I principi bioetici nella disabilità secondo una mamma
Una narrazione etica da parte di un figlio e fratello
Alla fine di ogni Accademia si richiede alle partecipanti e ai partecipanti di elaborare un testo libero su un tema a scelta, sulla base delle riflessioni sviluppate nel percorso. Non ci sono regole “accademiche” da seguire, solo una, esistenzialista: scrivere su qualcosa che si sente nella mente e nel cuore, che possa essere un gesto di cura. Nel tag “Accademia” condividiamo alcuni di questi elaborati sviluppati nelle nostre Accademie.
16 Settembre 2024 – Accademia, Disabilità, EticaTempo di lettura: 16 minuti
16 Settembre 2024
Accademia, Disabilità, Etica
Tempo di lettura: 16 minuti
Introduzione
Quando nacqui, mio fratello aveva 4 anni. Diventai parte di una meravigliosa famiglia e iniziai a scoprire il miracolo della vita. Due bambini felici e spensierati, due genitori giovani e preoccupati. Mio fratello, affetto dalla sindrome Cri du Chat, rara e allora poco conosciuta, richiedeva molte cure ed erano frequenti i casi in cui i miei genitori dovevano ricorrere a interventi urgenti dei medici.
Naturalmente da bambino non colsi la disabilità di mio fratello. Era semplicemente il mio fratello maggiore, con il quale condividevo la mia vita e i genitori.
Con il passare dei primi anni di vita, iniziai a capire che mio fratello aveva bisogno di aiuto nello svolgere varie azioni quotidiane, cosa alla quale mi prestai da subito senza pormi domande. Con semplici spiegazioni da parte dei nostri genitori, capii che per lui era più difficile fare alcune cose, e che io avrei potuto aiutarlo. Nella maniera più naturale possibile divenni curante, senza responsabilità, nel gioco e nelle semplici azioni quotidiane.
Crescendo, iniziai a rendermi conto che mio fratello continuava a richiedere aiuto, mentre io imparavo con più facilità cose nuove. Nacquero, quindi, i miei primi interrogativi e i nostri genitori mi spiegarono sempre meglio la sua situazione di disabilità. Entrambi abbiamo sempre avuto un trattamento e delle attenzioni senza differenze, e quando era richiesta maggiore attenzione per mio fratello, mi sentivo partecipe della cura. Il mio contributo era stargli vicino, una solidarietà bambina, ed io osservavo e crescevo. Negli anni scolastici fui confrontato con nuove persone, alle quali spesso dovevo spiegare la sua situazione di disabilità. Compito difficile per un giovane ragazzo, e in questi anni sviluppai un importante senso di difesa nei suoi confronti, schierandomi spesso dalla sua parte quando l’ingenuità dei compagni di scuola prendeva la via della burla.
Fu più tardi, che i miei interrogativi assunsero un significato più profondo, e si spostarono dalla condizione di disabilità al comportamento dei miei genitori; in particolare iniziai a ragionare sulle decisioni importanti che essi dovevano prendere nelle situazioni critiche legate alla salute, all’educazione, alla parità e alla diversità. Oggi, ripercorrendo molti eventi della nostra vita familiare, rimango ancora stupito ed incredulo di fronte all’enormità dei problemi affrontati dai miei genitori ed in particolare dalla Mamma, e mi chiedo quali siano stati i valori e i pensieri che le hanno permesso di sviluppare un modo di agire adeguato alla situazione di disabilità.
Mi piacerebbe immedesimarmi in lei per capire quanto sia stato difficile decidere, scegliere per il suo bene, quanto il motore fosse l’istinto, l’amore, la ragione, quale fosse, se c’era, il meccanismo.
Ho discusso con lei vari momenti importanti. Oggi ne avrei tanti altri da affrontare, ma non è più possibile, e forse sarebbero troppo intimi per essere condivisi. Vorrei rievocare tre episodi significativi relativi alla cura, sperando di individuare i valori che stavano alla sua base.
Primo episodio
Quando avevo quattordici anni, mio fratello ne aveva diciotto. La sua scoliosi peggiorava con il tempo e i medici consigliarono ai miei genitori di sottoporlo ad un intervento chirurgico, decisamente invasivo, ma che avrebbe evitato che la deformazione della colonna vertebrale causasse altri problemi irrimediabili, come la compressione dei polmoni. Dal racconto della Mamma, la decisione fu difficile, e dopo alcune settimane si convinse che per mio fratello questo intervento poteva essere decisivo per la sua speranza di vita. È importante considerare che, all’epoca, la conoscenza della sindrome Cri du Chat era limitata da parte della medicina, e la casistica nota riportava una speranza di vita naturale di circa venti anni. L’intervento venne eseguito in una clinica specializzata di Zurigo: due mesi di trazione della colonna vertebrale e l’impianto di una barra metallica nel costato. Nei quattro mesi di ospedalizzazione la Mamma restò giorno e notte accanto a mio fratello, che quando poté finalmente alzarsi in piedi, era cresciuto di diciassette centimetri. Nel periodo di permanenza nella clinica, visitavo mio fratello e la Mamma ogni due settimane, con il papà.
Lei si mostrava sempre amorevole, ma coglievo sempre il suo dispiacere di dover scegliere di curare il figlio che in quel momento aveva maggiormente bisogno, e che io accettavo comunque serenamente.
I pensieri e le considerazioni che hanno abitato la mente e il cuore della Mamma prima della sua decisione rimangono una sua parte intima, che ha espresso solo in parte. Negli anni seguenti ha sempre raccontato diversi dettagli e nei suoi occhi ho sempre visto un velo di lacrime. Contenta però della scelta, seppur sofferta e solitaria, ha sempre ripetuto queste parole: «abbiamo fatto la scelta giusta per il suo bene». Oggi mio fratello ha sessantun anni.
Secondo episodio
Nel 2015, all’età di settantotto anni, la Mamma dovette sottoporsi ad un intervento di sostituzione della valvola aortica. Indugiò a lungo prima di prendere questa decisione, la sua maggior preoccupazione era che succedesse qualche imprevisto che le avrebbe impedito di continuare ad offrire le cure a mio fratello. Il destino non fu generoso: un ictus perioperatorio la costrinse a sei settimane di cure intensive e a quattro mesi di riabilitazione in una clinica. Rientrò a casa dopo sei mesi, portando con sé un’emiplegia sinistra, un’importante disfagia, un deambulatore e una sedia a rotelle.
Giurava di essere morta due volte nel reparto di cure intensive, e di essersi salvata pensando a mio fratello.
Le rinunce furono per lei le cure a mio fratello e la sua autonomia. Smise di guidare, di mangiare bene e di camminare. Non smise però di sorridere, anche se la sua espressione mi sembrava più amara, né di cucinare. Arrabbiata con qualcosa o con qualcuno per l’accaduto, esprimeva spesso il pentimento della sua scelta di operarsi. Un giorno concluse un suo sfogo dicendo: «Anche tuo fratello ha un soffio al cuore, da sempre, ma non gli farò mai fare una cosa del genere, non sarebbe giusto sottoporlo a questa crudeltà».
Terzo episodio
All’inizio della pandemia Covid-19, chiusi il mio studio, poiché i locali erano frequentati da molte persone e iniziai a lavorare da casa, riducendo l’attività al minimo necessario. Deciso a proteggere la Mamma e mio fratello, entrambi particolarmente fragili, dai rischi del contagio. Con la Mamma decidemmo di tenere a casa mio fratello, che frequentava un istituto, rientrando a casa soltanto nei finesettimana. Trascorremmo così un lungo periodo, più di un anno, con pochi contatti diretti con il mondo esterno e vivemmo un intenso periodo di cura reciproca, che ci permise di ritrovare la ricchezza della comunione e una profonda intesa empatica. Dopo diciotto mesi, mio fratello dovette riprendere a frequentare l’istituto, per non perdere la propria camera riservata. Sentivo che la sua presenza quotidiana era per me importantissima e che la cura era reciproca. Sentivo il bisogno di condividere molti momenti con lui, ma allo stesso tempo capivo che alcune terapie sospese fornite dall’istituto, per lui erano importanti. La Mamma, a causa delle sue difficoltà motorie, era molto affaticata e, con tristezza condivise la decisione del rientro in istituto. Mi chiese poi di non farla sentire in colpa per questa scelta e da queste parole colsi tutta la sua sofferenza. Quella sera, quando mio fratello si coricò, mi sedetti sul pavimento vicino al suo letto, presi la sua mano mentre si addormentava sereno e piansi in silenzio. Ripercorsi con la mente infiniti momenti di contatto quotidiano, da quado eravamo bambini, fino a quel giorno. Da quel momento sarebbe stato di nuovo impossibile. Riprendemmo la vita quotidiana in una nuova forma, con un nuovo equilibrio. La logica ci diceva che la scelta era quella migliore per il bene di mio fratello, ma in tutti i cuori rimase una cicatrice. Mio fratello ritornava a casa nei finesettimana e gli altri giorni pranzavo e cenavo con la Mamma: io prendendomi cura di lei per i suoi problemi motori, lei prendendosi cura di me per le mie necessità di stomaco. A volte parlavamo, di qualsiasi argomento, a volte non parlavamo, di qualsiasi argomento. Negli anni avevamo sviluppato una forte empatia, forse ai confini della telepatia, per cui dei momenti di silenzio erano spesso ricchi di comunicazione molto precisa. Questo non ci sorprendeva più. Anzi, spesso avevo la certezza di aver discusso con lei senza parole. Uno sguardo ci dava la conferma che eravamo d’accordo su quanto non avevamo nemmeno pronunciato. Un giorno, però, a pranzo, mi colse di sorpresa con queste parole: «Ora che tuo fratello è via, ti preparo da mangiare e mi occupo di te. Quando sei stato via te [da giovane studiai per cinque anni a Losanna], sono potuta venire a trovarti una sola volta, perché ero occupata con tuo fratello. Ora tocca a te, è giusto così».
Conclusione
Ripercorrendo con la mente questi e molti altri episodi, mi rendo conto che le scelte della Mamma nei confronti della cura di mio fratello si sono sempre basate sul concetto di “cosa era giusto fare per il suo bene”. Questo principio l’ha accompagnata per tutta la vita di Mamma, sviluppandolo in maniera autonoma nell’affrontare innumerevoli dilemmi. Sicuramente una componente del senso di giustizia per una mamma è l’istinto materno, a volte inspiegabile, ma spesso maestro. Una seconda componente è l’amore, che porta a proteggere e valorizzare il figlio. Infine, la ragione, che porta ad elaborare informazioni, rischi e decisioni. Riconosco quindi l’istinto, il cuore e la mente come i pilastri che hanno retto il concetto di giustizia. Amore, dignità e rispetto sono stati i sentimenti su cui ha costruito la propria etica. I principi su cui si basa la bioetica secondo Childress sono l’autonomia, la beneficenza, la non maleficenza e la giustizia distributiva. Riesco ad individuare una correlazione tra i principi che hanno retto il senso di giustizia nella cura di mio fratello e i principi della bioetica: la dignità e il rispetto sono i valori che hanno permesso in ogni momento la massima autonomia e autodeterminazione possibili. La giustizia del fare il bene è la beneficenza, che deduco ad esempio dal primo evento descritto. Il secondo evento mi porta a identificare la giustizia del non fare il male con la non maleficenza. Infine, il terzo episodio descrive la giustizia della ripartizione delle risorse, in questo caso le cure della Mamma nei confronti di due figli con esigenze diverse, che identifico nella giustizia distributiva.
Spero che ogni persona curante nell’ambito della disabilità o della vulnerabilità, nel proprio percorso di formazione, nell’esercizio della professione o nella cura dei propri cari, riesca ad identificare e difendere il senso di giustizia innato, insito nella propria coscienza, completandolo con l’approfondimento dei principi della bioetica, per raggiungere una forma personale ma organica dell’etica della cura, condivisibile con la giusta terminologia.
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