«Grace» 

Prisca Agustoni, premio svizzero di Letteratura nel 2023, parla di Roger Robinson

Ho conosciuto la poeta, scrittrice e professoressa Prisca Agustoni circa due anni fa. Insieme collaboriamo, con altri amici e amiche, all’organizzazione di ChiassoLetteraria, un festival di letteratura internazionale che si tiene ogni anno, in primavera, a Chiasso. Nell’ultima edizione abbiamo invitato un autore inglese che io non conoscevo, le cui poesie mi hanno folgorato. Ho quindi pensato che nessuno meglio di Prisca potesse aiutare me e voi lettori dei Sentieri, a entrare nell’universo artistico di Roger Robinson. E così, da questa mia folgorazione, nasce la conversazione che potrete leggere di seguito. Ringrazio Prisca e tutto il gruppo di ChiassoLetteraria, perché è anche grazie a loro se il mio amore per la letteratura si alimenta continuamente di nuove passioni.  

Roger Robinson a Chiasso, Maggio 2023 – Foto di Michela Di Savino per ChiassoLetteraria

Chi è Roger Robinson e perché l’hai voluto invitare quest’anno, in Canton Ticino, a ChiassoLetteraria?   

A onor del vero, io e Fabio Zucchella (traduttore e giornalista letterario che collabora con ChiassoLetteraria, n.d.a.), avevamo già proposto due anni fa il poeta, musicista e performer inglese Roger Robinson, subito dopo l’uscita della sua raccolta A Portable Paradise, vincitrice nel 2019 del T. S. Eliot, uno dei più prestigiosi premi letterari di poesia al mondo. Poi, per varie ragioni, non riuscimmo ad averlo con noi per quell’edizione. Onestamente, non ricordo come sono arrivata a questo libro. Eravamo in piena pandemia e credo di essermici imbattuta casualmente, forse sui social. Mi ha subito colpita il titolo – lo trovo molto bello – e le tematiche che tratta. A me interessano molto, in termini accademici e teorici, la diaspora nera e le teorie post-coloniali. Mi occupo da anni, anche professionalmente, di scrittori e scrittrici che lavorano su questi argomenti. Anche a ChiassoLetteraria, festival che con te e altri contribuiamo ad organizzare, cerco sempre di proporre autori e autrici che provengono da questa ricca realtà culturale. È stato il caso degli scrittori africani Mabanckou, Bofane, l’angolana-portoghese Djaimilia Pereira de Almeida, o l’haitiano Dany Laferrière, lo svizzero-camerunese Max Lobe, l’afrobrasiliano Itamar Vieira Junior e quest’anno, l’italo-somala Igiaba Scego.  

Solo successivamente ho scoperto che Robinson è anche un grande musicista e performer. Viene dalla musica, dalla musica, per così dire, meticcia – non solo culturalmente meticcia, ma anche a livello di strumenti. Un meticciato sonoro nel quale sono presenti i ritmi caraibici e la musica elettronica, che va dal tradizionale al post-moderno. Sonorità che “dialogano” con le varie comunità, col “melting-pot” britannico e internazionale.  

Proprio questo suo legame con la musica e con l’arte performativa, lo si ritrova anche nelle sue poesie. C’è, in esse, una forte presenza dell’oralità. Ma non è un’oralità mitica, legata a un’origine etnica, o non solo, bensì un’oralità più vicina a una realtà multiculturale come quella inglese, o meglio, londinese. Questo mi ha molto colpita nei suoi testi, anche perché, se ci pensiamo, la poesia britannica ha una grande tradizione di autori caraibici e, al contempo, una ricca tradizione musicale. Tuttavia, quella più conosciuta e più tradotta in italiano, è la poesia inglese classica. Anche per questo mi interessava portare la sua voce, una voce in dialogo con la diaspora. Inoltre, tra gli artisti, è uno dei più attivi sui social e questo lo avvicina alla figura del poeta-mentore, del poeta che parla e si apre alla comunità, ai giovani. Promuove la scrittura, stimola i suoi lettori a dedicarsi alla scrittura, decostruisce quell’idea che lo scrivere sia qualcosa di elitario, per pochi. È un artista che si è formato culturalmente all’interno di gruppi e collettivi poetici e performatici; quindi, va da sé che promuove questo tipo di collaborazione. È stato questo insieme di fattori che mi hanno incuriosita e, pensando a ChiassoLetteraria – un festival che cerca da sempre il dialogo con i giovani – ho ritenuto che Robinson potesse essere un nome interessante per andare in questa direzione.

È una figura poliedrica e accessibile, non è uno che ti arriva con le teorie pronte e pur avendo una sua visione molto chiara della storia post-coloniale, è aperto al dialogo.

E poi il nostro festival – dovrebbero averlo tutti i festival! – ha anche un ruolo esplorativo, di ricerca: portiamo chiaramente nomi noti ma sono i nomi meno noti, più underground, un po’ di nicchia, quelli che cerchiamo di promuovere maggiormente. Ecco, Roger Robinson mi sembrava potesse rappresentare bene questa nicchia in dialogo con i giovani e con la comunità. 

Lui stesso ha dichiarato, a Chiasso, di essere uno scopritore di giovani talenti.  

Lavora assieme a questi collettivi di artisti performativi dove trova autori e autrici che poi cerca di promuovere. Non è l’unico, è un’attività che ritrovo in tanti artisti che provengono da questa realtà diasporica. Hanno tutti uno sguardo molto attento alla comunità e all’idea di un collettivo. 

Mi ha affascinato molto la sua fisicità.  

Anche a me. La poesia performativa lavora chiaramente anche sul/con il corpo e sulla consapevolezza del corpo. E poi lui ha questa voce… il timbro, il ritmo… pazzesca! La sua non è una poesia da leggere in silenzio, è una poesia che devi ascoltare, è così che le sue parole guadagnano una dimensione altra. In realtà, tutta la poesia è nata così, lo sappiamo. Poi, nel corso del tempo, abbiamo un po’ perso questa dimensione recitativa, corale, performativa. Gli autori della diaspora nera invece recuperano fortemente questa tradizione. C’è chi lo fa in modo più teatrale; Roger Robinson mi pare non abbia bisogno di questa dimensione attoriale. Persino da fermo, dietro al leggio o seduto al tavolo mentre legge ad alta voce i suoi testi, ha un’aura iconica, quasi mistica. Merito del suo corpo, della sua voce e del vissuto che lo attraversa, delle diverse culture.  

Anche all’interno delle sue poesie c’è tanto corpo, ci sono tante immagini legate al corpo: al corpo sofferente, al corpo morto, ai dettagli anatomici.  

Credo proprio che lui ne sia cosciente. Lavora sulla presenza del corpo – nero, nel suo caso e periferico all’interno della società britannica. Ha consapevolezza del ruolo che lui e il suo corpo occupano all’interno della società, di come questo sia visibile o invisibile. Tra l’altro, è un tema che attraversa tanti altri autori afroamericani che ho letto e studiato.  

Quello del corpo è un tema che, in generale, non solo la poesia sta indagando, ma anche la letteratura in prosa, soprattutto tra gli scrittori e le scrittrici giovani. La stessa Fondazione Sasso Corbaro gli sta dedicando molto spazio.  

Le trasformazioni, le possibilità di divenire del corpo… c’è un’apertura in Roger Robinson verso tutte queste metamorfosi. La corporeità, la nostra consapevolezza, la percezione del corpo è qualcosa che muta. Pensiamo solo alla questione del corpo femminile e del corpo maschile, del cosa sono, del cosa vogliono dire i corpi e di argomenti quali la fertilità, la maternità e la paternità. 

Bisogna anche considerare che insieme a questo sguardo sul corpo c’è uno sguardo, ad esso complementare e sinergico, che è quello politico. Robinson è attentissimo alle questioni civili. In particolare, alle rivendicazioni civili della sua comunità, della comunità alla quale appartiene. Lui da poeta ha un ruolo potente all’interno di essa. Non è una sua invenzione ovviamente, anche questo è un ruolo antico della poesia: cosa facevano una volta i troubadour? Parlavano alla gente di questioni che interessavano alla comunità. Avevano questo ruolo di comunicatori, di condivisione, di partecipazione.  La poesia era messaggera, una messaggera che produce sì incantamento e fascinazione ma anche, più concretamente, foriera di messaggi anche concreti, pratici. Lo ritrovo con forza questo aspetto in Roger Robinson, nella sua poesia e nella sua presenza molto attiva sui social network. 

Un lettore e una lettrice che non hanno mai letto nulla di Roger Robinson, cosa devono aspettarsi quando aprono una sua raccolta di poesie? 

Direi l’accesso, in punta di piedi, a un universo che è quello del contesto in cui lui vive. Non in maniera partigiana però!

Quando leggi i suoi scritti ti senti accompagnato, invitato ad entrare pian piano. Non ti scaraventa nelle sue idee, ti ci conduce dalla periferia

– per restare in tema. La sua non è una poesia didascalica, non ti dice il mondo fa così, le cose stan così, è una poesia che ti invita, tramite la descrizione di una realtà, spesso dura, ma allo stesso tempo partecipativa, ad arrivarci un po’ da solo. A guardare la realtà con i tuoi occhi. Questo non è sempre così, la poesia è spesso molto lontana dalla realtà, molto astratta. Altre volte, invece, fin troppo engagée.  

…una poesia che rischia di diventare “manifesto”? 

Esatto! Ecco, lui non fa una poesia manifesto, fa una poesia lirica, per certi aspetti. Non è così evidente associare l’aspetto lirico all’aspetto civile senza cadere o scadere nel manifesto. Riesce, secondo me, quasi sempre, a equilibrare questi due poli, così potenti. 

Inoltre, la sua è una poesia spesso narrativa, discorsiva. 

Altre caratteristiche che si ritrovano spesso in Roger Robinson sono il ritmo e la musicalità del verso, del suo inglese. 

Ho avuto l’occasione di lavorare su alcune sue traduzioni in portoghese. Ci sono riferimenti abbastanza indiretti e poco visibili, alle comunità islamiche; su alcune parole ti ci devi davvero impegnare e se non vivi nei suoi luoghi, nelle sue periferie, nel suo contesto, è spesso complesso tradurle. Ci sono termini o riferimenti che vengono dal suo vissuto. Non ha una lingua difficile o ricercata, dal punto di vista letterario. La difficoltà, a volte, sta nel capire il background del suo quotidiano. Se non conosci l’evoluzione di certe espressioni della lingua parlata in quei luoghi, può diventare, anche per il traduttore, un po’ oscura. Tuttavia, questo è il pane quotidiano di chi traduce e io dico sempre che l’oscurità fa anche parte del fascino della poesia. Il fatto che sia un po’ criptica, misteriosa, non didascalica fa proprio parte della poesia. Ci sarà sempre una dimensione ermetica e ci sta che la comprensione non sia totale. Anzi, trovo sia necessaria in letteratura questa indecifrabilità, così come il mondo non è totalmente decifrabile o non lo è in modo uguale per ognuno. E poi, il non capire è anche ciò che spesso ti fa ritornare sui testi.  

Roger Robinson non è un poeta facile, nel senso che non è un poeta di cui leggi i testi e capisci tutto. È un poeta che ti lascia una sensazione d’inquietudine, perché la realtà che ritrae non la conosciamo nei dettagli, la dobbiamo percepire.  D’altro canto,

c’è un soffio lirico che ci fa sentire “a casa” tra i suoi versi.  

Sono rimasto molto colpito da una poesia che si trova in Un paradiso portatile, (Edizione italiana di A Portable Paradise, già menzionata sopra, n.d.a.) ultima raccolta di Roger Robinson tradotta in lingua italiana (Un paradiso portatile, Roger Robinson, Biblion edizioni, Milano, 2022). Il titolo è «Grace». La riporto qui, nelle due versioni, inglese e italiano. Parla di argomenti legati alla realtà sociosanitaria, vicini a ciò di cui ci occupiamo alla Fondazione Sasso Corbaro. 

 

GRACE   

That year we danced to green bleeps on screen.  
My son had come early, just the 1kg of him,  
all big head, bulging eyes and blue veins.  

On the ward I met Grace. A Jamaican senior nurse  
who sang pop songs on her shift, like they were hymns.  
“Your son feisty. Y’see him just ah pull off the breathing mask.”  

People spoke of her in half tones down these carbolic halls.  
Even the doctors gave way to her, when it comes  
to putting a line into my son’s nylon thread of a vein.  

She’d warn junior doctors with trembling hands: “Me only letting you try twice.”  
On her night shift she pulls my son’s incubator into her room,  
no matter the tangled confusion of wires and machine.  

When the consultant told my wife and I on morning rounds  
that he’s not sure my son will live, and if he lives he might never leave the hospital,  
she pulled us quickly aside: “Him have no right to say that—just raw so.”  

Another consultant tells the nurses to stop feeding a baby, who will soon die,  
and she commands her loyal nurses to feed him. “No baby must dead  
wid a hungry belly.” And she’d sit in the dark, rocking that well-fed baby,  

held to her bosom, slowly humming the melody of “Happy” by Pharrell.  
And I think, if by some chance, I’m not here and my son’s life should flicker,  
then Grace, she should be the one.  

 

GRACE  

Quell’anno ballammo a ritmo dei bip verdi sugli schermi.   
Mio figlio era arrivato presto, un chilo solo,   
tutto testa, occhi sporgenti e vene blu.  

In reparto trovai Grace. Un’esperta infermiera giamaicana  
che in turno cantava canzoni pop come fossero inni sacri.  
“Suo figlio ha grinta – lo guardi, si tira giù la maschera d’ossigeno”.  

Di lei, in questi corridoi carbolici, la gente parlava a mezza voce.  
Anche i dottori cedevano il passo, se si trattava  
di mettere un tubo nella vena filiforme di mio figlio.    

Avvertiva gli specializzandi dalle mani tremanti “Vi lascio provare solo due volte”.  
Nel turno di notte si tirava in guardiola l’incubatrice di mio figlio,  
incurante del groviglio confuso di macchina e cavi.  

Quando il dottore disse a me e a mia moglie durante il giro del mattino
che non credeva ce l’avrebbe fatta, e se anche fosse non avrebbe lasciato l’ospedale,   
lei subito ci prese da parte; “Non ha diritto di dirvi così – proprio no”.  

Un altro dottore diceva alle infermiere di non nutrire più un bimbo che sarebbe presto morto,   
e alle sue fedelissime lei invece intimava di nutrirlo. “Nessun bimbo deve morire  
a pancia vuota”. E sedeva nel buio, cullando quel bimbo ben nutrito,  

ben stretto al suo petto, canticchiando lentamente “Happy” di Pharrell.   
E io penso: se per un qualche caso io non ci fossi e la vita di mio figlio dovesse vacillare,   
allora Grace, dovrebbe esserci Grace.  

 

Posso chiederti di commentarla? 

Certo! Diciamo che rispetto all’intera raccolta, questa è una delle poesie più intimiste. Trae spunto da un vissuto apparentemente personale: la nascita prematura del figlio e le cure a lui prestate dall’ospedale dove era ricoverato e, in particolare, l’incontro con l’infermiera, protagonista della poesia, di nome Grace. Nella versione originale, c’è un attento lavoro di richiami fonetici, che rendono la lettura estremamente scandita e musicale, come si diceva prima. Basti notare la predominanza dei suoni “i” in tutta la prima strofa, in particolare nelle parti finali del verso: “green-bleep-screen-veins”; il tono vocalico della poesia si abbassa poi progressivamente: nella terza strofa, dove troviamo suoni più chiusi: “spoke-tones-halls”. Questo per dire che il tema, esplicito e molto pregnante, viene anche declinato nelle diverse chiavi stilistiche e formali, pur se viene comunque mantenuto un impianto narrativo del testo. Questo io credo permetta alla poesia di arrivare al lettore in modo diretto (si “narra” un fatto chiaro), di provocare commozione – per la grande umanità che Roger Robinson riesce a rendere, in pochi versi, al personaggio di Grace – senza però trascurare aspetti importanti del linguaggio poetico, che sono poi gli aspetti che lo contraddistinguono come testo letterario e non come una cronaca o un articolo giornalistico.  

Il tema è chiaro; meno chiaro è il contesto che ha spinto il poeta a scrivere la poesia. Durante il festival, Roger Robinson ha spiegato al pubblico che di solito evita di inserire poesie che parlano di esperienze personali e individuali. Tuttavia, in questo caso ha dichiarato di aver voluto valorizzare la grandezza d’animo e il lavoro preziosissimo di Grace, l’infermiera nera giamaicana che si è presa amorevolmente cura di suo figlio, difendendolo dalla tecnocrazia britannica – i medici avevano già sentenziato la morte del neonato prima ancora di provare a salvarlo. Roger Robinson ha anche spiegato durante il dialogo con il pubblico di ChiassoLetteraria che la negligenza sanitaria nei confronti dei bambini neri, appartenenti ai ceti più poveri, è molto frequente in Inghilterra ma che la presenza di un’equipe infermieristica composta da donne che provengono dalla diaspora nera, con un vissuto diretto sulla loro pelle degli effetti di questa negligenza, sta aiutando a cambiare lentamente questa situazione. Ed è quanto è avvenuto al suo figlioletto quando ha ricevuto le cure di Grace.   

È una poesia fortemente autobiografica.  

Forse anche lui, in questo caso, la definisce come tale. Nelle sue poesie c’è, sicuramente, la sua esperienza diretta ma solo come elemento di partenza. 

Anche nella poesia che dà il titolo al libro, per esempio, c’è la presenza di sua nonna. Nel testo c’è una tenerezza che è la stessa che ho ritrovato nel suo sguardo, quando ho avuto la fortuna di conoscerlo e passarci qualche ora insieme proprio durante l’edizione di quest’anno di ChiassoLetteraria. È indubbio che

quello che lui rappresenta nella sua scrittura è un mondo difficile, crudele, sbagliato, ma non è mai un mondo imbruttito, ribassato. È un mondo che, attraverso la poesia, dimostra di avere momenti di tenerezza e spazi di intima commozione.

L’essere umano è dentro in pieno, e concentra su di esso le contraddizioni che sono parte della nostra esistenza. 

Sempre parlando di scrittura del sé, che negli ultimi anni, anche in prosa, contraddistingue moltissima parte di ciò che viene pubblicato e di ciò che riscuote maggior successo di pubblico e critica, devo ammettere che, pensando a Roger Robinson ho come l’impressione che lui provenga però da un altro contesto, anche teorico. Nel suo caso, direi che lo si può maggiormente accostare a una tendenza, che ritrovo anche in altri autori o autrici della diaspora nera e che è quella di registrare la memoria collettiva mediante testi non di protesta, non “militanti”. Questo a mio avviso è uno degli aspetti più interessante della produzione di questo artista.  

Mi sembra che lui non voglia far proseliti ma responsabilizzare i propri lettori. 

In questo è molto intelligente. Negli autori della diaspora, una delle cose più in voga al momento, è quella di chiedersi fino a dove spingersi con la protesta, fino a che punto sensibilizzare su certi argomenti, fino a che punto escludere e puntare il dito. Come segnalano molti critici, anche interni ai movimenti, il rischio di un approccio di questo tipo è quello di isolarsi. Credo che la letteratura abbia un altro ruolo: creare alleati. E torno ancora all’ultima, bellissima poesia, che dà il titolo alla raccolta, Un paradiso portatile: quando parla della nonna, tu ti ci identifichi proprio in questa figura, qualunque sia la provenienza della nonna.  

Nella prima parte di Un Paradiso Portatile, Roger Robinson dedica alcune poesie alle settantadue vittime del rogo della Grenfell Tower di Londra, avvenuto nel 2017. Tu, nella tua ultima raccolta, Verso la ruggine, che ti è valsa il premio svizzero di letteratura nel 2023, trai spunto da un ecocrimine perpetrato alcuni anni orsono in Brasile per scrivere i tuoi versi. Entrambe queste tragedie sono dolose, in entrambe c’è una chiara responsabilità umana in quanto è avvenuto. La poesia è politica?   

Io credo che ogni gesto di scrittura, ogni gesto di comunicazione del linguaggio artistico sia politico, poiché è chiaramente inserito in un contesto di comunicazione, di lettura, di risposta, di ascolto… è un gesto verso l’altro. In questo senso, la scrittura è, senza dubbio, politica. Forse però,

più che chiedersi se la poesia è politica, bisognerebbe chiedersi che cosa ci si aspetta dalla poesia a livello politico. Come può e deve innescare meccanismi “politici”.

Penso che il linguaggio che io utilizzo, ma in generale che la poesia tutta incarni e sia un linguaggio altro rispetto alla politica. Credo che il potere della poesia sia quello di innescare corto circuiti nella sensibilità dei lettori. Negli ultimi anni, mi pare che il discorso politico tout-court sia andato a svuotarsi sempre di più, non faccia più presa sulla popolazione e sia stato sostituito da un rumoroso blaterare sui social dove chi grida più forte ha la meglio. La democrazia è diventata fragile: la democrazia non è un’opinione, si basa su valori collettivi che dovrebbero essere ovvi e rispettati da tutti, invece… per questo, credo che il ruolo della poesia sia quello di obbligarti a rallentare, a riflettere.  

Si sente spesso dire che la poesia è destinata a morire. Io non sono d’accordo. Non vedo davvero alcun rischio che questo possa accadere. Potrà magari evolvere, diventare un’altra cosa, ma morire non morirà mai, moriremo prima noi. Ne abbiamo bisogno come l’aria!

La poesia, intesa anche in senso ampio – non per forza la poesia scritta nel libro – ci invita alla trascendenza, al pensiero plurale, allo sguardo rivolto verso l’alterità… che poi siamo noi. La poesia ci proietta verso qualcosa che sta oltre quello che siamo. Ci permette d’inventarci un’altra possibilità.  

L’altro giorno stavo insegnando Ungaretti ai miei studenti (Prisca Agustoni, vive in Brasile e insegna dal 2008 letteratura comparata e italiana all’Università di Juiz de Fora, n.d.a.). Insomma, stavo parlando di Ungaretti e pensavo, cavolo, Ungà era lì nella trincea assieme ai morti e parlava d’amore! Ecco quello che voglio dire: se hai bisogno di aggrapparti a qualcos’altro, la poesia te lo permette. 

La funzione, se di funzione vogliamo parlare, della poesia, è intrinseca alla parola stessa. La poesia può toccare in modo profondo, ma lo fa lateralmente, in maniera obliqua rispetto alla realtà. Certo, la mia visione di poesia è anche determinata dal contesto sociale e politico in cui sono nata e cresciuta. Chi vive sotto regimi totalitari o in contesti di guerra o di persecuzioni, avrà una lettura diversa sul ruolo della poesia e dell’arte, m’immagino. In parte questo l’ho vissuto anch’io durante gli anni brasiliani sotto il governo negazionista di Bolsonaro. Sono stati anni difficilissimi nei quali ho imparato molto, come artista e come essere umano: ho vissuto il forte impatto emotivo della collettività, il dialogo con compagni e compagne di scrittura e di lotta politica. Abbiamo discusso tanto di come la scrittura doveva o poteva cedere il passo al manifesto, alla protesta, di come la canzone e il teatro abbiano avuto e hanno ancora un ruolo decisivo in questo senso; ho vissuto in prima persona mesi di manifestazioni politiche di strada, la tensione, la paura, ma anche la grande, grandissima gioia (è indescrivibile!) di chi sa di aver contribuito alla manutenzione della democrazia e di quel movimento collettivo nel quale tanti, tantissimi poeti e poete, sono stati coinvolti.  

Cosa ne pensi?
Condividi le tue riflessioni
e partecipa al dialogo

Desideri essere aggiornato sulle ultime novità dei Sentieri nelle Medical Humanities o conoscere la data di pubblicazione del prossimo Quaderno? Iscriviti alla nostra Newsletter mensile!

Iscriviti