Il kintsugi come metafora della speranza nella malattia
Un approfondimento
Alla fine di ogni Accademia si richiede alle partecipanti e ai partecipanti di elaborare un testo libero su un tema a scelta, sulla base delle riflessioni sviluppate nel percorso. Non ci sono regole “accademiche” da seguire, solo una, esistenzialista: scrivere su qualcosa che si sente nella mente e nel cuore, che possa essere un gesto di cura. Nel tag “Accademia” condividiamo alcuni di questi elaborati sviluppati nelle nostre Accademie.
6 Gennaio 2025 – Accademia, MorteTempo di lettura: 12 minuti
6 Gennaio 2025
Accademia, Morte
Tempo di lettura: 12 minuti
Il termine speranza rimanda alla sfera affettiva, ovvero a quell’insieme di processi emotivi e cognitivi volti alla realizzazione di ciò che si desidera nel breve, medio o lungo termine. L’etimologia della parola speranza deriva dal latino spes che, a sua volta, è associata alla radice sanscrita spa- che significa “tendere verso una meta”.
Nell’immaginario collettivo la speranza è legata alla vita: pensiamo, ad esempio, al concetto “speranza di vita”, espressione poetica e romantica del più arido e matematico “vita media”, ovvero quell’indicatore demografico che misura il numero medio di anni che restano da vivere ad una persona cha ha raggiunto una determinata età.
“La speranza è l’ultima a morire” e “finché c’è vita c’è speranza”: nel contesto di una malattia, questi proverbi rimandano al senso comune di chi desidera esortare la persona malata a non cedere di fronte alle difficoltà che la malattia comporta; inoltre, quando si è sopraffatti dalle conseguenze della malattia, si è soliti sperare, appunto, che qualcosa possa risolvere la situazione contro ogni evidenza e razionalità e questo atteggiamento spesso aiuta ad affrontare la situazione.
L’ultima cosa che viene persa è la speranza: non a caso il primo dei due proverbi rimanda alla frase pronunciata dal medico che soccorre il piccolo Raimondo nel romanzo L’innocente (1892) di Gabriele D’Annunzio: «No, no. Respira. Finché c’è fiato, c’è speranza. Coraggio!».
La speranza secondo la tradizione greco-latina viene considerata “ultima dea” (dal latino “spes ultima dea”): questa espressione rimanda al mito del vaso di Pandora, il celebre contenitore di tutti i mali che si riversarono nel mondo dopo la sua apertura; sul fondo del vaso rimase soltanto Elpìs, la personificazione dello spirito della speranza, che non fece in tempo ad allontanarsi prima che il vaso venisse chiuso di nuovo. Fa riflettere il fatto che Elpìs era di fatto uno tra i mali contenuti all’interno del vaso:
la speranza è un male che, da ultimo, si rivela un bene in quanto assume una valenza consolatoria
per l’umanità che in seguito all’impropria apertura del vaso fece esperienza di tutti i mali del mondo. Da qui deriva la concezione della speranza come ultima risorsa per l’uomo che spera sempre fino alla fine e attende fiduciosamente qualcosa di meglio.
Eppure, la speranza, come l’amore, è anche “cieca”: va oltre qualsiasi ostacolo e qualsiasi logica razionale. Molto coinvolgente è la raffigurazione pittorica della cieca speranza in questo quadro intitolato Hope (1886) di George Frederic Watts, pittore e scultore inglese: la speranza viene raffigurata come una figura femminile bendata, seduta sulla parte superiore del globo, intenta a suonare le corde di una lira.
Secondo quanto cita Diogene Laerzio all’interno della sua opera Vite dei filosofi (III secolo), Aristotele definisce la speranza «un sogno fatto da svegli», dunque la speranza come qualcosa di effimero che è fatto «della stessa sostanza dei sogni» (William Shakespeare). Nella poesia Le ricordanze, scritta nel 1829 da Giacomo Leopardi, si rimanda alla valenza illusoria e ingannevole di alcune speranze: «O speranze, speranze; ameni inganni…». In merito a tale valenza ingannevole e illusoria, già secoli prima Guido Cavalcanti (XIII secolo) associava alla speranza l’idea di qualcosa che non mantiene le sue premesse e che non costituisce un bene di stabile possesso: «e la speranza, ch’è stata fallace…». Lo stesso concetto viene espresso, in altre parole, da François de La Rochefoucauld nelle sue Massime (1678): «la speranza, per ingannevole che sia, serve almeno a condurci alla morte per una strada piacevole»; analogamente Diogene di Sinope, detto il Cinico (IV secondo a.C.), scriveva che «le speranze sono i sonniferi dei nostri dolori».
Alla luce di queste riflessioni, se come scriveva Plauto (II-III secolo a.C.) «quel che non si spera accade più spesso di quel che si spera» e che
«ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza»
(Leonardo Sciascia, Una storia semplice, 1989),
entro quali coordinate si può parlare di speranza nell’ambito della malattia?
La letteratura dimostra che i contenuti specifici delle speranze dei pazienti cambiano in base alla fase di malattia. Per chi ha una malattia a prognosi favorevole, la speranza aiuta a fronteggiare il raggiungimento di obiettivi tangibili quali guarigione e sopravvivenza. Per contro, la diagnosi di una malattia inguaribile a prognosi sfavorevole pone l’individuo in una condizione di vulnerabilità che si accentua soprattutto nella fase avanzata della malattia o nella fase finale della propria vita. In questi casi la speranza si focalizza sul controllo dei sintomi: in questo modo e sulla base del proprio contesto socio-familiare, è possibile mantenere il più a lungo possibile la propria autonomia e vivere serenamente il tempo che resta trovando le energie mentali da dedicare al compimento di qualcosa di importante prima di morire.
Secondo la definizione del 2020 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’ambito di una malattia inguaribile, potenzialmente letale e/o cronica-progressiva, le cure palliative offrono un approccio globale centrato sulla persona malata: la sofferenza del malato viene caratterizzata sul piano fisico e arricchita nelle sue componenti psicologiche, sociali e spirituali. Ci si occupa non solo della persona malata, ma anche del suo entourage familiare e/o amicale. Il focus delle cure palliative è mirato alla qualità di vita definita volta per volta in funzione dei valori, dei desideri e dei bisogni specifici della singola persona malata, non la quantità di vita.
Storicamente le cure palliative nascono nell’Inghilterra degli anni ’60 nell’ambito della presa a carico di pazienti con malattie oncologiche in fase terminale grazie all’operato instancabile di Cicely Saunders (infermiera, poi assistente sociale e infine medico) e alla nascita del movimento hospice; solo più recentemente si è iniziato a parlare di cure palliative non oncologiche, di cure palliative precoci (quando vengono attuale fin dalle prime fasi della malattia) e di cure palliative simultanee (quando vengono erogate insieme a trattamenti modificanti il decorso della malattia).
Questo approccio di cura globale si attua attraverso un lavoro di squadra multidisciplinare e interdisciplinare perché in un t.e.a.m. “together everyone achieves more”, un singolo professionista non è in grado di farsi carico da solo di tutti i bisogni del paziente: l’incontro e il confronto di molteplici professionisti garantisce la pluralità di contributi e prospettive la cui integrazione permette la valorizzazione di ogni competenza. Le figure professionali che lavorano in un team di cure palliative sono dunque molteplici: infermieri, fisioterapisti, ergoterapisti, dietisti, consulenti spirituali, assistenti sociali, psicologi e medici, oltre ai collaboratori del servizio alberghiero di economia domestica che pure hanno contatti regolari con pazienti e familiari.
Il principio su cui si basano le cure palliative è che la persona gravemente malata, seppur inguaribile (to treat), è sempre e comunque curabile (to care). La perdita di autonomia che la malattia comporta rende la persona estremamente vulnerabile: quando il recupero dell’indipendenza non è più possibile, la presa a carico di cure palliative ha lo scopo di provvedere alla cura dei bisogni fondamentali (stabiliti dal paziente) tramite un supporto che a dipendenza dei casi o dei momenti può essere complementare/sostitutivo oppure temporaneo/permanente. Attraverso una serie di attività di natura tecnica, relazionale ed educativa, il team di cure palliative si adopera per aiutare la persona non solo ad esistere (ovvero, assistere le funzioni biologiche anche nella condizione di malattia conclamata) ma anche a vivere (ovvero, ritrovare uno scopo e un senso della vita che rimane, anche nella condizione di malattia conclamata) e ciò in definitiva alimenta la speranza nella malattia.
In questo contesto in cui si passa dalla biologia della malattia alla biografia della persona, la malattia viene considerata non solo come disease (il punto di vista del curante e della patofisiologia), ma anche come illness (il punto di vista del malato, di chi convive ogni giorno con la sua malattia). Da qui l’importanza di una comunicazione autentica e trasparente, lontana dalla concezione del “privilegio terapeutico”, che supera i tabù del fine vita (prognosi, desistenza terapeutica, pianificazione anticipata delle cure) e della morte (bisogni esistenziali, paura della morte), attenta tanto ai contenuti verbali quanto ai contenuti non verbali, e rispettosa della volontà del paziente tanto di essere informato quanto di non sapere.
In definitiva, ciò che è rotto non è perduto, ma può essere valorizzato traendo nuova forma e forza dalle sue imperfezioni, e trasformandosi in qualcosa di unico e di nuovo: a questi principi si ispira l’antica arte giapponese del kintsugi che consiste nell’aggiustare la ceramica incollandone i singoli frammenti con una pasta a base di polvere d’oro. Si cerca di dare nuovo aspetto e nuova armonia all’oggetto, valorizzando le crepe anziché nascondendole.
Allo stesso modo, chi è malato e prossimo alla morte non è perduto, ma può trarre forza dalla sua vulnerabilità alimentando la speranza consapevole di veder realizzati i propri obiettivi concreti e riscoprendo così la propria dignità.
Come in tutte le cose e come ci ricorda Seneca (I secolo a.C.), la giusta via sta nel mezzo:
«Sarai tu stesso
a procurarti motivi di affanno,
ora affidandoti alla speranza,
ora abbandonandoti alla disperazione? Se sei saggio unisci una cosa all’altra: non sperare
senza disperazione, e non disperare senza speranza».
Concludo riportando una delle citazioni più famose di Cicely Saunders: «You matter because you are you, and you matter to the end of your life. We will do all we can not only to help you die peacefully, but also to live until you die».
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