La centralità dell’etica e i rischi delle consulenze
Per un’auto-analisi dei pregiudizi dei membri di una Commissione di etica clinica che si occupa di persone con disabilità.
5 Maggio 2025 – Osservatorio, Disabilità, Educazione, EticaTempo di lettura: 5 minuti
5 Maggio 2025
Osservatorio, Disabilità, Educazione, Etica
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Parlare di “centralità dell’etica” in una Commissione di etica clinica significa riconoscere che ogni deliberazione, ogni confronto, ogni parere formulato, nasce dall’esigenza profonda di custodire la dignità dell’essere umano, in tutte le sue fragilità. Nel momento in cui ci si siede intorno a un tavolo per riflettere su un caso clinico complesso, ogni membro della Commissione entra in quel processo non solo con la propria competenza tecnica o normativa, ma anche con le proprie convinzioni profonde, i propri timori, i propri valori.
In questa prospettiva, la vera sfida etica non è solo l’analisi del caso, ma anche l’autoanalisi: sto davvero ascoltando oppure sto cercando conferme alle mie convinzioni?
Non si tratta di negare i propri pregiudizi, ma di renderli visibili, nominarli, metterli in discussione. Quando l’etica è davvero centrale, la Commissione non diventa tribunale, ma spazio dialogico, che approfitta della pluralità dei membri quale garanzia di maggiore giustizia, di rispetto per le diversità culturali, di attenzione per l’unicità di ogni storia clinica, essendo cosciente che i diritti umani sono universali, ma si devono modulare nelle situazioni concrete, dove la sofferenza non è mai teorica e le decisioni sono sempre parziali, a volte dolorose, creando spazi in cui si possa parlare anche di ciò che non è risolvibile, ma solo accompagnabile.
In fondo, l’etica non è solo ciò che decidiamo, ma soprattutto come lo decidiamo e con quale sguardo osserviamo l’altro
(per Paul Ricoeur in Sé come un altro del 1990, l’altro è sempre un enigma da interpretare, mai una semplice evidenza).
Quando si parla di etica clinica applicata alla disabilità, ci si muove in un territorio umano complesso, dove le categorie astratte rischiano di scontrarsi con vite vissute, con corpi segnati da differenze e identità sociali non sempre riconosciute. Per Martha Nussbaum, nel suo Frontiers of Justice del 2006, valutare con giustizia significa spingerci a guardare alla disabilità come a una condizione che chiede potenziamento delle possibilità, non giudizi di valore, perché la vera cura passa attraverso la restituzione di libertà e di cittadinanza, non attraverso protezioni paternalistiche (Franco Basaglia in L’istituzione negata del 1968).
La Commissione etica, quindi, deve essere uno spazio dialogico, dove le differenze tra i membri sono una risorsa e non un ostacolo e dove la lentezza, il dubbio, e il rispetto sono pratiche fondamentali.
Se i membri non coltivano una vigilanza critica, se mancano di consapevolezza rispetto ai propri pregiudizi, espongono le decisioni della consulenza finale a insidie quali un paternalismo mascherato da protezione, una riduzione della persona al deficit, un’imposizione di modelli normativi di “qualità della vita”, a una invisibilizzazione delle persone con disabilità nei processi decisionali, a uno sbilanciamento tecnicistico o giuridico, a una distorsione nella valutazione dell’autonomia reale e anche a una marginalizzazione delle famiglie e dei curanti. La “neutralizzazione” critica dei pregiudizi è una parte fondante del lavoro etico: non si tratta di negare chi siamo, ma di esercitare una vigilanza etica costante su noi stessi. In pratica, occorre favorire il pluralismo interno alla Commissione senza ricercare obbligatoriamente un’armonia artificiale, ma sostenendo sia il “disagio fecondo”, dando spazio alle posizioni marginali, sia il silenzio deliberativo.
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