Etica e disabilità: tra passione progettuale e coerenza interna

Una riflessione a partire dall’intervento di Roberto Malacrida 

In un breve intervento dal titolo Sulla bioetica e sulla disabilità, Roberto Malacrida ha osservato che «la disabilità non è una malattia certa, ma un percorso da esaminare rispetto alle attese cliniche dei soggetti e dei loro famigliari». Per questo «il modello clinico della disabilità deve essere correlato con quello sociale» così da poter allargare l’accoglienza e l’inclusione, delle persone oggi «considerate disabili o diversamente abili». Per consentire a questa tesi di spiccare il volo almeno nell’ambiente socio-culturale di pertinenza, Malacrida si preoccupa di vedere come tale tesi possa essere concretamente sostenuta dai comitati etici chiamati a dare indicazioni al riguardo. A questo proposito considera da una parte quali possano essere le modalità operative di supporto (cioè le diverse forme con cui può essere approvata) e dall’altra che cosa si debba intendere per “etica”. 

Impegnandosi in questo compito, Roberto ha scritto un intervento che è breve e molto denso, in cui solleva molti temi e cerca di chiarire un po’ che cosa sia l’etica e quali siano le competenze che richiede il “fare etica”. Osserva così che «l’etica si può dire in molti modi» diversi e che bisogna conoscere «gli oggetti e i metodi della morale». Sottolinea inoltre che «è auspicabile saper discutere, per esempio, sulle parole che intendiamo adoperare, sulle linee argomentative, sulle conoscenze in nostro possesso, sui nostri valori». Ciò significa, conclude Roberto, che l’etica va pensata «come spazio autonomo di passione progettuale, libero dagli assoggettamenti rassicuranti della cultura e del potere». Sulla scorta di questa tesi passa poi a individuare gli obiettivi di una formazione in etica. 

Mi complimento con Roberto per essere riuscito in breve spazio a cogliere i principali snodi circa l’etica: la sua analisi è in larga misura condivisibile, anche se mi pare sia da chiarire meglio l’idea dell’etica come “spazio autonomo di passione progettuale”. Propongo al riguardo alcune osservazioni a integrazione del discorso di Roberto.  

  1. È vero che l’etica è in gran parte qualcosa di passionale, come è vero che non riguarda la “mera passione bruta”, ma una “passione progettuale” ossia che rientri in un quadro coordinato rispondente a criteri più ampi, che noi chiamiamo “razionale”. 
  2. Se è vero questo, c’è da chiarire che cosa intendere con “spazio autonomo”, perché autonomo da che cosa? 

La domanda è importante, perché spesso si sente dire che “ciascuno ha la propria etica: tu hai la tua e io ho la mia”, sottintendendo che l’etica è qualcosa di inventato e di privato. Non so che ne dica Roberto, ma non vorrei proprio che dietro l’idea dello “spazio autonomo” si nasconda la tesi sopra richiamata. 

Vengo a precisare subito, che l’etica non è affatto qualcosa che “decidiamo autonomamente”, cioè che ci inventiamo con un colpo di scelta: nessuno si mette lì a crearsi la propria etica!

L’etica è qualcosa di sociale che troviamo nella società, perché è l’insieme dei valori e norme fortemente interiorizzati (aspetto passionale) che sono seguiti spontaneamente e per intima convinzione che consentono il coordinamento sociale automatico. L’etica è come il linguaggio, che serve per comunicare e quindi non è privato: nessuno si inventa il linguaggio, ma lo troviamo nella società in cui cresciamo e viviamo. È vero anche che ciascuno ha una propria declinazione del linguaggio comune (un proprio modo di parlare), ma questo rientra sempre nell’alvo del linguaggio ordinario comune. 

Chiarito quindi che l’etica è una particolare istituzione sociale (analoga al linguaggio) che ha la funzione di garantire il coordinamento sociale spontaneo tra esseri che sono portati alla socialità,

coordinamento che garantisce un adeguato livello di benessere per tutti i consociati, l’altra grande caratteristica dell’etica moderna è l’esigenza di una “coerenza interna” come requisito minimo di razionalità. Cerco di spiegarmi. All’inizio l’etica dipendeva da Dio (i 10 comandamenti dettati sul monte Sinai) o da qualche suo profeta o suo sacerdote (le xii Tavole romane). In questo senso l’etica può presentare discrepanze interne. Per esempio l’etica ebraica è composta da 613 precetti, così tanti e diversi che quasi inevitabilmente presentano incongruenze. Con l’arrivo della secolarizzazione, dall’Illuminismo in poi si è passati a ritenere che i giudizi etici debbano essere in qualche modo “razionalmente giustificati”, cioè rispondere a criteri di razionalità. 

Il passo compiuto è notevole, e in un senso segna l’autonomia (nel senso di separazione) dell’etica dalla religione. Prima l’etica dipendeva dalla religione, mentre ora è autonoma nel senso che un principio etico è valido in sé, a prescindere dalla religione: la religione, se mai può confermare. In altre parole, una cosa è giusta non perché lo dice Dio, ma Dio lo dice perché è giusta in sé (se Dio comanda ciò che è ingiusto, non va obbedito!). 

Ci sono molti dibattiti circa la possibilità di giustificare razionalmente i valori, un tema troppo complicato per essere trattato qui. C’è chi dice, con Hume che «la ragione è schiava delle passioni», e chi invece che «la ragione governa le passioni» come sostengo io: pur sapendo che il processo è lungo. Ma non è questa la sede per discutere il punto: riconosco che è difficile sostenere che i valori ultimi sono razionali, e può darsi che sfuggano al vaglio della razionalità (in senso forte).

A parte tutto questo, c’è tuttavia un altro senso più debole e limitato in cui si può pretendere che l’etica sia “razionale”, e questo senso è quello che riguarda la coerenza interna tra le varie tesi morali.

In altre parole, il codice morale accettato deve essere formato da norme e valori che sono internamente coerenti, il che significa che – per usare il discorso di Roberto Malacrida – l’etica “come passione progettuale” colloca la progettualità morale nel riuscire a rendere compatibili tra loro le diverse passioni proposte. 

Da quanto detto, sono portato a credere che le considerazioni fatte siano in linea con la visione dell’etica proposta da Malacrida, e quel che qui ho cercato di fare è articolare aspetti che la sua analisi ha semplicemente dati per acquisiti. Quando diceva che bisogna «saper discutere … sulle linee argomentative», quasi sicuramente supponeva che una di queste linee è quella che rimanda alla razionalità interna. La coerenza o compatibilità delle varie tesi “migliora” l’etica, perché comporta l’eliminazione di tesi incongrue che forse dipendono da fattori atavici e ormai obsoleti: sopravvivenze culturali antiche che hanno perso vigore. Quest’aspetto del discorso di Roberto era stato lasciato in ombra e ho qui cercato di esplicitarlo. 

Se è vero che la coerenza interna di una prospettiva etica è un valore importante (o addirittura prioritario, cioè fondamentale e decisivo), allora le conseguenze sono molte, perché bisogna riesaminare le singole tesi e nozioni ricevute dalla tradizione per vedere se sono compatibili tra loro. Per prendere solo un esempio: per noi vita/morte e salute/malattia sono “cose” diverse e a loro volta sono classificate in categorie diverse. Detto altrimenti, la “vita” è messa in una casella diversa dalla “salute”, così che il diritto alla vita è diverso dal diritto alla salute – così che la violazione di quest’ultimo è meno grave dell’altra (anzi alcuni addirittura negano ci sia un “diritto” alla salute). In questo quadro categoriale si discute se la disabilità sia o no una malattia, in che senso lo sia o non lo sia, etc. 

Ma chi ci dice che quel quadro categoriale sia corretto? Perché non dire che quando ci si limita a considerare i soli temi sanitari, la categoria di vita/morte, invece di essere distinta e diversa da quella di salute/malattia, a ben vedere rientra in quest’ultima? Limitatamente ai temi sanitari, il modo corretto di categorizzare (o incasellare) il processo è il seguente: la salute coincide con la vita e la salute può avere tre modi di essere:  

  1. La salute sta nella zona positiva, cioè si è in buona salute; 
  2. La salute sta nella zona negativa, cioè si è in cattiva salute, che chiamiamo “malattia”; 
  3. La salute si sgretola e si dissolve, cioè è morte. 

Detto altrimenti, la morte è la dissoluzione o disgregazione della salute propria del processo organico, salute che resta l’unica categoria o nozione in campo (abolendo quella di vita). La salute inizia quando si nasce, e il nuovo nato può godere di buona o di cattiva salute e questo è aspetto fondamentale del suo benessere complessivo, il quale dipende però da fattori diversi: doti personali, affetti sociali, ricchezza, opportunità ambientali, etc. È per via di questa distinzione che siamo portati a distinguere tra “vita” e “salute”, perché altro è la “qualità complessiva della vita” e altro è la “qualità della salute”. È infatti immediatamente palese che chi nasce con salute cagionevole ha di sicuro una difficoltà in questo ambito, ma può avere un’alta qualità di vita complessiva ove gli altri fattori sociali fossero positivi. Una difficoltà davvero seria si pone invece quando la salute cagionevole si inserisce in un contesto complessivamente negativo. 

Non è questa la sede per stare a specificare i fattori di negatività della situazione nel suo complesso, ma l’analisi fatta è tesa a mostrare che quando ci si limita all’ambito sanitario (di cura del processo organico) c’è solo la “salute” e la nozione di “vita” rientra in essa. Vita è salute che può essere buona o cattiva, e la morte è una salute che sta sullo “zero della disgregazione del processo organico”, disgregazione frutto della malattia o di altri danni che comporta uno stato “neutro” o di “zero dell’indifferenza” rispetto al “più” della buona salute o al “meno” della cattiva salute o malattia. 

Conclusione. Come collocare la disabilità nel nuovo quadro categoriale delineato? Quali conseguenze normative pratiche comporta la coerenza interna della nuova prospettiva? Questo mi pare tema meritevole di essere esplorato. 

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