«Fai attenzione a ciò che desideri, potresti ottenerlo!»

Una conversazione con il neurologo Giovanni B. Frisoni sulla malattia di Alzheimer 

Essendomi occupato di recente, dal punto di vista delle Medical Humanities, di demenze – analizzando in particolare alcune opere letterarie che ne hanno parlato e dedicando una serata allo scrittore Daniele Del Giudice, ammalatosi prematuramente e morto di questa malattia* – ho pensato che sarebbe stato interessante aggiungere un ulteriore tassello alla “discussione”, coinvolgendo uno scienziato che sta dedicando tutta la sua carriera alla malattia di Alzheimer – tra le forme di demenza la più frequente e nota – facendo ricerca, attività clinica e insegnando in università. 

Quanto leggerete di seguito è la conversazione che ho avuto il piacere di fare con il professor Giovanni B. Frisoni, neurologo di origini italiane, il quale, dopo anni trascorsi in patria dedicandosi allo studio e alla cura della malattia di Alzheimer, dal 2013 è responsabile del Centro della Memoria e Professore di Neuroscienze Cliniche all’Università di Ginevra. Frisoni attualmente sta concentrando la sua attività di ricerca sulle scoperte fondamentali del neuroimaging nella pratica clinica e sulla prevenzione della demenza e dei disturbi della memoria. È autore di oltre 650 pubblicazioni scientifiche indicizzate su PubMed e membro di alcune importanti società di neurologia. 

Professore, ormai sono circa trent’anni che lei si occupa di malattia di Alzheimer, cosa l’ha spinta a dedicare interamente la sua attività a questa patologia? 

Volendo citare il titolo di quel famoso saggio del Nobel per la medicina Jacques Monod Il caso e la necessità, come molte delle cose che ci accadono nella vita, è stata una casualità trasformatasi poi in necessità. Casualità, perché quando, da giovane, mi stavo specializzando in neurologia, a Brescia stava per nascere quello che sarebbe stato poi il primo centro italiano dedicato interamente alla malattia di Alzheimer. La necessità, perché io volevo fare ricerca in medicina, non volevo fare solo il clinico. A quel tempo, all’università di Brescia c’era un gruppo di ricerca che aveva un legame con l’ospedale Fatebenefratelli, con i quali stavano costruendo un centro per l’Alzheimer. Io ho contattato il Professor Trabucchi e da quel momento sono entrato in quest’ambito.

Lei conosce il proverbio inglese «Be careful what you wish for, you may just get it»?! volevo fare la ricerca e me la sono trovata.  

Tra l’altro, era un ambito in cui si conosceva veramente pochissimo, c’era tanto spazio per lavorare. Si sapeva poco o niente dell’imaging, di come usare la tomografia computerizzata (TC), di come usare la risonanza magnetica, a malapena di come usare i test cognitivi. Solo molti anni più tardi sono arrivati gli avanzamenti tecnologici, uno dopo l’altro.   

Di quali anni stiamo parlando? 

Era il 1991. Ho iniziato a lavorare con Trabucchi nel 1988, poi il centro è stato aperto nel 1991. Al momento, lei pensi, non si era nemmeno sicuri che l’Alzheimer fosse una malattia. Ricordo sempre un mio collega e amico dell’epoca che scrisse un editoriale di opinione intitolandolo: Alzheimer: malattia o nebulosa (Zanetti et al. 1991), usando proprio questa immagine astronomica di qualcosa d’indefinito, di misterioso… non eravamo nemmeno sicuri che fosse qualcosa di diverso dal normale invecchiamento. 

Quindi, da lì in avanti, la sua carriera è stata dedicata interamente alla malattia di Alzheimer, sia come clinico che come ricercatore? 

All’inizio io facevo attività clinica durante il giorno e ricerca nel tempo «libero», diciamo. Dovevo guadagnarmi il pane e questo me lo consentiva solo il lavoro in reparto. L’attività di ricerca la facevo nel fine settimana e durante le guardie notturne, fortunatamente poco movimentate, del Fatebenefratelli. Non le dico il numero di articoli che ho scritto durante quelle notti! Negli anni successivi sono poi riuscito, pian piano, a ricavare sempre più spazio da dedicare all’attività di ricerca e alla fine, negli ultimi anni al Fatebenefratelli, sono arrivato a fare due pomeriggi di clinica e per il resto solo ricerca. 

Dopodiché?  

Dopodiché, sono venuto a Ginevra.

Ecco, sono curioso di questo passaggio… 

Avevo capito che quello che potevo costruire a Brescia, nel mio ambito di ricerca clinica, si era esaurito. Quello che potevo fare, l’avevo fatto. Sarei potuto restare, ma ho voluto cercare sia un avanzamento in termini di opportunità tecnologiche sia un respiro nuovo… si è presentata l’opportunità di Ginevra e l’ho presa. 

Al momento, quali sono le sue aree di ricerca? 

 I due ambiti di ricerca più innovativi che abbiamo a Ginevra sono la prevenzione e lo sviluppo di probiotici per l’Alzheimer. Io vengo dall’imaging, i miei primi lavori li ho fatti sulla TC, poi sulla risonanza magnetica, poi sulla SPECT (Tomografia a emissione di fotone singolo). Chiaramente, continuo ad avere una linea di ricerca sull’imaging, ora in stretta collaborazione con il locale medico nucleare, la professoressa Garibotto, anche lei italiana emigrata a Ginevra. Ho aperto i filoni di prevenzione e probiotici perché cominciamo a intravedere come sarà il trattamento della malattia di Alzheimer nei prossimi anni. Avrà sentito che all’inizio dell’anno c’è stato l’annuncio di un farmaco, il lecanemab, che ha dato un risultato inequivocabile nei confronti del rallentamento della progressione della malattia. C’era stato un annuncio simile già un paio di anni fa per un altro farmaco, l’aducanumab, ma in due trials uno aveva dato dei risultati positivi, l’altro negativi; inoltre, l’azienda ha mal gestito la cosa e l’aducanumab non sarà probabilmente mai distribuito in Europa. All’inizio di quest’anno, invece, abbiamo finalmente avuto l’annuncio del lecanemab, l’anticorpo monoclonale anti-amiloide. 

L’FDA l’ha approvato?  

Approvato dall’FDA, sottomesso all’EMA, sottomesso a Swissmedic. Il futuro del trattamento dell’Alzheimer sarà anche con questo tipo di farmaci. Non solo con il lecanemab, ma probabilmente con un cocktail di farmaci che agiranno sull’infiammazione, sui processi metabolici, sullo stress ossidativo… insomma, si comincia a vedere nella pratica clinica il risultato di trent’anni di lavoro. Tuttavia, anche se i risultati clinici sul lecanemab sono certamente positivi, il beneficio sul paziente pare abbastanza limitato. Per questa ragione sarà essenziale intervenire prima che le persone sviluppino un deficit cognitivo, con interventi preventivi. Deficit cognitivo cosa vuol dire? Vuol dire che i test di memoria sono compromessi, sono al di sotto dei limiti del 10% della distribuzione normale per età e sesso. Insomma, non aspettiamo che la memoria arrivi a dare dei risultati patologici ai test, interveniamo prima, quando le persone sono sui 50-60-70 anni e sono ad alto rischio. Adesso i fattori di rischio dello sviluppo di una demenza di Alzheimer e di altri tipi di demenza li conosciamo. Quindi, da un approccio che è quello delle cliniche della memoria attuali, dove aspettiamo che i pazienti vengano da noi – di solito accompagnati dai famigliari – e ci dicano: «Dottore, non mi ricordo più niente», a un approccio attivo nel quale siamo noi che andiamo dal paziente e valutiamo il rischio di sviluppare i disturbi della memoria. Per fare cosa? Per montare poi degli interventi di riduzione del rischio. Il modello è il medesimo della prevenzione vascolare: oggi non aspettiamo più che la gente sviluppi l’infarto o l’ictus cerebrale; agiamo molto prima, quando sono presenti solo i fattori di rischio, che per l’infarto e l’ictus sono ipertensione, diabete, ipercolesterolemia, obesità, etc. 

Parliamo di prevenzione secondaria?  

Sì, secondaria, in questo caso. C’è anche la prevenzione primaria da fare, ovviamente. La prevenzione secondaria è rivolta alla persona ad alto rischio, la prevenzione primaria si fa per tutta la popolazione. 

Qualche fattore di rischio si presta ad una prevenzione primaria, come ad esempio il fumo. Altri, come ad esempio l’amiloidosi cerebrale, no. L’amiloidosi cerebrale la si tratta in chi l’amiloidosi ce l’ha, quindi in chi è a rischio. 

Se oggi conosciamo l’amiloidosi cerebrale è anche grazie all’imaging?  

Assolutamente sì. Gli studi sui farmaci anti-amiloide hanno ricevuto un impulso fenomenale dallo sviluppo dei traccianti PET (Tomografia a emissione di positroni), non c’è dubbio. Prima dei traccianti PET non si conosceva la dinamica dello sviluppo dell’amiloidosi cerebrale nelle persone prima sane e poi malate. Se non si conosce come si sviluppa un fenomeno, non è chiaramente possibile pensare di mettere in atto interventi per contrastarlo.  

Nel 2016, lei ha pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet, insieme ad altri sei ricercatori, un articolo nel quale si diceva che la ricerca sull’Alzheimer stava facendo passi importanti e si poteva già intravedere un futuro in cui questa demenza si sarebbe potuta curare o persino prevenire. A distanza di sette-otto anni, a che punto siamo?

Abbiamo pubblicato, proprio qualche settimana fa, un lavoro su Lancet Regional Health (Frisoni et al. 2023), rivista del gruppo Lancet dedicata alle politiche di salute pubblica in Europa, nel quale definiamo come dovrebbero essere le cliniche della memoria di seconda generazione, quelle dove si farà prevenzione, dove non si aspetterà che la gente arrivi con la memoria ormai compromessa, dove si agirà sulla riduzione del rischio. 

Vorrei ci spostassimo ora dal pazientE ai pazientI. Grazie anche ai progressi che ci ha permesso di fare la ricerca in medicina – è ormai banale dirlo ed è evidente guardandoci intorno – la popolazione sta invecchiando. Per questo motivo, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il numero di persone affette da demenza dovrebbe triplicare entro il 2050, raggiungendo i 152 milioni in tutto il mondo. Quali sono, dal suo punto di vista, le misure più importanti a livello di popolazione da mettere in atto per affrontare questa situazione oggi e nei prossimi anni? 

Credo che ci sia un grande lavoro da fare a livello di stile di vita. Nel 2020, sempre Lancet ha pubblicato un lavoro di un gruppo di esperti che ha fatto una revisione della letteratura impressionante che ha permesso di identificare 12 fattori di rischio per la demenza (Livingston et al. 2020). Alcuni sono i medesimi fattori di rischio delle malattie cardiovascolari – la salute del cuore e la salute del cervello, vanno di pari passo! Altri sono specifici per le demenze, come la perdita dell’udito – ipoacusia – l’isolamento sociale, l’inquinamento, la depressione etc. C’è un grandissimo lavoro da fare a livello di popolazione su questi fattori di rischio. Si calcola che la frazione attribuibile (il potenziale di riduzione dello sviluppo di una malattia conseguente all’eliminazione di un fattore di rischio o, in altre parole, quanto un particolare fattore ha contribuito allo sviluppo di una malattia, n.d.a.) a questi 12 fattori di rischio è del 40%. Cioè, in teoria, se riuscissimo ad eliminare tutti gli effetti di questi 12 fattori di rischio, ridurremo del 40% i casi di malattia. Ovviamente, questi sono esercizi di statistica, il rischio non si elimina mai completamente. Tuttavia, anche se riducessimo della metà, se riducessimo già del 20%, sarebbe un enorme successo. Quindi, c’è molto lavoro da fare a questo livello. C’è anche lavoro da fare a livello individuale. Credo che i due approcci siano da applicare contemporaneamente, bisogna lavorare in modo complementare e parallelo.

Quindi, da un lato c’è un lavoro di prevenzione da fare a livello di popolazione, dall’altro c’è un lavoro da fare a livello individuale, a livello di persone ad alto rischio. 

Parlando di persone che oggi sono già malate, i pazienti che hanno l’Alzheimer? 

Chi ha l’Alzheimer oggi non è sempre un nonno. A volte è un papà, talvolta è persino un figlio – cinquantenni noi ne vediamo! In questa popolazione, in questi pazienti i bisogni sono enormi. C’è bisogno di farmaci efficaci sulla progressione della malattia. Ora cominciamo finalmente ad avere qualcosa, ma siamo solo all’inizio, ci vorranno ancora numerosi anni per avere dei cocktail farmacologici efficaci. Poi, c’è anche bisogno di agire sui disturbi del comportamento causati dalla malattia. Il paziente che dopo quattro-cinque anni diventa irritabile, aggressivo, oggi viene trattato in modo inadeguato.

L’utilizzo degli psicofarmaci è eccessivo e inappropriato. Non solo eccessivo in termini quantitativi, ma inappropriato in termini qualitativi: spesso vengono utilizzati dei farmaci che non sono assolutamente adatti a questi pazienti.

Certo, se io vado a caccia di passerotti con un bazooka, il passero sul ramo lo stendo, però faccio anche un gran danno collaterale tutto intorno! Purtroppo, molto spesso, i disturbi del comportamento vengono trattati in questo modo, col bazooka, con farmaci molto potenti, responsabili di sedazione o disturbi dell’equilibrio e del cammino. Un altro bisogno è quello di educare i familiari. I familiari spesso si ritrovano con un parente malato e non hanno alcuna preparazione per gestirlo – normale! non c’è nessuna scuola che prepari a gestire una tale eventualità – però, una volta che questo accade hanno bisogno di suggerimenti e di indicazioni. Purtroppo, anche in Svizzera, i percorsi di psicoeducazione sono ancora pochi e non sufficientemente strutturati.    

Per ragioni di lavoro, in questo momento lei si trova a Venezia. Immagino viaggi parecchio e conosca molti colleghi in varie parti del mondo. Se dovesse dirmi quale nazione sta facendo meglio, in termini di ricerca, nell’ambito dell’Alzheimer? 

Mah, è come quando lei chiede alla mamma chi è il figlio più bravo! Guardi, io credo che l’Europa, magari non tecnologicamente, ma culturalmente, resti ad oggi la più avanzata dal punto di vista dell’approfondimento culturale e della finezza del pensiero scientifico. Gli Americani erano più avanti di noi, anche più sofisticati nel pensiero fino a cinque-dieci anni fa. Negli ultimi anni, c’è stata un’inversione di tendenza e adesso siamo noi in Europa i più fini nell’elaborazione concettuale e nell’interpretazione di alto livello dei risultati degli studi clinici. 

Quali sono i gruppi di ricerca più interessanti? 

In Europa, ci sono alcuni gruppi che sono leader. È sempre antipatico far classifiche, ma se volessimo mettere qualcuno sul podio dei ricercatori clinici (attenzione, non parlo di quelli che fanno ricerca di base!), così, un po’ per gioco, la mia medaglia d’oro andrebbe al gruppo di Amsterdam guidato da Philip Scheltens. Ma ci sono anche quello di Bruno Dubois a Parigi, di Frank Jessen a Colonia e Bonn, di Bruno Vellas a Tolosa, di Nick Fox a Londra, di Agneta Nordberg a Stoccolma, e molti altri che non le menziono solo per brevità. 

Si collabora bene tra di voi?

Sì, si collabora molto bene, posso dire che è un bell’ambiente. Dopo tanti anni, abbiamo sviluppato anche dei legami di amicizia. Tra l’altro, le dico anche che la dementologia, in Europa, è un ambito assolutamente aperto e inclusivo a livello professionale: la fanno i neurologi, i geriatri, gli psichiatri, gli psicologi, senza dimenticare i neuroradiologi, i medici nucleari, i medici di laboratorio. Tra i colleghi che le ho citato poc’anzi ad esempio Scheltens è neurologo, Jessen è psichiatra, Vellas è geriatra. C’è questa cross-fertilizzazione di competenze che è molto arricchente. 

Se oggi dovessi scegliere tre parole che vanno – mi conceda il termine un po’ frivolo – «di moda», in medicina, forse le direi: genetica, stile di vita e intelligenza artificiale. Mi sembra siano termini che, anche nella sua specialità, si sentano citare spesso. 

Di genetica e stile di vita ne abbiamo già parlato prima, implicitamente, quando le ho detto che lo sviluppo del decadimento cognitivo e di una demenza è dovuto in parte a fattori legati allo stile di vita – quei 12 fattori che le menzionavo – e in parte a fattori genetici. Ad esempio, l’amiloidosi cerebrale è genetica o è stile di vita? L’amiloidosi cerebrale sappiamo che è un po’ tutti e due, perché è influenzata da un gene che si chiama APOE, ma probabilmente è anche influenzata dagli stili di vita.   

Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, nel mio ambito si sta affacciando solo recentemente. Le sue applicazioni si vedono a livello della rilevazione dei primi sintomi. Il mio gruppo di ricerca è all’interno di un consorzio europeo nel quale si sta cercando di sviluppare dei sistemi di monitoraggio con dei dispositivi indossabili (wearable devices) che monitorano una serie di parametri fisiologici. L’intelligenza artificiale ci permetterà di rilevare alterazioni che l’occhio umano non è in grado di cogliere. A livello di diagnostica strumentale, la risonanza magnetica di routine per un paziente da noi a Ginevra, oggi dura 35 minuti. Con le prossime apparecchiature radiologiche durerà la metà, perché alcuni algoritmi di intelligenza artificiale riducono di metà il tempo di acquisizione di alcune sequenze. Questa maggiore velocità ci permetterà di esaminare un maggior numero di pazienti.  

L’ultima domanda che le faccio riguarda le Medical Humanities che, insieme all’etica clinica, sono uno dei temi di cui si occupa la Fondazione Sasso Corbaro. Io amo molto letteratura e cinema e cerco spesso i legami che queste due espressioni artistiche hanno con la nostra professione. Tanti artisti hanno parlato, nelle loro opere, di demenza. Crede che l’arte possa in qualche modo avere un ruolo nella vita di uno scienziato? E che rapporto ha lei con l’arte? 

Questa domanda mi fa particolarmente piacere… amo il “pensiero laterale” e l’arte tocca la mia attività di ricerca almeno a due livelli. In primis, mi permette di far capire, a chi esperto non è, cosa vuol dire avere una demenza. C’è stato un pittore americano, William Utermohlen, che ha sviluppato un Alzheimer precoce all’età di 55 anni. Utermohlen aveva l’abitudine di farsi degli autoritratti, un po’ come Van Gogh. Questa pratica l’ha portata avanti per i quattro-cinque anni successivi alla diagnosi di demenza. Se si mettono in ordine cronologico i suoi autoritratti, si può percepire una profondità di comprensione della sofferenza che raramente ho sentito espressa verbalmente dai miei pazienti. Purtroppo, chi sviluppa una demenza, perde la capacità di concettualizzare, perde la capacità di concentrazione, perde la capacità di vedersi e di capire che cosa gli stia succedendo. Di conseguenza, non sa nemmeno spiegarlo agli altri. Tra l’altro, l’incapacità di verbalizzare è responsabile di una falsa credenza che circola nella gente ovvero che se ti ammali di Alzheimer fai star male gli altri ma tu non stai male, perché tanto tu non capisci più niente… ecco, questo non è assolutamente vero!

Il malato che sviluppa la malattia di Alzheimer prova un dolore senza volto, un dolore che non riesce a esprimere, di cui non riesce a parlare, che non riesce a condividere. Per questo è condannato a viverlo da solo.

Invece, Utermohlen è riuscito a dare un’espressione iconica a questa sua sofferenza e, guardando le sue opere, noi riusciamo finalmente a capirla. Tramite i quadri del pittore americano io insegno ai miei colleghi e ai famigliari cosa significa la sofferenza di una persona con demenza.   

L’altro aspetto per il quale considero l’arte una sorta di compagna che mi aiuta nella vita di tutti i giorni deriva dall’abitudine che io e la mia compagna abbiamo di visitare musei e mostre e di ascoltare concerti in diverse città italiane e europee. Resto regolarmente attonito e sbalordito dalla capacità creativa sia dei musicisti che dei pittori. I grandi geni hanno la capacità di creare qualcosa di completamente nuovo, di sfidare le convenzioni comuni e di produrre qualcosa che solo loro hanno avuto il coraggio di produrre. Spesso ci vuole un po’ d’incoscienza per andare al di là dei canoni, degli standard, di ciò che sai che sarà ben accolto e osare entrare in uno spazio creativo ad alto rischio, la cui accoglienza non è per nulla scontata. Tra quelli della mia età ci sono moltissimi appassionati dei Pink Floyd e dei Genesis. Io, ancora oggi, quando ascolto Supper’s Ready dei Genesis o Atom Heart Mother dei Pink Floyd, resto esterrefatto dal coraggio di osare, di andare oltre le convenzioni musicali dell’epoca. Questo mi dà forza, mi stimola a essere anch’io coraggioso e ad andare al di là di quello che ai miei colleghi piace sentirsi dire o si aspettano che io dica.   

Nota

Sul sito della Fondazione Sasso Corbaro trovate la recensione di un romanzo americano Nuoto Libero della scrittrice Julie Otsuka, sul tema della demenza e di un romanzo italiano, Una vita dolce, dello scrittore Beppe Sebaste, che parla dei cambiamenti sopraggiunti nella sua vita dal momento in cui la compagna ha sviluppato la malattia di Alzheimer. Qui potete invece rivedere la serata dedicata a Daniele Del Giudice.

Bibliografia

Zanetti O., Binetti G., Trabucchi M., “Alzheimer, malattia o nebulosa?”, La rivista del medico pratico, Gerontologia, 43:18-21, 1991. 

Frisoni, G. B., Altomare, D., Ribaldi, F., Villain, N., Brayne, C., Mukadam, N., … & Dubois, B., “Dementia prevention in memory clinics: recommendations from the European task force for brain health services”, The Lancet Regional Health–Europe, 26, 2023. 

Livingston, G., Huntley, J., Sommerlad, A., Ames, D., Ballard, C., Banerjee, S., … & Mukadam, N., “Dementia prevention, intervention, and care: 2020 report of the Lancet Commission”, The Lancet, 396(10248), 413-446, 2020. 

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