Giornalismo e divulgazione non sono la stessa cosa
Intervista ad Angelica Giambelluca, giornalista e divulgatrice medico-scientifica
Angelica Giambelluca è una giornalista e divulgatrice medico-scientifica. I suoi lavori sono un perfetto mix di rigore nella ricerca e analisi delle fonti e narrazione, caratteristiche rare in chi scrive di sanità al giorno d’oggi.
Nell’intervista che segue, per la quale devo ringraziare l’amico e compagno di studi alla London School of Health and Tropical Medicine, Alessandro Gallo (General Manager e Sales Director di Springer Italia) che, conoscendo di persona Giambelluca, mi ha facilmente permesso di contattarla, scopriremo come lavora una giornalista e divulgatrice medico-scientifica, che differenza c’è tra queste due professioni (eh già, non sono la stessa cosa!) e le novità alle quali sono andate e stanno andando incontro negli ultimi anni.
25 Settembre 2023 – Intervista, Comunicazione, RicercaTempo di lettura: 25 minuti
25 Settembre 2023
Intervista, Comunicazione, Ricerca
Tempo di lettura: 25 minuti
In lei è nato prima l’amore per la scrittura o per la scienza?
L’amore per il giornalismo è sbocciato all’università. Avevo ventidue-ventitré anni ed era il lontanissimo 2004. Ho iniziato come giornalista di cronaca locale; io sono di Genova e i miei primi passi li ho mossi scrivendo cronaca della mia città. È stata una gavetta straordinaria quella fatta al Secolo XIX (il quotidiano più importante di Genova, n.d.r.), all’ANSA e a Il Sole 24 Ore. Nel frattempo, mi sono laureata in Scienze internazionali e diplomatiche, continuando però a portare avanti queste collaborazioni. Quindi, la mia primissima passione è la scrittura, unita al fatto che sono sempre stata una persona molto, molto curiosa… e anche volubile. Per queste ragioni e per il fatto che il lavoro di giornalista è un lavoro precario, a meno che non si sia assunti nelle redazioni – ma si assumeva pochissimo in quegli anni e oggi ancora meno – mi sono presa un anno e mezzo sabbatico e nel 2009 sono andata in Australia per capire un po’ cosa volessi fare nella vita. Quando poi son tornata, ho cambiato lavoro: mi sono messa a fare comunicazione e marketing per le aziende. In Australia ho studiato marketing e rientrata in Italia ho lavorato in questo settore per due cliniche Milanesi e un’importante azienda di analisi e gestione dati in ambito sanitario. Ciò, mi ha permesso di entrare nel mondo scientifico medico, ma, appunto, non dalla porta del giornalismo ma da quella della comunicazione e del marketing.
A febbraio del 2020, sentendo che comunque, in me, il desiderio di scrivere, di far giornalismo, non si era mai del tutto sopito, poco prima che l’ex premier Conte dichiarasse il lockdown, ho dato le dimissioni e mi sono detta: «Io provo a fare la giornalista freelance!». Avevo ancora delle collaborazioni in questo ambito… ma, chiaramente, mai avrei pensato, come tutti, che sarebbe successo quello che è successo.
Arriviamo quindi agli ultimi tre anni. Come immagina, grazie anche al fatto che la pandemia ha messo in evidenza il bisogno di saper raccontare la scienza e la medicina in modo etico e corretto e volendo occuparmi io, proprio di questo, la mia scelta, forse all’inizio un po’ pazza, si è rivelata, la scelta vincente.
Quando ha iniziato a definirsi «giornalista medico-scientifica»?
Non amo molto le definizioni. Mi piace dire che mi occupo di medicina e che provo a raccontarla nel modo più rigoroso possibile. Ho cominciato a farlo con la pandemia quando mi sono resa conto che eravamo in pochi a occuparcene. Lo ha notato anche lei? Oggi ci sono tanti giornalisti scientifici che raccontano di clima, di scienze dure, fisica, chimica… sono molto esperti di queste materie. Queste figure si occupano certamente anche di medicina. Tuttavia, giornalisti esperti di sola medicina, che si concentrano solo sulla medicina, non ce ne sono tanti.
Esiste una differenza tra giornalismo e divulgazione medico scientifica?
Sì, certamente!
Giornalismo e divulgazione medico-scientifica, nella mia esperienza, sono due cose diverse.
Un giornalista che si occupa di medicina non può non possedere competenze di divulgazione, ma un divulgatore scientifico non deve per forza essere un giornalista.
Vediamo se riesco a spiegarmi. Partiamo dal giornalismo. Probabilmente è colpa di noi giornalisti se non siamo stati in grado di spiegare alla gente che cos’è. Il giornalismo è capire la notizia! Non parlare di scienza per divulgare, per spiegare perché una lampadina si accende quando si schiaccia l’interruttore, ma vedere cosa c’è di nuovo, di interessante o di inesplorato in un certo settore, in un certo contesto, saper fare le domande giuste agli interlocutori… ma soprattutto è mettere insieme le varie opinioni, i vari pezzi che compongono il puzzle, quelli che aiutano a raccontare un fenomeno.
Invece, la divulgazione medico scientifica, in particolare quella istituzionale, si rifà alle fonti classiche – magari soltanto a una fonte. Per esempio, il medico che parla o scrive il suo editoriale, fornendo la sua linea di pensiero, non sempre in maniera oggettiva. Sta facendo divulgazione, ma nessuno lo obbliga a consultare più fonti e ad essere oggettivo.
Facciamo un esempio pratico, prendiamo l’uso degli antibiotici nei bambini. Se leggete articoli scritti da singoli pediatri, ognuno di loro scriverà probabilmente qualcosa di diverso su come e quando somministrarli in caso di febbre (io ho cambiato due pediatri per i miei figli, entrambi con approcci diametralmente opposti nell’uso degli antimicrobici).
Un giornalista non può riportare la voce di tutti i pediatri, ma guarderà ad esempio cosa dicono le maggiori società scientifiche sul tema e farà un sunto delle varie posizioni, aiutando il lettore, per quanto possibile, a capire la scelta giusta da fare. Questo perché il giornalismo deve essere oggettivo! Angelica Giambelluca negli articoli che scrive deve comparire come autrice, ma non la si deve «sentire dentro» l’articolo. Io non scrivo quello che penso, non scrivo cos’è il virus, come funziona SARS-CoV-2 o quando secondo me i bambini dovrebbero assumere antibiotici. Io intervisto Tizio, Caio o Sempronio per capire come funziona il virus o il battere e lo racconto. Non solo, mi informo tramite articoli scientifici e lo racconto. Ma, attenzione:
il giornalismo scientifico non è una semplice divulgazione basata sulla letteratura scientifica. Il giornalismo scientifico è un approccio critico alla notizia.
Quando preparo un pezzo mi chiedo: «è davvero così? La persona che sto intervistando me la racconta giusta? Cosa c’è dietro?». Il giornalista ti racconta tutto e va pure a capire perché Tizio non la sta raccontando giusta. La divulgazione scientifica, invece, si limita a dirti: «Le cellule CAR-T funzionano in questo modo» senza farsi ulteriori domande. Il giornalista è quello che le domande se le deve fare e le deve fare. È un approccio, è uno spirito critico quello del giornalismo, a differenza della divulgazione che deve essere qualcosa di asciutto, diretto, senza tanti fronzoli. Quando parli di divulgazione scientifica io penso ai paper, agli articoli scientifici… I paper sono un esempio di ottima divulgazione scientifica. La divulgazione deve poi trasformare quel paper in un linguaggio un po’ più semplice, ma le informazioni che contiene non si allontanano da quel paper. Un divulgatore, rispetto a un giornalista, non deve rispettare la deontologia professionale, non deve per forza dichiarare le fonti che utilizza, non deve essere oggettivo; nessuno gli chiede di essere oggettivo. Le faccio un altro esempio: io leggo spesso Enrico Bucci sul Foglio. Bucci è un ottimo professionista, mi ritrovo con lui nella maggior parte delle cose che scrive, ma nei suoi pezzi, quando smonta tesi o spiega cose, c’è lui. La sua è divulgazione, non giornalismo. Il giornalismo è quando l’autore non si vede, quando emergono altre voci, altre fonti.
Non le capita mai di inserire la sua soggettività negli articoli che pubblica?
Il fatto di essere giornalisti oggettivi non vuol dire non far sentire la propria voce o non fare emergere nell’articolo le domande che tu giornalista hai fatto, o ti sei posto, per arrivare a quelle conclusioni.
A me capita di fare, magari durante la stessa trattazione, un po’ di sintesi: «il tal professore ha detto così, tutte le altre persone invece hanno detto una cosa diversa, probabilmente questo aspetto va chiarito, ci sono troppi pareri contrastanti etc.». Il mio non è un giudizio di merito sul tal professore, su quello che è stato detto da lui o da altre persone. Il mio è un modo per accompagnare il lettore in questo approccio critico di cui le parlavo poc’anzi. «Facciamo un po’ di sintesi, cosa abbiamo capito da questa cosa, cosa c’è che non va, quali sono le risposte che non ho ricevuto e che invece avrei voluto ricevere». Il giornalismo fatto in questa maniera è anche un modo per aiutare il pensiero critico del lettore. Io, il mio giudizio, lo devo tenere per me. Tuttavia, mi posso permettere di fare una sintesi, la mia sintesi, delle varie posizioni coinvolte o, comunque, di fare emergere che alcune domande non hanno trovato risposta.
Se poi mi chiede che cosa ne penso dello stile storytelling del giornalismo anglosassone… vede, il giornalismo anglosassone non inizia mai con gli incipit come da noi. La notizia, il fatto narrato, inizia sempre con la storia personale di qualcuno. Sono articoli molto belli, molto coinvolgenti, molto accattivanti, mi piace molto leggerli. È una cosa che, onestamente, non ho mai provato a fare, ma mi piacerebbe provare. Non so però quanto il nostro pubblico, il pubblico italiano, potrebbe apprezzare un giornalismo di questo tipo. Io, quando leggo questo tipo di articoli, me li godo molto, però son sempre dei longform: la notizia la si trova a metà, alla fine… è un po’ come quando si leggono i romanzi, c’è dell’altro, son pieni di altro.
Le confesso una cosa: a me manca molto il giornalismo d’inchiesta, che fine ha fatto?
Ha ragione, soprattutto da noi,
adesso son tutti articoli molto veloci, molto corti. Io le poche volte che ho provato a fare inchieste mi son sentita dire: «Sta roba è troppo lunga, la gente non ha voglia di riflettere, non ha tempo».
Come lavora, nel concreto, una giornalista medico-scientifica?
Allora, dipende un po’. Dipende dagli obiettivi che ci si pone. Può essere che legga una notizia e voglia approfondire: mi vado a vedere quelle che sono le pubblicazioni scientifiche su quell’argomento, cerco su PubMed, o anche sugli stessi siti delle riviste scientifiche più autorevoli, tipo Lancet, Nature – le principali riviste scientifiche sono sicuramente delle fonti sempre interessanti. Cerco anche tra le fonti istituzionali, governative… ecco, non vado a vedere siti giornalistici di bassa qualità – ce ne sono tantissimi e molti, tra l’altro, son venuti fuori con la pandemia. Ecco, per esempio, gli articoli giornalistici che vengono pubblicati su siti, anche autorevoli, non possono essere invece presi come fonte. Possono essere presi come spunto per andare ad approfondire, ma poi bisogna sempre cercare lo studio che citano, andarselo a leggere. Io non mi fido mai di quello che trovo su Internet, anche se lo pubblica il Corriere della Sera o Repubblica. Anche su queste testate spesso i giornalisti non citano la fonte; scrivono: «Secondo uno studio pubblicato su Nature dai ricercatori di Harvard…» e io, quello che faccio in questi casi è fermarmi, cercare lo studio menzionato e vedere effettivamente che cosa quello studio dice. La capacità di un bravo giornalista medico-scientifico è quella di leggere, prima di tutto, gli articoli scientifici, perché sono una delle fonti principali e capire se ciò che sta leggendo sia o meno di qualità, capire quali sono gli end point, qual è l’obiettivo che si sono posti i ricercatori e quello che poi hanno raggiunto, come lo hanno comunicato, i limiti… le pubblicazioni scientifiche sono un po’ il pane quotidiano per chi fa il mio mestiere. Un altro tema importante è: quando deve intervistare un professionista, un medico, uno scienziato o un ricercatore, essendo l’intervistatore e l’intervistato su livelli di competenze diverse – se dovessi intervistare lei sul suo lavoro io non avrei la sua competenza, non sono un medico – l’abilità del giornalista deve essere quella di saper leggere tra le righe, di capire che cosa ci sta raccontando quella persona e non fidarsi solo di quello che dice, di quello che mi racconta riguardo al suo studio straordinario che ha salvato le vite a venti malati… io non mi accontento: «mi fa vedere lo studio? Dove l’ha pubblicato? Mi fa vedere questi dati?».
Il lavoro del giornalista è difficile, perché anche chi fa… ecco, si parlava prima di inchieste, chi fa inchieste politiche, chi fa inchieste giudiziarie, non può saperne più del giudice, del magistrato, degli avvocati. Tuttavia, deve essere in grado di capire e verificare quello che queste figure dicono.
Quant’è, all’incirca, diciamo percentualmente, il lavoro di raccolta delle fonti, di analisi dell’argomento, rispetto al lavoro di vera e propria scrittura di un pezzo?
Ottanta per cento, circa. Il lavoro preparatorio, di ricerca, per un articolo può richiedere anche una settimana, in particolare se parliamo di articoli di approfondimento. Io sono una che guarda la fonte, che va a vedere la bibliografia e dice: «Aspetta, però c’è anche ‘sta roba qua, fammi vedere…». È un processo lungo. Di contro, il lavoro di scrittura, che poi, onestamente, non è neanche quello più divertente, in sé dura molto meno.
Quindi lei è una di quelle che scrive velocemente?
Sì, scrivo abbastanza velocemente e scrivo tanto. Ho un po’ il vizio di dire: «Vabbè Angelica, mettila ‘sta cosa, perché è importante». Se dipendesse solo da me, probabilmente scriverei di più. Invece, spesso devo rispettare le solite «cinquemila-ottomila battute».
Quella della scrittura di un articolo è una tematica che mi interessa. Ho aperto un sito che si chiama MEDORA Magazine che è dedicato proprio al come fare giornalismo e divulgazione medico scientifica, al come si scrive un articolo scientifico, al come impostare i contenuti… ho fatto anche parecchi corsi dedicati agli aspetti, se vogliamo, più tecnici della scrittura. Li sto portando avanti con il nostro amico comune, Alessandro Gallo.
Dall’inizio di quest’anno lei è direttrice responsabile di una testata che si chiama INNLIFES, di cosa si tratta?
Sono stata contattata lo scorso febbraio da Paola Lanati, un’imprenditrice che lavora nel settore Life Science e che, a un certo punto, ha deciso di vendere le sue aziende e dar vita a questo progetto editoriale, perché, a suo modo di vedere, l’ecosistema delle scienze della vita in Italia è costellato di attori molto importanti e capaci, ma che purtroppo non comunicano fra di loro. Tuttavia, per far evolvere questo ecosistema e per rendere l’Italia competitiva nel settore delle scienze della vita è invece assolutamente necessario che questi attori si parlino, si confrontino, conoscano uno la realtà dell’altro. Lanati mi ha quindi proposto questa avventura: raccontare tutti, dare voce a tutti questi professionisti e raccontare il mondo della ricerca, dell’industria farmaceutica, delle istituzioni, la politica dei decisori, gli investimenti – dalla piccola start up al grande investitore. L’obiettivo di INNLIFES è quello di raccontare ogni giorno un pezzetto di questo ecosistema, sia in Italia, sia andando a vedere cosa fanno all’estero, per prenderlo come esempio positivo ma anche per dire: «noi lo facciamo meglio».
INNLIFES è per me una sfida molto complessa! Vede, un conto è essere la giornalista freelance, con i suoi articoli che manda alle varie testate, rispettare le scadenze mensili… un altro è gestire un team di persone, fare dei piani editoriali, visionare i contenuti e avere una responsabilità di tutto quello che esce – la direttrice responsabile è La responsabile.
Da una parte hai a che fare con i tuoi collaboratori che ti fanno proposte, vogliono scrivere, sono molto entusiasti, dall’altra hai l’editore che giustamente vuole portare, per quanto possibile, quella che è la sua visione. Io sono in mezzo a due fuochi, devo far capire all’editore l’importanza di garantire la mia indipendenza e quella delle persone con cui lavoro, ma devo anche frenare i miei collaboratori che vorrebbero fare duecentocinquantamila cose diverse e indirizzarli verso quella che è la visione della testata. Insomma, s’immagini, alla fine io prendo «botte» metaforiche sia dagli uni che dagli altri.
Riesce ancora a scrivere qualcosa?
Sì, qualcosa sì; purtroppo, però, molto meno di prima. Mi rendo conto che il mio lavoro di controllo, di strategia e di pianificazione come direttrice di INNLIFES richiede un buon ottanta-novanta per cento del mio tempo. Per questo motivo, è normale, il tempo per l’Angelica giornalista sta un po’ calando. E questo non va affatto bene! Perché per fare questo lavoro lo devi fare, per fare giornalismo devi starci dentro, praticarlo tutti i giorni; è complesso, ci vuole tanto, mi passi il termine, «allenamento» per trovare le fonti, intervistare le persone… ed è una cosa che voglio continuare a praticare.
Quali sono gli argomenti medico-scientifici che, al momento, le sembrano più importanti?
Adesso con INNLIFES siamo concentrati sulla capacità di innovare dell’Italia. Stiamo cercando di capire cosa c’è che non va: ci sono delle start-up fantastiche, che portano avanti idee e progetti meravigliosi e poi vengono comprate all’estero; le università non riescono a portare le idee dal laboratorio ai pazienti o a commercializzarle. Cerchiamo di capire a livello di politiche sanitarie dove vuole andare il paese e che strategia ha per rendere migliore il sistema sanitario, capire se il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, approvato nel 2021 in Italia per rilanciarne l’economia dopo la pandemia, n.d.r.) sta davvero aiutando o se invece si rivelerà un boomerang, capire gli strumenti della sanità digitale, i pregi e difetti dell’intelligenza artificiale nel nostro settore, come va utilizzata e come il medico si pone rispetto a tutto questo. Ecco, direi che questi sono un po’ i temi… ah e poi aggiungo anche quello della lotta alla disinformazione, riagganciandomi a quanto detto in precedenza. Disinformazione ce n’è davvero tanta, l’abbiamo esperito con la pandemia e secondo me andrebbe affrontata più seriamente; io credo fortemente che per contrastarla sia necessario lavorare sulla cultura. In particolare, la cultura scolastica, fin da bambini: insegnare quell’approccio critico di cui si parlava prima. I lettori, in primis, dovrebbero farsi delle domande quando leggono. Purtroppo, oggi ci si «beve» qualsiasi cosa… Facebook è diventata una fonte di notizie, in particolare dai cinquant’anni in su. Ci si informa – fa ridere dirlo – su Facebook. Questo significa che entrambe le nostre categorie, quella dei giornalisti e quella dei medici hanno fallito.
Oggi, essere capaci di comunicare, di raccontare quello di cui si è competenti è fondamentale. I medici all’università dovrebbero imparare anche come si comunica!
Come immagina – sorrido anche io – mi trova molto d’accordo. Non è più accettabile oggigiorno che un medico non sia in grado di comunicare.
La comunicazione è cura, il tempo dedicato alla comunicazione è tempo di cura.
Avevo intervistato, durante la pandemia, un cardiologo, adesso in pensione, che a un certo punto ha preso un banchetto e tutti i sabati mattina si metteva nella piazza del paese. Inizialmente lo ha fatto per assistere le persone che non erano in grado di farlo, nel prenotare il vaccino. Mi disse che quelli che andavano da lui erano tutti o quasi tutti scettici… ancor prima di prenotare il vaccino, volevano farsi spiegare, volevano capire se quella fosse la cosa giusta da fare. Lui è stato uno di quelli che si è reso conto che la classe medica ha anche la responsabilità di ascoltare e informare.
Qual è, invece, il suo rapporto nei confronti delle scienze umane?
Io ho fatto studi umanistici e con la scienza ho un rapporto un po’ particolare: cerco sempre di vederla, di leggerla e di interpretarla anche con un approccio «umanistico». Non è un caso che la medicina mi piaccia molto! La medicina ha lo scopo di curare la persona nel suo insieme, nella sua interezza; per fare questo, non puoi che avere anche delle competenze umanistiche, che possono essere la comunicazione, l’ascolto, l’empatia… tutte cose che, come abbiamo detto, sono al giorno d’oggi carenti e alle quali non si dà la giusta importanza.
Io ho lanciato un sito che si chiama PERSONE Magazine, in cui racconto le storie di caregiver, di pazienti, di medici, la loro quotidianità, il loro lavoro, gli ostacoli che affrontano. Al di là della malattia… come loro vivono la malattia. Con questo approccio emergono storie interessanti, storie che parlano di malattia a trecentosessanta gradi, di aspetti della malattia non tenuti in considerazione dall’attuale modo di fare medicina, che invece è molto più concentrato sulla specifica patologia – la disease in inglese – sulle caratteristiche più biologiche.
Mi sono avvicinata, recentemente, anche alla medicina narrativa. Ho fatto un master che richiedeva una tesi finale, nel quale mi sono concentrata sulle narrazioni dei sibling, dei fratelli e delle sorelle di persone con disabilità, autismo nel caso specifico. Sono andata a incontrare e intervistare sia fratelli e sorelle adulti di persone autistiche, sia fratellini e sorelline (che spesso più che con le parole, mi rispondevano con i disegni).
A proposito di narrazioni, le ho parlato di uno dei progetti della Fondazione Sasso Corbaro, la nostra rivista cartacea, il semestrale Quaderni delle Medical Humanities. Il secondo numero, che uscirà il prossimo dicembre, sarà dedicato al Segreto. A tal riguardo lei mi ha parlato di epilessia.
Io mi occupo della comunicazione della Federazione Italiana Epilessia, li aiuto come consulente. Una persona affetta da epilessia ha una qualità di vita, soprattutto se la malattia è farmaco-resistente, molto bassa. Le crisi epilettiche non sono prevedibili. In alcuni tipi di epilessie ci sono dei segnali che possono aiutare a capire che la crisi sta per arrivare, ma ciò in molti casi non succede. Tutto questo ha delle implicazioni sociali molto molto importanti e, quello che è emerso dalle testimonianze dei malati quando si parlava di lavoro è che, ai colloqui di assunzione, molti non dicono di essere epilettici.
Ecco il segreto! Tenersi per sé una malattia per la paura dello stigma, per la paura della reazione da parte degli altri.
Che poi, alle volte, la paura è solo figlia della non conoscenza: io non so come gestire la situazione se ti senti male, ho paura e di conseguenza, non ti assumo. È molto limitante e costringe il malato a non dire di esserlo, a tenerselo per sé, sperando di non avere delle crisi o comunque di riuscire a gestirle per non perdere il lavoro e per non perdere delle amicizie.
Vorrei chiudere chiedendole qualche consiglio da esperta per i nostri lettori: quali sono i prodotti che suggerisce di consultare per evitare fake news e sensazionalismi, ma, di contro, poter comunque essere informati e leggere di medicina senza dover ricorrere ai paper scientifici?
Guardi, le sembrerà un po’ strano ma io le direi che, ad esempio, anche su Netflix si trovano dei documentari molto belli, ottimamente realizzati e rigorosi nelle fonti, che affrontano temi di salute, di medicina. Le posso citare, tra gli ultimi che ho visto e che ho trovato validissimi, Painkiller, sulla crisi degli oppioidi negli USA (argomento che so che interessa molto anche a lei!), Diagnosis sulle malattie rare, oppure Rotten, su ciò che arriva sulle nostre tavole.
Devo dire la verità, i giornali italiani che ho come riferimento nell’ambito della medicina sono pochissimi, c’è Medici Oggi di Springer, che sicuramente è notevole ma si rivolge prevalentemente ai medici, c’è il Post che fa un buon lavoro in questo ambito e ha dei giornalisti molto preparati… io, guardo parecchio alle sezioni dedicate alle notizie di sanità di testate estere come l’inglese The Guardian, o l’americano New York Times.
Non vorrei, però, fare una lista, anche perché sta un po’ al gusto e alla sensibilità individuale scegliersi cosa leggere e cosa guardare. Ecco, sì, forse l’unico vero consiglio che mi sento di dare, in chiusura è: guardate anche all’estero. Anche se non si conosce perfettamente l’inglese, le pagine al giorno d’oggi si possono tradurre benino con gli strumenti che offre la rete. Ritengo che questo sforzo di uscire da casa nostra, valga sempre la pena!
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2 risposte a “Giornalismo e divulgazione non sono la stessa cosa”
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