Il dialogo transculturale nella relazione d’aiuto
3 Aprile 2023 – OSC, Comunicazione, PsichiatriaTempo di lettura: 17 minuti
3 Aprile 2023
OSC, Comunicazione, Psichiatria
Tempo di lettura: 17 minuti
La relazione d’aiuto in un contesto transculturale presenta peculiarità e complessità particolari che richiedono, da parte dei curanti, l’acquisizione di competenze e saperi specifici che permettano di modificare il proprio sguardo e la modalità di approcciarsi alla cura. Accompagnare persone, che hanno vissuto esperienze drammatiche e traumatiche, alla scoperta della propria resilienza permette di affinare le proprie abilità relazionali, aiutando il curante a porsi con maggiore attenzione anche nei setting terapeutici isoculturali.
Nonostante la preparazione e la predisposizione all’accoglienza e all’incontro con l’alterità di persone che provengono da altri paesi, possono insorgere difficoltà che, come vedremo più avanti, sono principalmente correlate alle incomprensioni che possono avvenire nella comunicazione, non solo a livello puramente linguistico, ma anche nell’interpretazione del vissuto soggettivo del paziente migrante rispetto al proprio disagio, che potrebbe essere espresso con modalità differenti e culturalmente caratterizzate.
Per approfondire questi aspetti, può essere utile ricordare il significato di “illness”, ovvero la prospettiva e la percezione che il paziente ha della sua malattia, con il proprio personale vissuto di sofferenza e che ne caratterizza la sua narrazione rispetto ai sintomi e/o alle proprie condizioni che avverte come spiacevoli o anomale (Kleinman, 2020). La percezione emotivamente soggettiva del paziente di “essere malato”, rappresenta quindi un aspetto particolarmente importante nella relazione terapeutica, in quanto accade spesso che i pazienti abbiano difficoltà ad esternare i propri vissuti interiori di sofferenza (Mazzetti, 2019).
Questo fenomeno appare però accentuato in ambito transculturale in quanto la modalità di approccio alla propria interiorità può essere differente rispetto a quella occidentale e il paziente può non trovare le parole adatte per esprimere i propri vissuti. Sovente, inoltre, accade che la persona straniera censuri a priori ciò che pensa del proprio malessere, cercando di trovare delle modalità di esprimersi che ritiene “occidentalmente” corrette per non essere giudicato, in una sorta di auto-stigmatizzazione, rispetto alla consapevolezza delle differenze culturali presenti (Mazzetti, 2019).
Questo accade in modo particolare nell’ambito della salute mentale delle persone migranti, in quanto i sistemi di riferimento che spiegano l’origine delle malattie e della sofferenza psichica, sono frequentemente differenti da quelli occidentali e può accadere che i disturbi vengano attribuiti a fenomeni di possessione (per esempio, da parte di jinn oppure di spiriti), o da fenomeni di influenzamento a distanza (come le fatture, la stregoneria, lo Juju) a seconda della provenienza della persona (Mazzetti, 2019).
Quindi, i pazienti raramente ne parlano in quanto, generalmente, sono consapevoli che i curanti occidentali tendono a presentare delle riserve rispetto all’accettazione di questo tipo di spiegazioni, a favore di una diagnosi di tipo “disease”, classificando quanto descritto come disturbo delirante. Le remore della persona ad esprimere i propri vissuti interiori e la difficoltà dei curanti a comprendere o accettare questi aspetti culturalmente caratterizzati, rientrano in quello che viene definito livello prelinguistico delle incomprensioni (Mazzetti, 2019).
L’aspetto prettamente linguistico è quello dove più facilmente possono incorrere malintesi. La lingua è una variabile fondamentale e può costituire un’importante barriera nella comunicazione e nella comprensione del paziente, in particolare dell’utente con disturbi psichici. Una minore capacità linguistica è spesso associata a maggior probabilità di disagio psichico e correlata a fattori associati, quali una minor soddisfazione rispetto ai servizi di cura e una conseguente ridotta aderenza e compliance terapeutica (Aragona et al., 2014).
Il rischio di fraintendimenti non è però tanto a livello puramente lessicale, come si potrebbe pensare, quanto piuttosto a livello semantico poiché lo stesso termine, in lingue diverse, può assumere significati molto differenti. Si propone un esempio per comprendere meglio. Il termine “reni” in somalo si indica con “kili”, ma indica un’area corporea totalmente differente rispetto a quella che si intende in italiano. “Kili” si riferisce infatti all’area addominale antero-laterale mentre, comunemente, quando in italiano si dice “avere mal di reni” si intende dolore alla zona dorsale latero-rachidea. Quindi con lo stesso termine un paziente somalo potrebbe indicare un’addominalgia mentre, un paziente italiano, una lombalgia (Mazzetti, 2019).
I fraintendimenti di tipo metalinguistico sorgono quando le simbolizzazioni, all’interno di una comunicazione apparentemente funzionale, non sono condivise a causa di sistemi di riferimento metaforici culturali differenti. Ad esempio, nella cultura occidentale, il termine cancro, evoca il timore di una patologia potenzialmente letale, associandolo all’idea di morte, ma questo significato simbolico potrebbe non essere colto da una persona che proviene da un’area geografica dove le prevalenti cause di morte sono invece determinate malattie infettive, come la diarrea, termine che in quel contesto veicola un messaggio di morte, mentre in occidente viene considerato solo un fastidio transitorio. Quindi, è importante non sottovalutare che termini clinici apparentemente banali e scontati, possono invece evocare significati terrorizzanti in chi ha un mondo simbolico differente (Mazzetti, 2019).
Quello dell’incomprensione culturale è un aspetto particolarmente complesso in quanto la cultura è parte integrante di ogni individuo ed è come se, in un certo senso, venisse assorbita in modo inconsapevole nei primi anni di vita dall’ambiente in cui si cresce, costruendo l’identità della persona; ne fanno parte le relazioni familiari, le norme sociali, i riferimenti religiosi e giuridici, come anche quelli storici ed epici del popolo cui si appartiene (Mazzetti, 2019).
Non si può però immaginare che l’identità di una persona rimanga immutata per tutta la vita, in modo particolare se affronta un percorso di migrazione, in quanto, sebbene i riferimenti identitari del luogo di origine rimangano insiti nell’individuo, grazie al processo di transculturazione, egli assimila anche i riferimenti culturali del luogo di arrivo. L’incontro/scontro tra la cultura di appartenenza e quella di adozione rappresenta frequentemente uno dei motivi di disagio psichico per i migranti, in quanto possono sperimentare il fenomeno della doppia assenza, sentendo di non appartenere più alla terra di origine, ma nemmeno a quella di arrivo (Sayad, 2002). Il continuo e ripetuto sforzo che la persona migrante sperimenta per riconfigurare e ridefinire la propria identità tra modelli culturali di riferimento differenti e il conseguente stress da transculturazione (o acculturazione1), la espone inoltre al rischio di riacutizzazione della sintomatologia post-traumatica (Russo, 2021).
L’ambito culturale, quindi, è complesso ed è facile cadere in incomprensioni o malintesi anche involontari. Uno tra i più comuni esempi di questo aspetto è quello della distanza prossemica durante le conversazioni che, a seconda dei luoghi di provenienza, può essere molto differente.
Il livello metaculturale riguarda tutti quegli aspetti religiosi, filosofici o ideologici che appartengono all’individuo e che possono influenzare le relazioni interpersonali. Dal momento che si tratta di aspetti caratterizzati dalla consapevolezza della persona, sono temi sui quali è possibile generalmente negoziare, ma che richiedono comunque riflessione, in quanto possono ugualmente essere fonte di incomprensioni.
Ad esempio, potrebbe capitare il caso di pazienti che, per motivi di salute, nel proprio paese sarebbero disposti a rinunciare al digiuno dettato dal Ramadan, accettando di assumere terapie farmacologiche o di seguire una eventuale dieta necessaria, rifiutando invece le disposizioni mediche nel luogo di immigrazione. Sarebbe un errore considerare questo atteggiamento come una “semplice” mancanza di compliance, in quanto è probabile che sia proprio la situazione di fragilità a far emergere un bisogno di appartenenza e di rassicurazione identitaria, spingendo la persona ad ancorarsi alle proprie radici culturali e religiose.
Le possibili incomprensioni descritte possono essere molto comuni, per questo motivo è fondamentale verificare quanto più possibile la correttezza dei dati raccolti, confrontandosi con il paziente e con il fondamentale coinvolgimento dei mediatori culturali2 (Mazzetti, 2019).
La presa in carico degli utenti richiedenti asilo che giungono in CPC (Clinica Psichiatrica Cantonale di Mendrisio) evidenzia le peculiarità fin qui descritte e in particolare le criticità legate alla barriera linguistica e i conseguenti ostacoli alla comprensione e al dialogo che, solo in minima parte e per questioni superficiali, possono essere superati dall’utilizzo delle lingue veicolari e dei metodi di traduzione online.
Comunicare e potersi comprendere reciprocamente è una questione prioritaria, in particolare in una relazione di cura dove le parole sono lo strumento terapeutico. Il supporto professionale del mediatore culturale assume quindi una valenza fondamentale, oltre che per chiarire questioni contingenti e puntuali correlate al quadro clinico, anche per conoscere la persona, approfondendo e contestualizzando la sua storia biografica.
Nella relazione di cura transculturale assumono rilevanza particolare il lavoro in equipe multidisciplinare e la preparazione del setting, che dovrebbe prevedere un approccio di tipo etnopsichiatrico; quindi, allargato e con la presenza del mediatore culturale ogni volta che questo è possibile. La sinergia tra i diversi operatori della cura permette di moltiplicare gli sguardi e i linguaggi, stabilendo una situazione comunicativa sicura, che lasci spazio all’altro, condividendo il potere e il controllo, con questo si intende il rispetto dei tempi del paziente, in particolare quando si tratta di un migrante forzato, andando incontro alle difficoltà che può manifestare nel corso del colloquio, affinché non si senta costretto nello spazio terapeutico e possa percepire la differenza di setting rispetto alle esperienze traumatiche che può aver vissuto in altri contesti, connotate da violenza e dove può essere stato costretto a parlare o a rispondere con la forza o sotto tortura (Aragona et al., 2014).
In questa tipologia di setting sarà fondamentale, quindi, avere delle accortezze specifiche al fine di stabilire un clima collaborativo, di rispetto e fiducia, spiegando anche il ruolo delle diverse figure presenti. La sensibilità personale e la preparazione professionale dei mediatori culturali sono elementi importanti in quanto permettono loro di agire in modo competente, attento e flessibile secondo l’andamento del colloquio, con la consapevolezza di dover evitare interpretazioni personali, traducendo nel modo più fedele possibile, agevolando la comprensione di concetti quando la traduzione letterale non è esaustiva ed è importante dare un’interpretazione culturale a quanto la persona sta raccontando, prestando attenzione anche a tutti gli aspetti non verbali che il paziente sta trasmettendo (Torresin, 2021).
Il dialogo transculturale, nonostante le accortezze che si mettono in atto, può presentare ulteriori criticità, in particolare quando ci si prende cura di migranti forzati. Il quadro clinico di questa tipologia di pazienti è frequentemente correlato al PTSD (Post Traumatic Stress Disorder), che tra i sintomi che presenta, manifesta anche iper-arousal, stati d’ansia, diffidenza e spunti simil-paranoidei. Può accadere che sebbene i mediatori culturali siano originari dello stesso paese del paziente, possano appartenere ad un’etnia differente, magari proprio a quella cui appartenevano i suoi persecutori (questo accade più frequentemente con i profughi afgani e quelli provenienti da diversi paesi africani). Quando si verifica questa situazione sono comprensibili l’eventuale diffidenza e reazione di rifiuto da parte del paziente e la sua posizione merita comprensione e rispetto, nonostante la fiducia e la stima che noi possiamo avere per il mediatore intervenuto (Aragona et al., 2014).
Un altro elemento importante da tenere in considerazione è il benessere del mediatore culturale, che deve essere in grado di rimanere in ascolto di sé e avere consapevolezza delle proprie emozioni, deve saper cogliere segnali di difficoltà e del proprio disagio, in modo tale da non rimanere agganciato emotivamente alle situazioni che i pazienti affrontano durante le sedute, durante le quali possono emergere ricordi strazianti e descrivere vissuti di violenze terribili, che possono risuonare nel mediatore che potrebbe aver condiviso un percorso simile in passato, con il rischio di ri-traumatizzazione (Aragona et al., 2014).
Come curanti dobbiamo aprirci ed essere ricettivi verso modalità differenti di esprimere la sofferenza, in particolar modo nell’ambito della relazione di cura transculturale. La narrazione delle persone di cui ci prendiamo cura spesso è connotata da vicende di vita tragiche e traumatiche, legate al percorso migratorio. La sfida per ogni migrante è quella di trovare una coabitazione armonica dentro di sé tra il suo mondo di prima e quello di ora. Il mediatore culturale può diventare per il paziente un modello cui ispirarsi per progettare il proprio futuro, in quanto rappresenta la possibilità di poter appartenere alle due differenti realtà, quella di origine e quella del paese di accoglienza, armonizzando in sé la duplicità culturale, così preziosa e arricchente, rappresentando un modello di integrazione e di migrazione riuscita, ancor più stimolante se le motivazioni che hanno spinto alla partenza sono simili.
Bibliografia
Aragona, M., Geraci, S., & Mazzetti, M. (2014). Quando le ferite sono invisibili: Vittime di tortura e di violenza: Strategie di cura. Quando le ferite sono invisibili, 1–139.
Kleinman, A. (2020). The illness narratives: Suffering, healing, and the human condition. Basic books.
Mazzetti, M. (2019). Il dialogo transculturale: Manuale per operatori sanitari e altre professioni d’aiuto. Carocci.
Russo, E. (2021). L’accoglienza e la cura delle persone migranti, richiedenti asilo e rifugiate.
Sayad, A. (2002). La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato (D. Borca & R. Kirchmayr, Trad.). Cortina Raffaello.
Torresin, S. (2021). L’incontro con l’utente migrante: Come riconoscere i segni e riflettere sui progetti di cura.
Cosa ne pensi?
Condividi le tue riflessioni
e partecipa al dialogo
Lascia un commento