Identità, dissonanza di genere e diritti trans

Il becco del pellicano 

Fino ad oggi, la cultura ha rimosso l’ambivalenza sessuale profonda che è iscritta in ogni persona, slegata da un determinato organo sessuale, probabilmente per difendere una certa idea di “ordine sociale”. Purtroppo, quando si pensa all’identità o al corpo, il sesso è diventato il principio universale, ma, come scriveva Nadia Fusini «di ogni esistenza, della sua singolarità, nessun nome ci svela il mistero. Perché di volta in volta di un essere che definiamo un uomo, una donna, dovremo poi dire il come: com’è donna quella donna? E uomo quell’uomo? E troveremo che siamo tutti presi in un gioco di anamorfosi, sempre spostati, sempre obliqui, sempre almeno in parte eccentrici rispetto a quel significante, alla sua legge». A tal proposito, ci sembra interessante ricordare quanto afferma la storica delle differenze Joan Scott, che sottolinea come la relazione dei nomi alle cose è dell’ordine, dell’interazione e non del riflesso; occorre evitare il rischio della «naturalizzazione delle differenze. Questa è la condizione dell’uomo e della donna moderni». 

Identità e unicità: c’è un passaggio di un testo di David Grossman che riprende il come noi siamo. Eccone un estratto. «Per terra, accanto ai piedi di Ben e della mamma, camminava una lunga fila di formiche. Forse mille. Si somigliavano moltissimo, mille formiche identiche. Ma quando Ben le guardò da vicino vide che una camminava veloce e l’altra piano. Una si sforzava di trascinare una foglia grande e un’altra trasportava soltanto un chicco di grano. Ben pensò che quella formichina aveva perso i genitori e li stava cercando. Questa formichina lo sa che non c’è nessun altra al mondo come lei?, domandò. Questo non lo posso sapere, rispose la mamma. Ben ci pensò un po’, poi disse: non lo puoi sapere perché tu non sei lei? Sì, confermò la mamma, perché io non sono lei».  

D’altronde, la nostra autopercezione non è migliore rispetto all’impressione che suscitiamo nei confronti degli altri, influenzati a loro volta dai loro stati emozionali e soprattutto dalle circostanze. A questi confini, che potremmo definire individuali, si aggiungono anche delle frontiere “interne”, biologiche e psicologiche, virtuali o reali, definite sovente come un’anormalità. Se in effetti tendiamo a considerare la nostra società come “liquida”, è pur vero che, come una sorta di reazione sintomatica, si nota purtroppo una tendenza altrettanto forte all’esclusione del diverso, dello straniero, della differenza, radicalizzando una nozione di identità chiusa su se stessa. Quando il confine si irrigidisce, la vita si ammala; Tocqueville lo chiama il ripiegamento dell’individuo su se stesso, «sulla solitudine del proprio cuore».  

 Per capire meglio la nozione di identità conviene partire da quella del riconoscimento, cioè da quelle pratiche con cui ci mettiamo in contatto con l’altro per realizzare il nostro bisogno di socialità. Talvolta forziamo, implicando sempre la natura fondamentale del rapporto con l’alterità, un riconoscimento del gruppo, talaltra gli altri ci impongono uno stigma. Uno stigma iniziale che per i genitori dei bambini transgender ha l’effetto di uno tsunami, di un prima e di un dopo: realizzare davvero che, ad esempio, una figlia soffra di una disforia di genere, cioè si senta inadeguata rispetto al suo sesso definito alla sua nascita e al genere in cui si identifica (maschile), causa sovente dei pesanti sensi di colpa e un’angoscia profonda. Inoltre, è molto difficile andar oltre i pregiudizi propri, dei famigliari e della società e imparare ad accettare la realtà così com’è. Per i bambini, le bambine e le loro famiglie la sofferenza è solitamente immensa.  

Nel precedente testo dell’Osservatorio abbiamo citato i problemi etici legati alle terapie ormonali necessarie per interrompere la pubertà ed evitare, quindi, i caratteri sessuali secondari: il più importante concerne il giudizio della capacità di discernimento nell’età adolescenziale e le eventuali conseguenze somatiche o psicologiche delle terapie a lungo termine. La Svezia, ad esempio, è stata il primo Paese, nel 1972, a riconoscere la “disforia di genere”, ma lo scorso anno ha limitato le terapie ormonali ai progetti di ricerca e ha esortato i medici alla prudenza in mancanza di dati scientifici sul decorso prognostico pluridecennale. È, però, importante segnalare uno studio pubblicato lo scorso 19 gennaio sul prestigioso New England Journal of Medicine. Esso dimostra che dopo 2 anni di terapia ormonale l’aumento della congruenza di aspetto è associato a una maggiore soddisfazione di vita e a una diminuzione dei sintomi depressivi nei/nelle bambin* transgender. Intanto, un mese fa, il Congresso spagnolo ha approvato la “ley trans” e il Parlamento scozzese il “Gender Recognition Reform Bill”, svincolando l’identità di genere da lunghi e complessi percorsi medici, psicologici e giuridici per poter autodeterminarsi in libertà: i diritti trans sono diritti umani. 

Un pensiero su “Identità, dissonanza di genere e diritti trans

  1. Nicolò S. Centemero dice:

    Mi permetto di suggerire in merito a, cito, “Uno stigma iniziale che per i genitori dei bambini transgender ha l’effetto di uno tsunami, di un prima e di un dopo: realizzare davvero che, ad esempio, una figlia soffra di una disforia di genere, cioè si senta inadeguata rispetto al suo sesso definito alla sua nascita e al genere in cui si identifica (maschile), causa sovente dei pesanti sensi di colpa e un’angoscia profonda”, la visione del Film “Girl” di Lukas Dhont, giovane regista belga classe 91, qui alla sua seconda e straordinaria prova. Attualmente si trova anche sulla piattaforma MUBI https://mubi.com/it

    Dhont, tra l’altro, è finalista agli Oscar 2023 tra i migliori film stranieri con “Close”, attualmente nelle sale, che tratta un altro tema difficile: il suicidio nell’adolescenza.

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