Et in Arcadia ego

Una serie lungo la soglia della morte 

Nella Galleria Nazionale di Arte Antica a Roma è conservato un dipinto del pittore seicentesco Guercino, noto con questo nome: Et in Arcadia ego. Guercino, così soprannominato a causa di un evidente strabismo occorsogli, secondo la leggenda, per uno spavento durante la sua piccola infanzia causato da un grido terribile di chi gli stava vicino (la madre?), è stato un pittore di notevolissima personalità artistica che si trovò ad operare nella prima metà del Seicento, epoca nella quale la civiltà europea conobbe un interesse intensissimo per il mondo pastorale, sulla base di modelli classici latini e greci che possiamo definire un po’ genericamente Arcadia, intendendo con ciò l’amore per un mondo fatto di pastori e di greggi, di campi e di semplicità, in verità un mondo raffinatissimo cultore della poesia e del canto, dell’amore più spontaneo, di una vera utopia ideale governata dai valori del sentimento gentile, della bellezza della natura oggetto di cura. Questo mondo era proposto come luogo nel quale gli uomini si innamorano della bellezza sia degli esseri umani, sia del mondo della natura, al punto di vagheggiare una dimensione di perennità e di pace, intravista come una autentica e definitiva età dell’oro. 

Tutto ciò esprimeva evidentemente un’aspirazione ingenua sia perché la realtà sociale, economica e politica era ben diversa, animata da conflitti e da interessi tutt’altro che ingenui, sia perché non sfuggiva la dimensione utopica di tali aspirazioni, più propense a creare diletto sul piano artistico, attraverso varie forme di fruizione (teatro, musica, poesia) destinate a restare confinate nel mondo del piacere culturale e nel gioco, nelle finzioni delle mode. 

Malgrado ciò è possibile affermare che tale dilettoso vagheggiamento non si poteva sottrarre al confronto con la dura realtà, sia nella forma delle storie spesso drammatiche che venivano proposte, sia nella forma di una riflessione che senza rinunciare alla bellezza, non poteva evitare di evocare realtà dure ma ineludibili. 

Se ci poniamo di fronte al dipinto del Guercino a cui ho fatto allusione, osserviamo un ambiente bucolico abitato da due figure di pastori sulla sinistra ritratti a mezzo busto, dall’aria intima e pensosa, rivolti verso un oggetto che occupa il lato destro del quadro: tale oggetto è un teschio umano consunto, sotto il quale sta una sorta di sostegno sul quale sono incise ben visibili le parole: Et in Arcadia ego. 

L’Arcadia, come è noto, è una regione storica della Grecia classica, divenuta nella letteratura antica luogo simbolico della poesia pastorale. Dunque, si tratta di un memento che ai due giovani pastori dall’aspetto gradevole ricorda: anch’io sono stato un giovane pastore arcade, ed ora sono poco più che polvere. (Esiste tuttavia anche un’interpretazione un po’ diversa del motto, che si è piuttosto conservata in ambito anglosassone, e si ritrova utilizzata, per esempio, nell’opera di Benjamin Britten, Serenade per tenore e orchestra, nella sezione intitolata Dirge, che altro non è che la contrazione di dirige; per esteso la citazione è: Dirige Dominus, Deus Meus, in conspectu tuo vitam meam, dal Salmo 5. L’interpretazione è: Anche in Arcadia io, la Morte, esercito il mio potere. Come si vede, la sostanza non cambia.) 

La prima considerazione di carattere universale è che anche nel contesto idilliaco e sereno del mondo pastorale arcade, amante della bellezza e della natura, la morte fa sentire il suo pungiglione. La seconda considerazione più specifica ha a che fare con la tradizione culturale di questo topos letterario che risale appunto all’età classica.  

A questo proposito mi limiterò ad analizzare la tradizione che si connette in particolare a Virgilio. La Quinta Ecloga delle Bucoliche narra stupendamente di una gara di canto tra due pastori che scelgono come oggetto dei loro componimenti poetici la figura mitica del pastore Dafni. Il bellissimo Dafni, infatti, si era innamorato di Venere, ma essendone stato respinto, si uccide. Per lui viene elevato un tumulo che reca inciso questo epitaffio: Io Dafni fui nelle selve, da qui fino alle stelle noto, di un bel gregge pastore più bello. 

Dunque, il motto Et in Arcadia ego rappresenta in quest’interpretazione la versione universale e davvero lapidaria della Caducità che non risparmia nessuno, per quanto giovane, bello e ricco di talento. 

La gara di canto poi si svolge su due versanti: il primo è quello del lutto doloroso rappresentato dalla perdita di Dafni, che né la bellezza né le straordinarie doti poetiche hanno salvato dalla morte; gli uomini, gli animali e la natura piangono sconsolati la scomparsa di Dafni ucciso paradossalmente dal trasporto amoroso—diremmo noi dalla violenza della pulsione amorosa—la cosiddetta pulsione di vita. 

Il secondo versante è quello della divinizzazione di Dafni, cui i pastori elevano il tumulo che ho ricordato. A Dafni i pastori dedicheranno riti propiziatori della memoria e offerte votive. Sono i processi tipici del lutto, attraverso i quali noi esseri umani cerchiamo di fronteggiare l’angoscia e la desolazione della perdita. 

In particolare, va sottolineata la rilevanza della universalità della caducità nello spazio e nel tempo per la umana consapevolezza e per l’umano dolore. Non ci sono frontiere della caducità, questo è il desolato e solidale commento della poesia, e di Virgilio in particolare. Nell’Eneide, come nei grandi poemi che lo hanno preceduto e in quelli che lo seguiranno, Virgilio spinge il suo eroe ad un viaggio oltremondano, nel regno dei morti. Qui Enea incontra il vecchio padre Anchise che lo accoglie commosso e gli indica i grandi uomini che illustreranno la storia di Roma. Si tratta di una operazione celebrativa che Virgilio doveva ad Augusto, desideroso di disporre di un canto sublime che celebrasse le origini divine e i destini eccelsi di Roma e dell’impero da lui stesso fondato.  

Virgilio compirà un’opera meravigliosa con l’Eneide, adattandosi ai desideri del Principe della cui enorme stima godeva e dei cui benefici poteva usare. Ma Virgilio spiritualmente non credeva affatto nella gloria militare e nel potere politico, da cui tuttavia realisticamente non poteva prescindere. Quando Enea lascia i Campi Elisi per ritornare nel mondo dei viventi passa per le porte di avorio, quelle dei sogni fallaci, con ciò segretamente testimoniando la profonda riluttanza virgiliana ad elevare il potere mondano a valore assoluto. Virgilio non solo sa della malvagità del potere e della sua transitorietà, ma ama anche il canto, la bellezza dell’arte e della natura, che tuttavia non ci salva dalla caducità in tutte le sue forme, fino a quella estrema della morte.  

Molti secoli dopo Freud scriverà un breve saggio dal titolo Caducità, in cui un giovane poeta intravede e lamenta il destino fugace e perituro della primavera. Freud si affretta a dire che ci sarà una nuova primavera, ma dovrà tuttavia concludere che la caducità conferisce un valore formidabile alle cose che passano, tutte le cose, e le cose che amiamo in particolare. Yeats dice: Gli uomini amano, e amano le cose caduche, che dire di più? 

La caducità è dunque la caratteristica che tutti ci accomuna, come testimoniano tra moltissimi altri Virgilio, Guercino, Yeats ed il poeta misterioso citato da Freud, Reiner Maria Rilke, di cui ricordo l’epitaffio scolpito sulla sua tomba nel cimitero della chiesetta di Raron: Oh rosa, pura (reiner) contraddizione, desiderio di essere il sonno di nessuno, sotto così tante palpebre. Ci tornerò. 

Si parva licet componere magnis, vorrei ricordare un brevissimo racconto del mio conterraneo e verbanista Piero Chiara, in cui narra di un sogno che fece poco dopo la morte del padre quasi centenario, rappresentando una sua modesta catabasi. Nel sogno il padre, dalle fattezze di un Giovanni Battista nostrano, accoglie e bagna con acqua lustrale le anime dei morti appena giunti dalla Madre Terra, pronunciando reiteratamente la parola Benedicite. Quando il padre si accorge dell’avvicinarsi del figlio Piero, con gesti perentori lo scaccia e lo rimanda, povero padre sollecito di conservare la vita al figlio, dice Chiara, tra i vivi. 

Questo racconto mi permette di passare alla seconda osservazione dopo la caducità, che ha a che fare con la nostra considerazione della morte. Essa sarà esplorata nel secondo articolo di questa serie. 

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