Fede, Speranza e Carneficina

Intervista “introspettiva” sul libro di conversazioni tra il musicista Nick Cave e il giornalista Sean O’Hagan  

Recentemente abbiamo iniziato a percorrere un nuovo Sentiero lasciandoci guidare da un cartello che indicava la direzione della “musica”. Dopo i primi passi è nato “Soundtracks sMH”, progetto che porta le canzoni all’interno della nostra rivista on-line, ogni primo giorno del mese.  

Come tutte le cose che nascono per caso, tra una birra e qualche chiacchiera con un piccolo gruppo di amici (Claudio, Antonio e Andrea), non sapevo bene dove potesse andare a finire questa idea e, a dire il vero, non lo so tutt’ora, considerando che con “Soundtracks sMH” siamo all’alba (quando scrivo questo pezzo è stata pubblicata solo la prima playlist). 

Tuttavia, sull’onda – verrebbe da dire “sonora” – dell’entusiasmo ho pensato che sarebbe stato interessante provare ad andare oltre, provare a dar vita a un discorso più ampio sulla musica nelle Medical Humanities, un discorso fatto di contributi dalle forme più disparate. Uno, a onor del vero, scritto dallo stesso Andrea del gruppetto di amici menzionati poc’anzi, l’abbiamo già pubblicato qualche mese fa col titolo-domanda “Cosa c’è di speciale nella musica?”.  

Devo inoltre premettere che mi sono trovato ultimamente a ripensare a questo spazio che mi è stato affidato, nel quale con una cadenza mensile, dovrei occuparmi di dialogare con persone che hanno più o meno a che fare con l’universo percorso dai “Sentieri”. In questo ripensamento si inserisce una sorta di gioco che vorrei provare a fare ogni tanto, esternalizzando una conversazione tra me e me.  

In questo caso, la conversazione riguarda un libro-intervista a tema musicale – ecco qui il discorso sulla “musica” che prosegue – che ho letto di recente e che mi ha fatto venire una voglia matta di parlarne. Il libro in questione è Fede, Speranza e Carneficina, (Faith, Hope and Carnage nella versione originale in inglese) pubblicato in italiano da La Nave di Teseo nel 2022. Si tratta di un testo di poco meno di 400 pagine che riporta circa 40 ore di conversazioni telefoniche tra il musicista australiano Nick Cave e il giornalista irlandese Sean O’Hagan avvenute nel 2020 in piena pandemia. O’Hagan, che è sapientemente in grado di porre le giuste domande, lascia parecchio spazio alle risposte di Cave, il quale tocca temi fondanti il pensiero dell’essere umano come la fede, l’arte, la libertà, il lutto e l’amore. 

 

Cosa leggi? 

Fede, Speranza e Carneficina, un libro-intervista a Nick Cave.  

Sei un fan di Cave?  

A dire il vero, se per fan intendi qualcuno che conosce a memoria la sua discografia e che va ai suoi concerti, ti direi di no. Non l’ho mai visto dal vivo e devo anche ammettere che a Cave sono arrivato tardi, non più di qualche anno fa, non ricordo bene nemmeno quando. Cioè, conoscevo chiaramente Nick Cave e la sua band The Bad Seeds, qualche pezzo, ma non avevo mai capito la grandezza di questo artista. Forse non ero abbastanza maturo o forse non mi ero preso il tempo di ascoltare con attenzione i suoi album. E dico album non a caso: in un universo musicale che negli ultimi anni vive di singoli è chiaro che un artista come Cave rischia di essere confinato, come altri del suo calibro, a una nicchia di ascoltatori. Diciamo che Cave non è proprio il prototipo dell’attuale musicista pop. Se ci penso però è assurdo sia considerato snob e poco accessibile. Pensa che nel 2018 si è inventato una cosa che si chiama The Red Hand Files per rispondere ai suoi fan. Gli arrivano centinaia di lettere con domande, lui le legge (a detta sua tutte, e io un po’ mi fido) e risponde a una ogni settimana. Quindi, vedi… Cave è anche questo. 

Ma è un libro adatto solo agli appassionati? 

Assolutamente no. È un libro che può essere tranquillamente letto anche da chi non è un esperto di Cave. Anzi, mi sentirei di consigliarlo a chi avesse voglia di conoscere l’artista australiano – certo, magari avendo la curiosità ogni tanto, nel corso della lettura, di andare a guardarsi Wikipedia o qualche video su Youtube, per meglio comprendere alcune citazioni che Cave e O’Hagan fanno nel corso delle loro conversazioni. Chi non lo conosce, resterà stupito della profondità del suo pensiero. 

Beh, tra l’altro, stavo pensando che sto titolo è stupendo, ti fa venire una voglia pazza di buttarti nel libro. Cosa c’entra?  

Sapevo che l’avresti notato, ormai un po’ ti conosco. Sì, concordo con te, è proprio bello. C’è tutto Cave: immediatezza, profondità, l’astratto ma in qualche modo anche il concreto – quel carneficina poi è potentissimo. Potrei cercare su Google per darti risposta, vedere come i critici l’hanno interpretato, vedere se Cave stesso abbia dato una spiegazione del perché di questa scelta. In realtà però non mi va. Non saprei di preciso cosa c’entra, ma mi pare che alla fine c’entri con tutto, ogni stralcio di conversazione mi sembra che lo contenga. E mi basta così. 

Di “Carneficina”, i due ne parlano nella parte 10, da pagina 232, intitolata proprio Una serie di ordinarie carneficine. Cave spiega che Carnage, Carneficina nel titolo inglese, è una canzone dell’album che sarebbe poi uscito nel 2021 con lo stesso nome, un album fatto con il geniale polistrumentista Warren Ellis e che a detta del musicista australiano ha «avuto come nido una catastrofe collettiva», ovvero la pandemia. Sono andato a leggere la presentazione di Carnage su iTunes. Lì si dice chiaramente che la pandemia non ha di per sé ispirato l’album e che «catastrofe, perdita e desiderio» sono sempre state protagoniste nella musica di Nick Cave. Tuttavia, le sfide del 2020 hanno dato impulso alla creatività del cantautore per finalizzare questo progetto.  

Ecco vedi, la musica in questo caso si fa testimone della condizione umana di fronte alla malattia.  

Poi c’è quel “Fede” che invece è sicuramente il più diretto dei tre termini. Cave, stimolato da O’Hagan, parla molto di Dio. C’è la parte 2 a pagina 39 che si intitola L’utilità della fede. Quelle sono pagine bellissime! Si racconta di come il primo Cave si sia lasciato spesso ispirare dalla Bibbia, un po’ come lo fecero autori come Faulkner e O’Connor, nei cui testi, nonostante fossero profondamente intrisi di biblico, si percepisce «una forma di conflitto con le idee religiose». Poi Cave dice anche, a un certo punto, che la Bibbia «[…] è una fonte immaginativa incredibile oltre che un dramma umano audace, istruttivo. Anche solo il linguaggio in sé è straordinario». Ora la smetto eh, ma qualche riga più in là dice anche un’altra cosa – e qui capisci che non c’entra nulla il Dio come ti verrebbe in mente o la fede dei bigotti – che mi ha colpito ancora di più: «che forse la ricerca è l’esperienza religiosa – il desiderio di credere e l’aspirazione a che ci sia un senso, il movimento verso l’ineffabile» e poi ancora «[…] forse Dio è la ricerca in sé». Non sono robe su cui puoi essere o meno d’accordo, le leggi, le prendi così, ci fai i conti da solo, magari subito, magari dopo dieci giorni, magari mai… ma

l’idea che un artista abbia questo pensiero nei confronti del trascendente a me affascina, mi fa pensare che l’arte stessa abbia qualcosa di trascendente e, se così fosse, che a quel trascendente attraverso l’arte ci si possa arrivare.

Che poi se ci pensi sta cosa c’entra pure parecchio con le Medical Humanities. Non sei mica tu che mi chiedi spesso cosa sono e cosa faccio alla Fondazione Sasso Corbaro? Beh, portare le discipline umanistiche nel mondo della medicina potrebbe dare proprio questa spinta sia in chi cura, sia in chi è curato, nei confronti di una dimensione spirituale – intesa come meglio preferisci intenderla – dell’individuo. Anche lo scienziato più materialista questa dimensione umana non la può negare, questa spinta del pensiero ad andare oltre è propria di ciascuno di noi, che la si viva più intensamente o meno… questo chiaramente è molto individuale, però…  

Poi ti dirò, in realtà, se mi chiedessi quale potrebbe essere uno dei fili conduttori del libro, qualcosa su cui le conversazioni tornano spesso, ti direi che è il lutto. Questo, secondo me, è un grande libro sul lutto.  

Spiega meglio, non capisco…  

Sì, scusa, hai ragione. Nel 2015 il figlio 15enne di Nick Cave, Arthur, è morto cadendo da un dirupo a Brighton. Da lì in avanti, come certamente accade nella vita di qualsiasi altro padre e di qualsiasi altra madre – nel libro si parla anche molto di Susie (Susan Bick) ex-modella e ora famosa stilista, moglie di Cave e madre di Arthur – nulla può essere più come prima. Questa dimensione del da quel momento in avanti ricorre spesso nelle conversazioni tra Cave e O’Hagan. In parecchi punti nel libro si tocca l’argomento lutto, se ne parla in maniera molto esplicita e si parla della morte di Arthur. Cioè, non che si parli in alcun modo del figlio o di quanto accaduto nello specifico, più che altro Cave racconta di come lui e la moglie Susie abbiano vissuto le loro vite dopo quel tragico 14 luglio del 2015.  

Cave, parlando con O’Hagan, in vari punti del libro analizza alcuni periodi, alcune fasi della sua vita successive alla morte del figlio. Dà, per esempio, tra pagina 242 e 243, una risposta a una domanda postagli da O’Hagan, in relazione al lutto: «mi chiedo se sia necessario affondare per uscire più forti» che ho trovato molto vera e di grande conforto per chi ha vissuto un trauma simile al suo. Cave dice: «Credo che vivere sul baratro provochi una sensazione molto pericolosa e seducente a cui credo si dovrebbe resistere. In quel luogo molto buio, la persona in lutto può percepire una prossimità con chi ha perduto da cui può risultare difficile distaccarsi, o tornare indietro. Quel particolare tipo di lutto può dar luogo a un effetto di isolamento e, non so, di automatizzazione che, in alcuni casi, può rivelarsi permanente. Voglio dire, io e Susie l’abbiamo vissuto dentro di noi; per un po’, abbiamo attraversato una sorta di fase zombie. Non voglio che tu fraintenda cosa sto dicendo, ma può esistere una specie di morbosa adorazione di un’assenza. Una riluttanza ad andare oltre il trauma, perché il trauma è il luogo in cui risiede la persona perduta e di conseguenza il luogo dove il senso esiste». L’immagine degli zombie è molto forte, rende bene l’idea dell’entità del dramma che una perdita di questo tipo impone a due genitori. Tra l’altro, ho notato una cosa molto bella a proposito di genitori. Anche in un altro punto, a pagina 159, quando si parla di questo argomento, Cave menziona nuovamente sua moglie Susie, dopo aver riferito a O’Hagan che a seguito dell’incidente, il sentimento prevalente in lui non era la rabbia ma la disperazione e dice: «Susie ovviamente, entrò in un girone dell’inferno che è riservato esclusivamente alle madri che perdono i propri figli. È tutto un altro livello di perdita e sofferenza, una cosa terribile, terribile per chiunque. C’è dentro tutta una serie di sentimenti intrecciati – colpa e vergogna e disprezzo di sé – così primari, eppure così complessi, quasi impossibili da sbrogliare». Sempre in quelle pagine un’altra bellissima immagine che utilizza Cave è quella della «complessa metamorfosi di chi siamo» che le decostruzioni del sé, imposte da accadimenti inevitabili e incontrollabili che avvengono nelle nostre esistenze – «la rottura di un matrimonio, o una trasgressione che ha un effetto devastante sulla propria vita, o problemi di salute, o un tradimento, o un’onta pubblica, o una separazione dove qualcuno perde i propri figli, o qualsiasi altra cosa» – ci costringono a fare. Cave è molto lucido, parla anche del fatto che il tempo aiuta a ricomporre i pezzi e che queste situazioni, che nella nostra esistenza possono capitare purtroppo anche ripetutamente, fanno parte del gioco, sono «vivere, veramente – morire in un modo e rinascere».  

Vedi, prima avevo ignorato il termine “Speranza” del titolo, adesso rileggendo queste parole capisco forse a cosa possa riferirsi… c’è, in effetti, nel Cave maturo di questa sua fase della vita adulta, una forte speranza che le cose possano comunque funzionare nonostante tutto. Per lui, per esempio – qui torniamo all’importanza fondamentale della sua arte – il suo lavoro, dopo la perdita del figlio («una condizione, non un tema») è evoluto, parla di «una specie di zelo», che ritrova anche nella moglie Susie, di «un’audacia di fronte alle cose, una specie di indomito rifiuto di sottostare alle condizioni del mondo». Io credo di essere d’accordo.

Questa sorta di pacifica ribellione nei confronti di quanto ci accade credo che possa aiutare molto ad affrontare la vita e ad affrontare i noi stessi del dopo disastro, del dopo catastrofe.

Cave dice a pagina 160: «Penso che entrambi» riferendosi ancora a Susie – che bella sta cosa, traspare un amore potente da questo coinvolgere spesso la moglie, ed è proprio bello percepirlo leggendo le sue parole – «abbiamo realizzato che potevamo essere felici, che la felicità era una forma di insubordinazione a dispetto della vita, credo. Era una scelta. È questo, una scelta, una sorta di sudato e ponderato accordo con il mondo, di essere felice. Nessuno ha il controllo su ciò che gli accade, ma abbiamo la scelta di come reagirvi. C’era una ribellione qui, di fronte all’indifferenza e all’apparente casuale crudeltà del mondo» 

Beh, senti, sto libro devi proprio leggerlo…  

Sì, ok, in effetti mi hai convinto, lo leggerò. Dimmi solo un’ultima cosa però, son curioso, la musica in tutto questo è presente?  

Sì, certo. I due parlano moltissimo anche di musica: raccontano alcuni aspetti di making of di album o di progetti, fanno accenno ad alcuni testi di canzoni o si scambiano aneddoti anche divertenti – ad esempio, c’è il racconto di quando Chris Martin dei Coldplay entra nel suo studio di registrazione di Malibù che ha lasciato a Cave per registrare l’album Ghosteen e dice, riguardo a Waiting for you (un pezzo stupendo!) «Vi voglio molto bene ragazzi, ma potete farmi sentire di nuovo la canzone senza quella fottuta fabbrica di lattine?» (riferendosi a un loop un po’ industrial, che inizialmente era previsto nell’intro del pezzo e che poi è stato tolto dopo questo episodio). Però, quello che a tal proposito mi è piaciuto di più e mi ha fatto pensare al lavoro di ricerca sull’arte che ha per tema la cura di cui mi occupo alla Fondazione Sasso Corbaro è il credere, da parte di Cave, che le canzoni «hanno un potere particolare» e siano «una forma di ascensione capace di trasmette o evocare un senso di stupore crescente», e ancora, che «le canzoni sono una forza. Possono rendere le persone migliori, aiutano le persone […]».  

Allora, mi rendo conto che dette così le parole di Cave possano forse suonare un po’ ingenue, da boomer… sai bene come la penso, sai bene che non credo che nessuna forma di espressione artistica abbia qualsivoglia effetto curativo diretto – e odio moltissimo certi discorsi! – ma sono convinto, come lo è Cave, che «l’arte deve avere la capacità di migliorare le cose, altrimenti a che serve?», che la gente possa essere «unita dalla musica» – pensa a certi concerti – e che la musica «può avere un’influenza supremamente positiva su una persona e sulla sua relazione con gli altri».  

Io non mi occupo di musica e non suono nemmeno, ma da quando sono piccolo è difficile ricordarmi di un giorno dove ne abbia fatto a meno, è qualcosa che c’è sempre… tornando a quanto dicevo prima e questo libro in qualche modo me lo conferma,

la musica, secondo me, può essere in grado di far pensare e di aprire un dialogo. Questo è certamente dovuto alla sua potenza emozionale, a quella roba che senti dentro quando ascolti quel pezzo.  

Ora chiudo, ma prima che tu scappi ad accaparrarti il libro, ti faccio sorridere, usando sempre le parole di Cave: «La vita è troppo maledettamente breve, a mio avviso, per non lasciarsi meravigliare».  

Ecco, penso che per credere a tutto questo bisogna lasciarsi un po’ meravigliare… e mi pare sia bello, molto bello, pensarla così.  

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