragioni per cui l’Italia si tenne lontana da politiche di controllo delle nascite ispirate a principi eugenetici sono da attribuire sia al regime fascista, che sosteneva con Mussolini che la “rigenerazione della stirpe” passasse da un incremento della natalità perché «il numero è potenza», che alla Chiesa, tradizionalmente contraria al controllo delle nascite. Del resto, anche tra i clinici circolava l’idea che l’ambiente, alleato alla medicina, potesse svolgere un ruolo curativo sulle malattie e che quindi non fossero necessarie politiche eugenetiche. 

Ma per altri medici il timore della ereditarietà delle malattie sopravanzava qualsiasi altra considerazione. È una paura che mise a dura prova i limiti della “via latina all’eugenetica” facendo emergere, almeno nelle intenzioni, posizioni a favore della sterilizzazione in nome degli interessi collettivi. Quali erano le patologie che più di tutte suscitavano preoccupazione? La sifilide, per ben fondati motivi, ma anche la tubercolosi, l’epilessia, il gozzo ipotiroideo, l’alcoolismo e, in generale, e più di tutte le altre perché più sconosciute, le malattie della mente. «La genetica va associata all’eugenetica per mezzo degli anatomo-patologi e deve servire per la conservazione della razza umana» si dichiarava al momento della fondazione del CNR. 

Il timore dell’ereditarietà delle malattie psichiatriche era forte. Proposte di sterilizzazione dei malati approdarono senza successo in parlamento e posizioni molto decise furono prese anche da figure eminenti. Era diffusa la richiesta di un censimento dei malati di mente che il codice penale Rocco del 1930 favoriva. In definitiva prevalse l’idea che i malati di mente “agitati, se non sterilizzati e liberi, fossero pure fertili ma “incarcerati. 


Le tragiche svolte antisemite 

Il tema psichiatria ed ereditarietà assume tinte particolarmente fosche quando concentra la sua attenzione sulle comunità ebraiche. Da un composto di dati e pregiudizi in cui si confondono argomentazioni scientifiche, sociali e storiche (dove trovano spazio anche spiegazioni religiose, il carattere delle comunità, percepito come chiuso, l’esistenza al loro interno di taluni individui con doti intellettuali spiccate, osservazioni sulla vocazione mercantile e urbana), emergono a cavallo tra otto e novecento in Francia con Jean-Martin Charcot e in Germania con Emil Kraepelin posizioni che altri sfrutteranno per emarginare gli ebrei. Due tra i più importanti fondatori della moderna neuropsichiatria, si esprimono in termini molto netti. Per Charcot gli ebrei sono «specialmente predisposti alle nevrosi». Per Kraepelin «gli ebrei sono predisposti a malattie mentali in misura molto maggiore dei tedeschi […] in loro sono straordinariamente pronunciati quei disturbi che si sogliono riportare generalmente a degenerazione ereditaria». 

Sono punti di vista talora condivisi anche in Italia, dove Augusto Giannelli, direttore di un grande manicomio romano di Santa Maria della Pietà scrive nel 1905 che «un tratto neurastenico passa su tutta la razza degli israeliti». Con l’avvento al potere del fascismo in un primo tempo le cose non cambiano, se non per una progressiva affermazione di un tipo italico nuovo, l’idea cioè di un guerriero forte e patriota che mal si concilia con lo stereotipo dell’ebreo e pone così le premesse per una successiva estromissione dal corpo della nazione.  

Per l’endocrinologo Nicola Pende la «razza mediterranea» ha il suo epicentro nella romanità, ben si distingue dalle razze nordiche e si connota per il suo forte senso di solidarietà e per il legame con la terra, e dunque in ogni caso gli ebrei, cittadini e mercantili, ne sono fuori. Si tratta di un razzismo differente dal razzismo puramente biologico di Telesio Interlandi e della sua rivista La difesa della razza. Ma in breve si arriverà al “manifesto della razza” del 1938, firmato (e successivamente ripudiato) tra gli altri anche dallo stesso Pende e da altri medici come lo psichiatra Arturo Donaggio. Pochi mesi dopo ci sarà il varo delle leggi razziali e in pochi anni si passerà dalla persecuzione dei diritti a quella delle vite. 

 

Sul destino di alcuni bambini nati italiani 

L’abominio e l’unicità della Shoah non consente di tralasciare un capitolo meno noto perché limitato alle terre di confine ma in cui l’eugenetica poté esercitare tutta la sua carica disumana e in cui anche l’anatomia patologica ebbe un ruolo.  

L’alleanza con la Germania, sancita dal patto d’acciaio del 1939, spianò la strada all’Option in Südtirol. Il tema è vasto se collocato all’interno del progetto eugenetico di soppressione dei disabili psichici e fisici. Un progetto che prese le mosse in Germania nel contesto della “Aktion T4”, così definita a indicare l’indirizzo di Berlino Tiergartenstrasse 4, sede della pianificazione del “programma di eutanasia” nazionalsocialista, progetto in cui il ruolo dei medici fu centrale e in cui vennero messe in funzione le prime camere a gas.  

Si calcola che in questo modo vennero cancellate tra le 250.000 e le 300.000 vite umane. Il programma, contestato da una parte della Chiesa tedesca, venne chiuso ufficialmente nel 1941, ma lo sterminio proseguì, più occulto e indisturbato, fino alla fine della guerra.  

Il destino di ben oltre 5.000 bambini fu invece deciso all’interno dei meandri legislativi ed amministrativi, le vittime entrarono nel progetto Kindereuthanasie, che parte dalla lettera di un padre (o forse una nonna) che scrisse nel 1939 a Hitler per chiedere che il figlio ricevesse il Gnadentod, un’«uccisione misericordiosa». 

Cosa poteva accadere a bambini e adolescenti affetti da patologie reputate incurabili e portatori di un patrimonio genetico considerato come degenerato e pericoloso? I bambini venivano «messi a dormire» con i barbiturici. «Erano bambini spastici…, avevano la poliomielite…, erano idioti», raccontava un medico coinvolto direttamente nel progetto, come ricostruito nell’opera monumentale di RJ Lifton (I medici nazisti, Rizzoli 1988). Negli anni molti altri bambini vennero soppressi con il monossido di carbonio o più semplicemente per denutrizione. Per quei medici guarire e sterminare non erano termini incompatibili: si trattava di guarire la società eliminando i portatori di tare reputate come ereditarie o soltanto come un’inutile zavorra economica per la società dei sani. Vittime di questo progetto furono anche bambini italiani del Sudtirolo i cui genitori optarono per la cittadinanza tedesca, condannandoli così a morte. 

Lo psichiatra Andreas Conca ha rintracciato i dati di una ventina di questi bambini, tra i 6 e i 16 anni, e le cartelle cliniche di dieci, recanti le principali informazioni clinico-anagrafiche. Vi si parla di bambini talvolta irrequieti e in altri casi tranquilli, talora afasici e apatici ma che in altri casi interagiscono e parlano, spesso non continenti, e tutti con una diagnosi clinica di dementia precox o schizofrenia, o talora in modo più spiccio di idiozia. I referti degli anatomo patologici, volenterosi esecutori delle autopsie (non vi è traccia di rifiuti), riportano talora un quadro cerebrale nella norma, talaltra un quadro di atrofia cerebellare o cerebrale. In tutti i casi la morte è attribuita a broncopolmonite, in circa la metà dei casi alla tubercolosi. «Perché questo bambino è un imbecille? Perché è paralizzato? La cosa presentava un alto interesse scientifico, devo insistere su questo punto» provò a spiegare un medico dopo la guerra. L’ipocrisia di questa giustificazione – di per sé aberrante – è per altro smascherata dalla superficialità dei referti autoptici. 

Cosa accadde più in generale in Germania del materiale istologico di queste autopsie? Le collezioni anatomiche erano state riviste e ripulite nel dopoguerra, ma i cervelli erano ambiti e furono pubblicati lavori basati su questo materiale.  

Nel suo memorial speech dato nel 1990, il professor Peiffer, anatomopatologo a Tubinga, dichiarò che tutti i tessuti, che fossero per errore ancora presenti e ascrivibili al programma di eutanasia nazista, dovevano essere rimossi dagli archivi, secondo dei criteri estensivi da applicare anche nei casi dubbi. I tessuti sarebbero stati sepolti nel cimitero della città. Lo stesso accadde anche a Monaco di Baviera negli stessi anni. Ma ancora oggi una commissione scientifica è all’opera negli archivi tedeschi. 

Nel 2010 la Società tedesca di Psichiatria e Psicoterapia ha emesso un documento molto netto di assunzione storica di responsabilità e di offerta di scuse alle vittime. Anche la Società italiana di Psichiatria ha negli anni successivi riaperto il dibattito sulla psichiatria del ventennio, riconoscendo e facendo ammenda per l’antisemitismo e l’eugenetica del tempo.  

Informazioni aggiuntive

Parti di questo testo sono tratte da un articolo a cura dell’autore recentemente apparso su Pathologica, a cui si rimanda anche per la bibliografia. 

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Una risposta a “Essere sani e salvi”

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Un pensiero su “Essere sani e salvi

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