In-dipendenti dal pregiudizio
La necessità del dialogo
24 Marzo 2025 – Carcere, Comunicazione, Educazione, EticaTempo di lettura: 12 minuti
24 Marzo 2025
Carcere, Comunicazione, Educazione, Etica
Tempo di lettura: 12 minuti
È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio.
(Albert Einstein)
Il termine pregiudizio, etimologicamente, indica un giudizio formulato prima dell’esperienza, privo quindi di dati sufficienti. Proprio per questa mancanza di validazione empirica, è considerato un giudizio distorto, lontano dalla realtà oggettiva. Francesco Bacone, nel Seicento, classificò le illusioni dello spirito (idola mentis) che ostacolano la vera conoscenza e che andrebbero eliminate per predisporre la mente alla comprensione del mondo in qualità di tabula rasa. Accanto al termine pregiudizio, verso la fine del Settecento nasce il termine stereotipo, inizialmente legato alla tipografia, poi alla psichiatria e infine, nel Novecento, alle scienze sociali grazie a Walter Lippmann. Egli sostenne che la conoscenza della realtà non sia diretta, bensì filtrata da immagini mentali semplificate, rigide e grossolane, nate dall’incapacità umana di gestire la complessità e varietà del mondo. Da qui la tendenza a organizzare informazioni e credenze in schemi stabili, che rendono più velocemente e facilmente comprensibile la realtà.
Stereotipi in carcere
Il concetto di stereotipo, spesso associato a caratteristiche negative attribuite a gruppi sociali svantaggiati, si applica pienamente alla realtà carceraria. Le persone detenute, private della libertà, sono frequentemente oggetto di giudizi semplificati e rigidi, che non solo influenzano la percezione pubblica, ma si riflettono anche sulle politiche penitenziarie e sulle opportunità di reinserimento. All’interno del carcere, gli stereotipi si estendono sia ai detenuti che agli operatori, generando rappresentazioni distorte difficili da modificare. Spesso basati su una conoscenza superficiale o alterata della vita penitenziaria, essi contribuiscono a rafforzare un approccio più punitivo che riabilitativo, ostacolando una visione equa e realistica del sistema carcerario.
Uno dei pregiudizi più diffusi è che “tutti i detenuti siano pericolosi”.
In realtà, la popolazione carceraria è estremamente eterogenea: non tutti hanno commesso reati violenti e molti cercano semplicemente di scontare la propria pena con dignità, sperando in un’opportunità di riscatto.
Un altro luogo comune è che “i detenuti non vogliono lavorare o cambiare”.
Al contrario, numerose esperienze dimostrano che, laddove vengono offerte possibilità concrete di formazione e impiego, molti detenuti colgono l’opportunità con impegno. Più che una mancanza di volontà, spesso è l’assenza di risorse e programmi adeguati a ostacolare il cambiamento.
Allo stesso modo, si sente dire che “tutti i detenuti sono tossicodipendenti o stranieri”.
Sebbene la dipendenza da sostanze sia una problematica diffusa e la presenza di detenuti stranieri sia significativa, la realtà è molto più complessa. In Svizzera il Rapporto Ufficiale dell’ufficio Federale di Statistica (2023) indica che il 70% dei detenuti è straniero, ma questa percentuale varia fra i diversi Paesi. Infatti, secondo il rapporto SPACE I del Consiglio d’Europa relativo al 2021, la percentuale media di detenuti stranieri nelle carceri europee è del 15%, mentre la dipendenza da sostanze coinvolge circa il 30% della popolazione carceraria.
Non solo i detenuti sono vittime di stereotipi, ma anche il personale penitenziario. L’idea che “gli agenti di custodia siano violenti e disumanizzino i detenuti”
non tiene conto del fatto che molti di loro svolgono un lavoro difficile con professionalità e dedizione, spesso in condizioni di stress e sotto organico. Certamente, esistono casi di abusi, ma generalizzare significa ignorare il contributo di chi opera con rispetto delle regole e dell’etica professionale.
Anche gli operatori sociali e sanitari sono spesso bersaglio di pregiudizi. Si dice che “siano ingenui e indulgenti” o che “i medici in carcere si limitino a dare farmaci”,
trascurando il fatto che il loro compito è estremamente delicato e complesso. Il Rapporto OMS sulle cure sanitarie in carcere (2022) evidenzia la complessità dell’assistenza sanitaria penitenziaria, che include la gestione di malattie croniche e la salute mentale.
Non mancano poi gli stereotipi sulle condizioni di vita in carcere. L’idea che “il carcere sia un hotel a cinque stelle” è lontana dalla realtà:
sovraffollamento, strutture fatiscenti, mancanza di programmi rieducativi adeguati e condizioni igieniche precarie sono problemi diffusi. In Italia, i dati del Ministero della Giustizia (2023) indicano che il tasso di sovraffollamento è del 107%, mentre in Svizzera è del 96% secondo i dati dell’Ufficio Federale di Statistica (2023). Più che un luogo di comodità, per molti il carcere è uno spazio di marginalizzazione e privazione.
Allo stesso tempo, si dice spesso che “le carceri siano scuole di criminalità” e che “le pene siano troppo leggere”.
Sebbene il rischio di riproduzione della criminalità all’interno del carcere esista, la soluzione non sta nell’inasprimento delle pene, ma nella costruzione di percorsi alternativi che riducano la recidiva. Studi dimostrano che misure come il lavoro, l’istruzione e il reinserimento sociale hanno un impatto molto più significativo sulla riduzione della criminalità rispetto alla mera detenzione. I Paesi con sistemi più rieducativi (come Norvegia e Paesi Bassi) registrano i tassi di recidiva più bassi in Europa.
Infine, il pregiudizio secondo cui “il carcere risolve la criminalità”
ignora il fatto che la maggior parte delle problematiche sociali che conducono al reato – povertà, disagio psichico, dipendenza, marginalizzazione – non trovano soluzione dietro le sbarre. Senza interventi strutturali, il rischio è quello di un sistema che punisce senza curare, escludendo invece di reintegrare.
Sfidare questi stereotipi e superare le visioni semplicistiche permetterebbe di costruire un sistema penitenziario più giusto, capace di garantire sicurezza e, al tempo stesso, di offrire reali opportunità di cambiamento.
Processi cognitivi nel tentativo di semplificare il mondo
Se davvero ci accostassimo all’altro come tabula rasa, dovremmo ogni volta vagliare un’infinità di informazioni prima di scegliere come agire. Sarebbe un percorso lento e impraticabile. Così la mente, nel suo incessante bisogno di ordine, riduce, semplifica, incasella.
Attraverso la categorizzazione, la mente riduce la complessità del mondo in schemi riconoscibili. Così, vediamo gli altri non per ciò che sono, ma per il gruppo a cui li associamo, rischiando di trasformare la semplificazione in stereotipo. Parallelamente, attraverso l’inferenza, la mente ci spinge a trarre giudizi rapidi, colmando i vuoti con supposizioni. È un’abilità necessaria, ma fragile, che può condurci a distorsioni e pregiudizi.
Solo la consapevolezza di questi meccanismi ci permette di guardare oltre le ombre della mente e di affinare il nostro sguardo, di distinguere fra realtà e preconcetto, per riconoscere l’altro nella sua unicità e restituire all’incontro la sua verità.
Operatori in carcere e gestione del pregiudizio attraverso principi di comportamento etico
Sul pregiudizio si fonda l’identità di ognuno di noi ed abbandonare i nostri pregiudizi (non averne del tutto abbiamo appreso come sia impossibile), sarebbe in qualche modo abbandonare la nostra identità, sentirci persi e non identificati in un pensiero. Pur non rinnegando i nostri pregiudizi, dovremmo però permettere loro di modificarsi nel tempo non rimanendo fermi e intatti come lapidi.
Tuttavia, il luogo all’interno del quale si può modificare il pregiudizio è prima di tutto il dialogo.
Così come il diametro ( διά-μετρος) rappresenta la massima distanza tra due punti di un cerchio, così il dialogo (διά-λογος), rappresenta la massima distanza tra due pareri, rendendo il compito ardimentoso ed estremamente complicato. Il dialogo nasce laddove si abbia l’esigenza, la voglia e la predisposizione a confrontarsi con chi ha idee diametralmente opposte alle nostre, presupponendo che l’idea dell’altro possa essere anche migliore e più valevole della nostra, mettendo quindi in gioco la possibilità di voler rivedere la propria posizione.
Ad aiutare poi, in modo specifico e mirato, l’operatore sanitario nella gestione del pregiudizio, vengono in soccorso i codici deontologici delle rispettive professioni, che ne modellano l’agire. Nella versione attuale della Dichiarazione di Ginevra (adottata dall’Associazione Medica Mondiale), che è considerata una versione contemporanea del Giuramento di Ippocrate, troviamo un chiaro riferimento all’uguaglianza nel trattamento dei pazienti: «Non permetterò che considerazioni di età, malattia o disabilità, credo, origine etnica, genere, nazionalità, affiliazione politica, razza, orientamento sessuale, status sociale o qualsiasi altro fattore interferiscano tra il mio dovere ed il mio paziente».
Anche i codici deontologici nazionali, come quello della FNOMCeO in Italia o della FMH in Svizzera, ribadiscono l’equità delle cure. Il codice svizzero, ad esempio, afferma che: «Il medico deve trattare tutti i pazienti con equità e senza discriminazioni di alcun genere». Lo stesso principio è sancito nel codice deontologico infermieristico, che all’articolo 3 sottolinea il dovere di rispetto e non discriminazione: «L’infermiere cura e si prende cura della persona assistita nel rispetto della dignità, della libertà, dell’eguaglianza e delle sue scelte di vita, senza alcuna distinzione sociale, di genere, di orientamento sessuale, etnica, religiosa e culturale».
L’origine di stereotipi e pregiudizi e l’orientamento al comportamento etico dovrebbe averci fatto comprendere come il pregiudizio sia sempre esistente, ma che è responsabilità dell’operatore mutarlo nel tempo. Albert Einstein, in una sua famosa citazione, disse: «La libertà consiste nell’indipendenza del pensiero dalle limitazioni dei pregiudizi sociali».
E se c’è una possibilità di essere liberi in carcere, dobbiamo alla nostra professione di provarci.
Bibliografia
Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (2002, aggiornato 2018). Esercizio della medicina con i detenuti.
Associazione Medica Mondiale (2017). Dichiarazione di Ginevra.
Bodenmann, P., Jackson, Y., Vu, F., & Wolff, H. (2022). Vulnérabilités, diversités et équité en santé. RMS Editions.
FMH (2022). Codice Deontologico Medico Svizzero. Foederatio Medicorum Helveticorum.
FNOMCeO (2014). Codice di Deontologia Medica. Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri.
FNOP (2019). Codice deontologico delle professioni infermieristiche.
International Council of Nurses (2012). The ICN Code of Ethics for Nurses.
Légal, J-B., & Delouvée, S. (2015). Stéréotypes, préjugés et discrimination. Paris: Dunod.
Wolff, H., & Niveau, G. (2019). Santé en prison. RMS Editions.
Mazzara, B. (1997). Stereotipi e pregiudizi.Il Mulino.
Tentori, T.(1962). Il pregiudizio sociale. Universale Studium.
Cosa ne pensi?
Condividi le tue riflessioni
e partecipa al dialogo
2 risposte a “In-dipendenti dal pregiudizio”
-
Un contributo interessante, chiaro e molto apprezzato 🙂
-
Caro Siva, grazie mille
Lascia un commento