Fiducia, ascolto, inclusione

Speranza nella disabilità o vulnerabilità 

Alla fine di ogni Accademia si richiede alle partecipanti e ai partecipanti di elaborare un testo libero su un tema a scelta, sulla base delle riflessioni sviluppate nel percorso. Non ci sono regole “accademiche” da seguire, solo una, esistenzialista: scrivere su qualcosa che si sente nella mente e nel cuore, che possa essere un gesto di cura. Nel tag “Accademia” condividiamo alcuni di questi elaborati sviluppati nelle nostre Accademie.   

La mia vita è cominciata immersa nel dolore, nei problemi, in veri e propri dilemmi esistenziali. Un enigma. A partire da traumi risalenti alla prima tenera età, ho attraversato l’inferno. La mia mente ha cancellato immediatamente il ricordo dei vissuti penosi scatenanti, lasciandomi come soli indizi un gran mal di schiena, un’infinita ansia persistente e stati di depressione improvvisa. 

Non potevo sottrarmi, l’età precoce, l’immaturità, non mi hanno consentito subito di affrontare la situazione creatasi. Situazione che ho dovuto vivere in solitudine, senza alcun appoggio sicuro. La circostanza non prevedeva aggrappi al di fuori del mio unico pensiero. Mi era vietato uscire di casa e non potevo intrattenermi con altre persone del paese di montagna in cui vivevo.

La solitudine, una delle conseguenze più devastanti che abbia mai provato nella vita.

Oltre alla mancanza assoluta di compassione dovevo temere da un momento all’altro qualche incursione negativa da quelli che dovevano essere i miei punti di riferimento. Ero in balia di continue manipolazioni. Dovevo stare zitta e non raccontare niente. Non mi restava che subire le punizioni e le gelosie dei miei genitori e di alcuni parenti, per motivi che mi erano oscuri e indecifrabili.

L’obbligo al silenzio mi ha portata inevitabilmente al mutismo e la conseguente accettazione di tutto ciò che mi arrivava dall’esterno.

Potevo contare solo sui miei pensieri e prestare la massima attenzione a non farli assolutamente trapelare per non rischiare di aggravare e subire conseguenze ancora più inaspettate. Tenere a bada e gestire da sola i pensieri per anni è stato estenuante.

Il dilemma vero era quello di riuscire a scalare il dolore senza far trapelare nulla all’esterno, per non essere disturbata mentre ero intenta a vedermela con me stessa.

Da qui presumo che la mia mente abbia iniziato, come difesa, il processo di rimozione dei ricordi traumatici; è stato l’inizio di una fase in cui attorno a me regnava l’indifferenza, dove facevo il possibile per apparire felice, seria, impegnata… mi sembrava di aver trovato finalmente la normalità… quella calma esterna… 

Su per giù me la sono cavata, a stenti, fino ai 24 anni, quando mi bussò alla porta la mia parte interna.  

Arduo fu decifrare il delirio.

Non me lo aspettavo; non sapevo chi fosse l’inconscio. A questo punto, la vita si bloccò. Avevo solo due alternative: lasciarmi andare oppure combattere. Decisi di voler e dover reagire per superare il male. Ampliai il raggio di azione e inclusi nel mio percorso un professionista. Capii che era giunto il momento di investire del tempo buono… ma non immaginavo quanto ne fosse necessario. Nel frattempo abbandonai forzatamente e a malincuore tutta la vita che stavo vivendo (lavoro, qualche amicizia, uscite del sabato sera, …) perché non c’era spazio per entrambi i cammini. Con fede mi ripromisi di riprendere da dove avevo lasciato, una volta “guarita”…  

Dopo qualche lasso di tempo, un giorno

ho incontrato e lentamente fatto amicizia con la mia psiche; con lei ho attraversato l’inconscio, e ho trovato tutto il perché.

ll viaggio è stato lungo e tortuoso; dopo qualche lustro, passo per passo, il dolore andava via via scemando e per la prima volta mi sono sentita meglio. L’unica via è stata la forza interiore e la pazienza di sopportare, con la speranza che con impegno e aiuto, arrivasse la salvezza. Sono comunque trascorsi una ventina d’anni in balia di un viaggio immenso all’interno di me stessa. Una vera e propria sospensione della vita. Sono maturata sulla visione del mondo. La terapia mi ha liberata dal peso del silenzio. Ero orgogliosa quando scrissi questa poesia: 

 

Viaggio a retroso e ritorno (alla vita)

La mia ferita sanguinava a più non posso,

tutto il male stava uscendo,
tonalità di rosso mai viste prima. 

Ferma, ignara di quando poteva finire,
un lavoro immenso,
episodi inimmaginabili, tormenti… 

Lontano il tempo,
eppure incollato. 

Ora frammenti qua e là,
da non sottovalutare…
elaborare, lasciar andare. 

Pronta per rimarginare,
in contemporanea guardare
di nuovo il mondo…
come è cambiato! 

Ci vuole uno studio solo per capire
dove sono arrivata. 

Ora spazio c’è
dove prima era colmo di male. 

 

(È possibile riprendere la vita, dopo decenni, da dove si era lasciata prima della cura? Non lo so ancora…)

Visto con l’esperienza di oggi, per arrivare ad una conclusione efficace, è essenziale non abbandonarsi a qualche forma di escapismo, anche se sembra più semplice e poco impegnativo. È un’utopia! È l’errore che fa perdere solo tempo in mezzo al moltiplicarsi della stessa sofferenza, senza progredire se non di età. Per esempio la droga non è mai stata un’opzione perché agisce dall’esterno e sconvolge invece di concretizzare.  

Purtroppo, non esiste una via breve. Ma superato il cammino, poi è tutto migliore, ordinato. È impossibile schiacciare e far finta che “anni di vita” di una persona non siano mai esisti. Non si farebbe altro che trasformare esponenzialmente l’episodio iniziale in altre forme ancora più dolorose, senza più poter risalire esattamente al problema scatenante. Si arriverebbe ad un punto dove la malattia diventa cronica e irreversibile. 

Quindi, è importante non abbandonare la retta via e non fermarsi ad ascoltare malignità di persone che non capiscono, giudicano o peggio che danno per spacciata la situazione e dicono che è inutile continuare a lottare.

La verità sta nel sorvolare l’ignoranza:

sia esterna che interna a noi. È fondamentale imparare, conoscere e capire per vivere nella realtà.  

Ho superato tante prove ma quella che mi risulta ancora in parte ostile e definitivamente insormontabile è reggere allo stigma della società, ancora troppo presente.

Ho urgenza di esprimere sinceramente, chi sono, come mi sento, cosa faccio e cosa ho fatto. Mi fa male reprimere. Non ho quasi mai la forza di resistere agli sguardi, alle frasi, agli atteggiamenti malevoli quando dico di me; perdo entusiasmo. Serve tanta forza per spiegare.  

Raccontare di sé è un bisogno e anche un diritto, ma poi è giusto doversi aspettare comprensione? Oppure si deve subire il peso del giudizio? Oppure è meglio non parlare per non rischiare il pregiudizio? Raccontare vuol dire confrontarsi, non serve a nulla parlare al vuoto o peggio, rivolgersi a chi non compatisce.

Non trovo una risposta! Non ancora… 

È un problema reale e attuale. Da ogni angolatura in cui lo guardo, mi rendo conto che è una complicazione diffusa, che riguarda numerose persone vulnerabili che ormai si sono rassegnate: ma questo non va affatto bene. La sofferenza viene percepita in modo eterno se non si fa nulla e una volta che si trascorre troppo tempo nella rassegnazione, non si sa più bene dove si è posizionati e come capovolgere la situazione.

Quindi la vera speranza è rafforzare le persone vulnerabili, piuttosto che agire solo sugli atteggiamenti della società.

È innegabile che ogni essere umano, indipendentemente dalla sua storia personale, ha bisogno di socializzare, includere ogni pensiero nei pensieri altrui. 

Il vantaggio e allo stesso tempo lo svantaggio, spesso, è che un disagio, interno al nostro corpo, non ha quasi mai una manifestazione esteriore agli occhi che si approcciano superficialmente. Ecco perché è necessario approfondire la conoscenza nel tempo, per far sì che questo possa spiccare e distinguersi. Occorre trattare bene le persone perché non si sa mai cosa c’è dietro all’apparenza. La persona è come un quadro, va approfondito il significato di ciò che si vede. 

Chi deve fare il primo passo? La società o il disagiato? O bisogna accettare la casualità degli incontri? Un altro forte dilemma.

Sono profondamente convinta che non ci sarà mai una vera risposta, se non potere aumentare la sensibilità al problema. Dico questo perché so di quanto sforzo e anche fortuna nell’incontrare chi ti include, ascolta e incoraggia, siano necessari per attraversare “il buio” e di come sia difficile dare un nome a tutto quanto. Quindi capisco che è quasi impossibile da capire dall’esterno, ma almeno bisogna far entrare l’idea che si tratta di cose importanti, vere, serie, vissute e improntate, delicate.  

Ciò che deve restare alla società è un “titolo” che all’occorrenza può essere approfondito. È consolante sapere che c’è un movimento che sta riprendendo in considerazione veramente lo sviluppo dell’inclusione precoce di tutte le persone: ne beneficia l’armonia, l’accettazione e l’evoluzione positiva della società; una normalità che è utile assimilare da piccoli. L’aver frequentato un Istituto (diurno) di suore nell’infanzia, mi ha permesso di attorniarmi senza problemi di gente diversa e quindi di appurare tale tesi come concreta. Sentire e immaginare buoni propositi per il futuro è rassicurante e

mi auguro vivamente di poter contare sulla compassione reciproca delle persone per poter sfuggire alla sofferenza globale.

La ricchezza vera è la pace. 

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