La dimensione etica della relazione medico-paziente in carcere

Quando curare significa restare, anche nel limite 

«Curare chi ti è grato è semplice. Curare chi ti sfida è un atto etico». 
Paul Farmer, 2005

 

Nel contesto penitenziario, la relazione tra medico e paziente si sviluppa su un crinale etico complesso, dove cura e controllo si intrecciano in modo inestricabile. L’ascolto si confronta con la diffidenza, la responsabilità si misura costantemente con i limiti imposti dall’istituzione. Il medico non agisce in uno spazio neutro: si muove in un ambiente intriso di tensioni, regole rigide, gerarchie e aspettative spesso contrastanti. In questo scenario, ogni gesto, ogni parola, ogni silenzio può assumere molteplici significati, talvolta ambigui, sempre carichi di implicazioni etiche. 

In carcere, l’atto di cura si confronta fin da subito con una condizione di ambivalenza strutturale:

ciò che nasce come intervento terapeutico può essere percepito come esercizio di potere; ciò che si intende come protezione può essere vissuto come complicità. Il medico, dunque, è chiamato non solo a curare, ma a interrogarsi continuamente sulla portata etica del proprio agire. La relazione terapeutica, in questo contesto, si configura come una presenza consapevole e responsabile. In un luogo di costrizione, perdita di autonomia e isolamento affettivo, il semplice “esserci” come professionisti della salute rappresenta già una presa di posizione etica. L’ascolto, però, deve essere profondo ma accorto, empatico ma lucido: capace di accogliere, ma anche di contenere; di sospendere il giudizio, pur restando ancorato alla realtà clinica e istituzionale. 

Non tutti i pazienti, infatti, desiderano essere aiutati.

Alcuni testano il medico, altri simulano o amplificano i sintomi, altri ancora strumentalizzano la relazione sanitaria per ottenere piccoli vantaggi: una visita per cambiare aria, un farmaco per avere attenzioni, un colloquio per rompere la solitudine. Tuttavia, la prospettiva etica esige di non ridurre mai l’individuo al solo comportamento manipolatorio. Anche dietro una finzione può celarsi un bisogno autentico di riconoscimento, un desiderio inespresso di attenzione. È la filosofa Chiara Lalli a ricordarci che: «La dignità non è una ricompensa per i meritevoli, ma una condizione che va riconosciuta anche a chi ha sbagliato» (Lalli, 2014). 

In carcere, la fiducia è fragile e si costruisce lentamente. Non può essere imposta, ma va nutrita ogni giorno attraverso coerenza, rispetto e continuità. È fatta di piccoli gesti, di sguardi che non si abbassano, di promesse mantenute. Fidarsi non significa allentare la guardia, così come diffidare non deve diventare un alibi per sottrarsi alla cura. In questo equilibrio instabile, è necessaria una tolleranza attiva all’ambiguità, una disponibilità che non scade nell’ingenuità e una prudenza che non si traduce in distanza. 

Forse più che in altri ambiti, il medico in carcere è un testimone silenzioso. Raccoglie frammenti di storie, ascolta confidenze inattese, interpreta silenzi densi di significato.

È una forma di custodia invisibile dell’umano, un diario muto di vite sospese che non trovano altrove uno spazio in cui essere accolte.

Anche nella nostra realtà ticinese, spesso mi trovo ad essere un archivio vivo di solitudini e speranze. Raccogliere le paure, le fragilità, le rabbie che non possono essere espresse altrove è una forma di cura non codificata, ma profondamente etica. Se l’infermeria avesse voce, direbbe che lì non si emettono giudizi, non si comminano pene, ma si resta. Si resta per vedere, per ascoltare, per accogliere:

«Il riconoscimento è la prima forma di cura. Non serve a cambiare chi hai davanti, ma a ricordargli che è ancora umano» (Starace, 2011). In carcere, questa affermazione assume una forza particolare. Riconoscere l’altro non è un gesto di indulgenza, ma un atto di resistenza morale. Significa vederlo al di là del reato, delle maschere, delle strategie difensive. È un modo di abitare la relazione che va oltre la gestione del sintomo, per accedere alla dimensione più profonda del soggetto: quella che chiede di essere vista, nominata, confermata. 

L’etica della cura non risiede nella perfezione tecnica, ma nella qualità della presenza.

È nella capacità di restare che si misura la responsabilità del medico: restare nel dubbio, nella frustrazione, nel limite. Non si tratta di salvare, ma di accompagnare; non di consolare, ma di esserci. Accettare il proprio limite non è segno di rinuncia, ma condizione della cura stessa. Talvolta, proprio quando il paziente sembra non chiedere nulla, affida al medico un pezzo della propria verità. Lo fa tra una visita e l’altra, in corridoio, al “prato verde”, dove il controllo si allenta e la parola può fluire. Ricordo ancora un uomo che, passando davanti ad altri detenuti, mi disse: «Dottoressa, lei è l’unica qui dentro che mi sorride e mi guarda negli occhi, grazie». Un altro, dopo mesi di silenzio, mi fermò lungo il corridoio: «Sa, ieri era il compleanno di mio figlio. Dopo quattro anni l’ho risentito. Volevo solo farvi sapere che adesso vedo la luce in fondo al tunnel. Grazie per esserci, anche quando non lo meritiamo». 

Queste parole, lasciate come oggetti fragili, non chiedono soluzione, ma ancora una volta presenza.

Nel mio lavoro quotidiano in carcere, ho spesso la sensazione che il paziente mi stia chiedendo, più che una cura immediata, una conferma della propria esistenza.

Non è raro che il dolore fisico si accompagni a un bisogno più profondo di essere riconosciuto, ascoltato, considerato nella propria specificità. A volte questo avviene con parole esplicite, più spesso attraverso gesti, silenzi, richieste implicite. In quei momenti capisco quanto la medicina penitenziaria sia prima di tutto una pratica relazionale. Il riconoscimento, in questo contesto, non è mai semplice. Mi capita talvolta di uscire dall’ambulatorio con la sensazione di non aver fatto abbastanza, o di essere stata strumentalizzata. Ma anche in quei momenti, quando riesco a restare fedele a una presenza che non si ritrae, mi sembra che qualcosa accada comunque. Forse non una cura, ma una forma discreta di riconoscimento. E a volte, è già molto. 

Nel carcere, dove la condanna ha già pronunciato un verdetto pubblico sulla persona, il gesto del riconoscere assume un significato tanto più forte quanto più discreto. Riconoscere non vuol dire negare la responsabilità dell’altro né sminuire la gravità dei fatti commessi, ma significa non confondere l’atto con l’intero dell’identità. Significa affermare che ogni essere umano resta sempre, al di là del reato, un soggetto capace di senso, di parola, di relazione. È proprio in questo spazio, fragile, ma generativo che si colloca la responsabilità etica del medico, chiamato non solo a curare, ma a testimoniare con la propria presenza che l’altro esiste ancora come persona degna di attenzione. Nella sua riflessione, il filosofo francese Ricoeur ricorda che: «La giustizia non si limita a dare a ciascuno il suo, ma implica il riconoscimento dell’altro nella sua unicità e fragilità». 

Nel contesto penitenziario, la giustizia non si realizza solo nella norma, ma nel modo in cui si guarda, si ascolta e si resta presenti.

È una giustizia di prossimità, che si esercita nei luoghi più quotidiani, l’ambulatorio, il corridoio, la sala infermeria, si misura nella capacità del medico di non arretrare, anche quando il paziente provoca o respinge. Resistere al cinismo, non rifugiarsi nel tecnicismo, è già affermare il valore umano della cura. Riconoscere l’altro significa anche riconoscere sé stessi come professionisti non onnipotenti, ma presenti, capaci di abitare il limite con consapevolezza. Anche un piccolo gesto può diventare un atto di resistenza etica contro la disumanizzazione. In questa tensione, la relazione medico-paziente si fa spazio di riconoscimento reciproco, e il pensiero di Ricoeur trova piena attuazione: continuare a vedere, ogni giorno, l’essere umano oltre il reato. 

L’etica della relazione medico-paziente in carcere non si fonda su soluzioni definitive, ma su una tensione costante tra ascolto autentico, responsabilità e limiti. Il medico non è un giudice, né un confidente, né un redentore. È un professionista della cura che sceglie ogni giorno di esserci, anche quando tutto attorno invita alla distanza, all’indifferenza, al disimpegno. Curare in carcere è un esercizio quotidiano di permanenza: restare anche quando si è messi alla prova, quando il paziente delude, manipola o rifiuta. È credere che ogni gesto di cura possa ancora contenere, nonostante tutto, un significato umano. Ed è in questa cura discreta, in questa resistenza etica senza clamore, che si gioca la vera dimensione della medicina penitenziaria. 

Bibliografia

Farmer P. Pathologies of power: health, human rights, and the new war on the poor. Berkeley: University of California Press; 2005. 

Lalli C. C’è chi dice “no”: dalla disobbedienza civile alla responsabilità personale. Milano: Il Saggiatore; 2014. 

Ricoeur P. Soi-même comme un autre. Paris: Éditions du Seuil; 1990. 

Starace G. Psicopatologia e detenzione: teoria e prassi della cura psichiatrica in carcere. Milano: FrancoAngeli; 2011. 

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7 risposte a “La dimensione etica della relazione medico-paziente in carcere”

  1. Sibilla Anna Teresa Salvadeo

    Bellissima descrizione di questo lavoro che apprezzo ogni giorno di più. Non potrei più non restare , non potrei più lavorare senza questo esercizio costante di etica e umanità . Ringrazio Teresa e tutti i colleghi che rendono ogni giorno possibile questo restare pieno di significato.

    1. Teresa Salamone

      Grazie Sibilla per la sensibilità, l’umanità e l’attenzione con cui guardi al nostro lavoro.

  2. Andrea Cappelli

    Un testo profondamente umano e necessario. Riesce a tenere insieme lucidità e vulnerabilità, etica e quotidianità, senza mai cadere nel retorico. Si sente che nasce dall’esperienza vissuta e da uno “stare” vero accanto all’altro. Colpisce e resta! Grazie Teresa.

  3. Teresa

    Grazie Andrea, per me è importante dare voce all’esperienza vissuta, con sincerità e rispetto.

  4. Linda Motti

    Mi chiamo Linda e sono stata infermiera in carcere. In questo stupendo articolo ritrovo tutta me stessa e il modo in cui vivevo ciò che è qui scritto, nel mio lavoro 24h su24 a contatto con i carcerati con cui, proprio per i suddetti motivi descritti, ho avuto un rapporto bellissimo , di stima e fiducia reciproca. Leggendo il titolo mi sono subito detta: “ma quando mai trovi un medico in carcere? Quando mai uno di loro è mai andato di persona nei padiglioni a vedere ciò che succedeva? Molto raramente. Ciò che qui viene descritto nella relazione medico è carcerato, lo si può applicare pienamente anche agli infermieri. Tutto dipende anche da che tipo di medico o infermiere è in servizio in quel momento. C’è chi lavora in carcere solo per il mero stipendio e chi vi lavora anche per i propri valori umani. Purtroppo, essendo il carcere una ISTITUZIONE TOTALE dove esiste anche tanta violenza fisica e psichica,prevalentemente gestita dalla polizia penitenziaria, con i suoi meccanismi e le sue dinamiche che sono assolutamente inconcepibile e incomprensibili per chi con il carcere non ha nulla a che fare, spesso mi sono trovata a vivere situazioni durissime a cui sottostanno medici e guardie penitenziarie. Chi vuole lavorare con coscienza, umanità, motivazione per stabilire un contatto umano con i carcerati, spesso viene isolato, mobbizzato dagli stessi colleghi, allontanato e anche licenziato. Si preferisce sempre più avere personale giudicante, inumano, aggressivo e assolutamente menefreghista. Cosa si potrebbe fare? Fingere di essere come coloro e portare la propria sensibilità e umanità anche in piccolissimi gesti. Lavorare così però è alienante e molto angosciante.

  5. mattia lepori

    Grazie per questo testo che è unisce opportuna e profonda riflessione con sincera e toccante testimonianza.

  6. Tonino D’Angelo

    Dottoressa, sono un medico in pensione. Mi chiamo Tonino D’Angelo e sono stato primario per tantissimi anni del Sert, dipendenze patologiche di Foggia. Ora vivo a Reggio Emilia dove ho un famigliare in carcere nelle Atsm e vorrei avere tanto un confronto con Lei

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7 pensieri su “La dimensione etica della relazione medico-paziente in carcere

  1. Sibilla Anna Teresa Salvadeo dice:

    Bellissima descrizione di questo lavoro che apprezzo ogni giorno di più. Non potrei più non restare , non potrei più lavorare senza questo esercizio costante di etica e umanità . Ringrazio Teresa e tutti i colleghi che rendono ogni giorno possibile questo restare pieno di significato.

    • Teresa Salamone dice:

      Grazie Sibilla per la sensibilità, l’umanità e l’attenzione con cui guardi al nostro lavoro.

  2. Andrea Cappelli dice:

    Un testo profondamente umano e necessario. Riesce a tenere insieme lucidità e vulnerabilità, etica e quotidianità, senza mai cadere nel retorico. Si sente che nasce dall’esperienza vissuta e da uno “stare” vero accanto all’altro. Colpisce e resta! Grazie Teresa.

  3. Linda Motti dice:

    Mi chiamo Linda e sono stata infermiera in carcere. In questo stupendo articolo ritrovo tutta me stessa e il modo in cui vivevo ciò che è qui scritto, nel mio lavoro 24h su24 a contatto con i carcerati con cui, proprio per i suddetti motivi descritti, ho avuto un rapporto bellissimo , di stima e fiducia reciproca. Leggendo il titolo mi sono subito detta: “ma quando mai trovi un medico in carcere? Quando mai uno di loro è mai andato di persona nei padiglioni a vedere ciò che succedeva? Molto raramente. Ciò che qui viene descritto nella relazione medico è carcerato, lo si può applicare pienamente anche agli infermieri. Tutto dipende anche da che tipo di medico o infermiere è in servizio in quel momento. C’è chi lavora in carcere solo per il mero stipendio e chi vi lavora anche per i propri valori umani. Purtroppo, essendo il carcere una ISTITUZIONE TOTALE dove esiste anche tanta violenza fisica e psichica,prevalentemente gestita dalla polizia penitenziaria, con i suoi meccanismi e le sue dinamiche che sono assolutamente inconcepibile e incomprensibili per chi con il carcere non ha nulla a che fare, spesso mi sono trovata a vivere situazioni durissime a cui sottostanno medici e guardie penitenziarie. Chi vuole lavorare con coscienza, umanità, motivazione per stabilire un contatto umano con i carcerati, spesso viene isolato, mobbizzato dagli stessi colleghi, allontanato e anche licenziato. Si preferisce sempre più avere personale giudicante, inumano, aggressivo e assolutamente menefreghista. Cosa si potrebbe fare? Fingere di essere come coloro e portare la propria sensibilità e umanità anche in piccolissimi gesti. Lavorare così però è alienante e molto angosciante.

  4. Tonino D'Angelo dice:

    Dottoressa, sono un medico in pensione. Mi chiamo Tonino D’Angelo e sono stato primario per tantissimi anni del Sert, dipendenze patologiche di Foggia. Ora vivo a Reggio Emilia dove ho un famigliare in carcere nelle Atsm e vorrei avere tanto un confronto con Lei

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