Il tremore della cura

Il racconto autobiografico di un chirurgo-poeta 

La parola tremore, nella sua accezione filosofica, esprime concetti complessi e straordinari. La associamo facilmente alla paura, soprattutto quando parliamo di malattie. La paura è un sentimento capace di attivarci attraverso due vie: (i) la via biologica, immediata e protettiva, che porta l’essere umano a combattere o fuggire; (ii) la via del pensiero, più lenta, che porta alla resa o che produce speranza. Di questa via del pensiero che produce speranza, di questo tremore, tratterò in questo breve racconto.  

Sono certo del vostro interesse nell’espressione del pensiero per mezzo del racconto, che è in fondo cardine e forza dell’umanesimo clinico e della forma più sana di relazione tra medico e paziente. Ne approfitto.

Cosa rende l’essere umano differente da ogni altra creatura?

La prima risposta che mi venne in mente, ancora studente di liceo affascinato da Fibonacci, fu quella che l’uomo ha la capacità di eseguire calcoli matematici.  

Leonardo Fibonacci fu uno dei primi studiosi a introdurre nel mondo occidentale il sistema numerico decimale. Con il suo trattato di aritmetica Liber Abaci (1202) dettagliò le proprietà delle quattro operazioni fondamentali (+-x:) e alcune caratteristiche particolari dei numeri perfetti e dei numeri primi. Si, mi ripetevo all’epoca, l’uomo è diverso da tutte le altre creature perché sa far di conto. Solo 700 anni dopo, l’umanità venne a conoscenza della relazione tra energia e massa (E=mc2) e che niente può superare la velocità della luce. L’uomo comprese, inoltre, che in un universo di innumerevoli galassie, per percorrere solo il diametro della nostra, ci sarebbero voluti, a quella velocità limite, ben centomila anni. 

Esistiamo, poggiati a forza (la gravità) su un granellino di materia sospeso nel buio cosmico di una galassia inesplorabile, nell’immensità del cosmo, con l’unica opportunità di vivere una minuscola frazione di tempo. Cosa mi differenzia da tutto quello che c’è fuori da me? Che senso ha tutto questo? Una prima risposta arrivò dal Liber Abaci. Anche se Fibonacci non giunse affatto a questa conclusione,

mi sembrò ovvio dedurre che nulla ci differenzia da quello che c’è là fuori e che per capire l’universo inesplorabile bastava avvicinare la lente sull’essere umano.

Universo e Uomo sono governati, infatti, dalle stesse forze e rispondono alle stesse leggi di natura, che Fibonacci identificò nella sua successione numerica: 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144 e così via, all’infinito. 

Comprendere questi numeri mi sembrò la strada giusta per trovare la risposta. Questo perché li troviamo nella forma delle galassie, nella distanza dei pianeti dal sole o nel loro tempo di rivoluzione, nel modo con cui si dividono i rami di un albero, nella composizione disegnata dai petali di una rosa, nei fiocchi di neve, nel broccolo romanesco che friggeva mia madre il giorno di Natale, nel numero dei petali di una margherita, nel modo di volare di un falco, nella forma di una conchiglia, nel modo in cui le linee si dispongono nell’impronta digitale, nei polmoni con le sue diramazioni bronchiali, nelle proporzioni delle nostre estremità e del nostro viso, nel DNA umano ed in molte altre cose del mondo fisico. Fibonacci viene utilizzato come strumento di trading nei mercati finanziari. Lo applichiamo, come Da Vinci fece, all’idea di perfezione della pittura, all’idea di perfezione dell’architettura, nella musica.

Scoprii nel Liber Abaci un’affascinante relazione matematica che governa l’ordine del micro e del macro cosmo.

Dovevo immergermi nella comprensione dell’uomo biologico e avrei trovato la risposta che cercavo. Credevo proprio di riuscirci. 

Negli anni della mia formazione compresi il funzionamento della macchina biologica, tuttavia con il tempo non solo non trovai la risposta che cercavo, ma fu addirittura la domanda a cambiare. È forse il pensiero che giustifica l’esistenza? Come può il cervello essere capace, con una serie di meccanismi biochimici ed elettrici, di generare il pensiero. E a che scopo tutto questo sentire della coscienza? Leggere Cartesio mi consentì di aprire una porta su un nuovo universo, infinito, eppure capace di essere contenuto nell’umano sentire di ogni individuo. Cartesio divideva infatti l’universo in res cogitans (sostanza mentale) e la res extensa (la sostanza materiale). Ritenni che la vita umana potesse essere la fusione tra questi due mondi in una cosa sola. Che sia mortale una parte non è un segreto, sul destino dell’altra ognuno ha il suo credo.

All’epoca immaginai una clessidra, pensate al numero 8. Due universi infiniti (il creato da una parte e l’uomo con la sua componente biologica e spirituale dall’altra) che si incontrano e fondono in un punto che dà forma e significato ad entrambi. La vita.

Forse ciò che ci differenzia da tutto quello che c’è là fuori è proprio quello che c’è dentro ognuno di noi, la nostra coscienza data dalla nostra storia (coscienza narrativa), insieme alle altre mille forme che può assumere l’io. Forse siamo solo una parte della clessidra il cui destino è quello di portare la nostra esperienza ad arricchire l’altra pancia dell’8. Non trovai alcuna certezza in questo modo di pensare, tuttavia mi convinsi dell’esistenza di due mondi (corpo e coscienza).

Questo generò in me, da medico ormai quasi specializzato, la convinzione che nell’esercizio della medicina avrei curato la macchina, come mi ero preparato a fare, solo se il guidatore mi avesse concesso di entrare in contatto con l’altra parte del suo mondo.

Lo ritenevo utile alla cura, come il bisturi o la chemioterapia.  

Ho scoperto nel tempo come si chiama questa attitudine, che nel 1960, quindi vent’ anni prima della mia nascita, stava prendendo piede in America, l’umanesimo clinico. Tra le differenti caratteristiche del mio agire come medico – sono un chirurgo – certamente saper orientare il bisturi risulta fondamentale nella cura. Non di minore importanza è tuttavia l’applicazione di un approccio alla cura che non sia orientato a curare esclusivamente l’organo malato. All’epoca tutto questo era più un modo personale di concepire la cura. Leggendo gli scritti di S. Freud sul transfert potei scoprire, senza sorpresa, che i pazienti vivono principalmente sentimenti di paura e solitudine. Di questi avrei dovuto tener conto. 

Iniziai ad occuparmi di cancro al polmone, al seno, la prostata, il colon, il retto ed il cervello. Ogni organo colpito aveva la sua cura e ogni paziente la sua storia, fatta sempre di quelle paure di cui avevo letto negli scritti di Freud.

Mi convinsi presto che tremare è l’esperienza umana che esprime il nostro “io” nella sua condizione di massima fragilità.

Questa condizione umana arriva improvvisa (lei ha un tumore) ed è dominatrice. Il nostro “io”, soggiogato da questa incursione, perde momentaneamente il controllo. Questa conditio è capace di attivare due percorsi adattivi nei due mondi che ci compongono: la via biologica e quella del pensiero. La prima ci porta a combattere o fuggire. La seconda è, invece, quella che, davanti all’incertezza, produce speranza o rassegnazione.  

Su quest’ultima via rifletteremo con maggiore attenzione. Non siamo i primi e per fortuna non saremo gli ultimi. San Paolo scriveva ai Corinzi e ai Filippesi «adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore» esprimendo così il concetto della speranza nella fede. Kierkegaard, nella sua opera più celebre (1843) utilizzava la vicenda di Abramo e Isacco per affrontare i problemi fondamentali della filosofia morale e dell’etica. Abramo, pronto al sacrificio del suo unico figlio, attraversa in questa vicenda il timore ed il tremore proprio della condizione umana. La paura si risolve per mezzo della via del pensiero. Con fede (speranza) Abramo si affida alla volontà del suo Dio che lo ricambia risparmiando Isacco. 

Ecco rivelato l’umanesimo clinico che: (i) ri-conosce e rivela, alla scienza e al medico che la applica, la dimensione umana del tremore nella malattia e della fede nella cura; (ii) ri-conosce la potenza della speranza nella relazione tra “Abramo-paziente” ed il suo presunto “Dio-medico”; (iii) mai usa o abusa di un paternalismo che considera obsoleto; (iv) accoglie e cura con la parola prima ancora delle medicine o del coltello.  

La scienza medica ha avuto nel suo evolvere un forte disequilibrio nella relazione terapeutica: da un lato la paura e dall’altra la conoscenza.

Dagli anni ’60 del 1900 si è ritenuto possibile un nuovo equilibrio (nascita delle Medical Humanities), dove prendersi cura non significa solo curare, dove il tremore svanisce o si attenua in una relazione più che mai terrena, tra uomini, fatta da un lato di scienza e di conoscenza e dall’altro di aspettative, racconto, desiderio e volontà.

Vorrei chiudere con una poesia. Fine ‘700. Lisbona viene distrutta da un terribile terremoto. Un tremore inatteso che portò a vivere la paura come una risorsa, di speranza e rinascita. Una metafora suggerita da Voltaire che ci aiuta a comprendere come vive la malattia chi ne è afflitto, quasi meglio di come fece Freud. Ci aiuta soprattutto a mirare le intenzioni quando intendiamo prenderci cura della persona da curare.  

 

Poema di Voltaire sul terremoto di Lisbona (estratto)

Poveri umani! E povera terra nostra!
Terribile coacervo di disastri!
Consolatori ognor d’inutili dolori!
Filosofi che osate gridare tutto è bene,
venite a contemplar queste rovine orrende:
muri a pezzi, carni a brandelli e ceneri.
Donne e infanti ammucchiati uno sull’altro
Sotto pezzi di pietre, membra sparse;
centomila feriti che la terra divora,
straziati e insanguinati ma ancor palpitanti,
sepolti dai lor tetti, perdono senza soccorsi,
tra atroci tormenti, le lor misere vite. 

[…] 

Credetemi, allorquando la terra c’inghiotte negli abissi
Innocente è il lamento e legittimo il grido:
ovunque avvolti in una crudele sorte,
in furori malvagi e imboscate mortali,
subendo l’attacco di tutti gli Elementi:
compagni dei miei mali, possiamo pur lamentarci.
È l’orgoglio, direte, il ripugnante orgoglio
Che ci fa dir che il mal poteva esser minore.
Interrogate, orsù, le sponde del mio Tago,
frugate, orsù, fra le macerie insanguinate,
chiedete ai moribondi, in preda a gran terrore,
se è l’orgoglio che grida: “aiutami o cielo!” 

[…] 

Del tutto io non son che un picciol pezzo:
è ver; ma gli animali condannati a vivere,
tutti soggetti ad una stessa legge,
vivono nel dolore e muoion come me. 

[…] 

“Tutto è bene” gridate con stridula voce:
l’universo vi smentisce, e il vostro stesso cuore
cento volte ha smentito il vostro errore. 

Elementi, animali, umani tutto è in guerra.
Confessiamolo pure, il male è sulla terra:
la ragione profonda è sconosciuta. 

[…]  

Patiamo qui dolori passeggeri;
la morte è un bene che alle nostre miserie pone fine;
ma quando usciremo da quest’orrendo passaggio
chi di noi potrà dir di meritare la felicità? 

Quale che sia la nostra decisione, c’è da tremare infatti:
nulla conosciamo e nulla è senza tema.
Muta è Natura e invan la interroghiamo:
ci occorre un Dio che parli all’uomo;
spetta a lui di spiegar l’opera sua,
di consolare il debole e illuminare il saggio. 

[…] 

Che sono? Dove sono? Dove vado? E donde vengo?
Atomi tormentati in questo ammasso di fango,
che la morte inghiotte e la cui sorte è in gioco;
ma atomi pensanti, atomi i cui occhi
guidati dal pensiero han misurato i cieli:
con tutto il nostro essere tendiamo all’infinito,
eppure non riusciamo a conoscere noi stessi.
Questo mondo, teatro dell’orgoglio e dell’errore,
di disgraziati è pieno che credon tutto bene.
Ognun si duole e geme mentre il bene cerca;
nessuno vuol morir, rinascere nemmeno. 

Eppur nei giorni destinati al dolore,
le lacrime asciughiamo col piacere;
ma il piacere svanisce e passa come un’ombra,
mentre le pene, le perdite e i rimpianti sono tanti.
Il passato non è che spiacevole ricordo,
oscuro è il presente se non c’è avvenire,
se il nulla sepolcrale distrugge l’io pensante.
Tutto ben sarà un giorno: è questa la speranza;
tutto oggi è bene: è questa l’illusione.
I saggi mi ingannavan, solo Dio ha ragione.
Umile nei miei sospiri, prono nei miei dolori,
non me la prendo con la Provvidenza.
Di men lugubre umor fui visto un tempo
Dei dolci piaceri cantar le leggi seducenti.
È cambiato col tempo il mio costume ed in vecchiaia,
partecipe di umana e malintesa debolezza,
cercando un po’ di luce nella notte oscura,
non posso che soffrire senza dir parola. 

Una volta un Califfo, alla fin di sua vita,
al Dio che adorava rivolse una preghiera:
“Ti porto, unico Dio, che limiti non hai,
quel che non hai nel tuo potere immenso:
i difetti, i rimpianti, il male e l’ignoranza.”
Ma aggiungere poteva: la speranza. 

 

Forse in queste ultime quattro righe possiamo trovare la risposta. Forse è questo quello che ognuno di noi porterà dall’altra parte della clessidra. Se così fosse, allora ancor di più come medici dovremmo prendercene cura.

Se mi sbaglio non fa niente, questo è il modo che vorrei, quando il dolore nell’altra parte di me arriverà ad annunciare la morte.

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