La famiglia che cura, la famiglia curata, la famiglia che si cura

Terre di ghiaccio, terre di fuoco, terre di vento 

Testo presentato in parte al 25esimo Convegno sul tema delle famiglie curanti, organizzato dalla Fondazione psico-oncologica e della Associazione Triangolo (2024). 

Che cosa mette in scena la Cura quando incontra la famiglia? La Cura e la famiglia condividono l’esperienza della vita e del vivere, ma anche la tragedia del morire. Appartengono allo stesso destino, quello del nascere e delle generazioni e quello della finibilità della vita. La Cura che trova “casa” nella famiglia e nella comunità è insieme amore di sé e dell’altro e inquietudine di fronte al suo essere testimone dell’esilio dell’esistenza.

La Cura nasce là dove la tormenta e l’angoscia del vivere si fanno più intense, là dove l’uomo vive la sua vertigine, il suo incessante morire.

Ma proprio là, la Cura è capace di dare una torsione al destino verso una nuova destinazione, all’esilio che si trasforma in esodo, nutrita dalla speranza e dal calore della forte tenerezza di un incontro, accogliendo il suo volto più solare. In questo suo essere generativa è gesto poietico, che trova nella sollecitudine e nella preoccupazione nei confronti dell’Altro e dell’Altrui la sua fondazione. Sollecitudine come amorevolezza, tenerezza, fratellanza, ma anche attenzione, accuratezza, coscienziosità, premura.  

Di che cosa parla l’incontro tra Cura e famiglia? La Cura è un teatro delle genealogie, in essa si concentrano non solo le storie di vita e di malattia dei malati, delle loro famiglie e dei loro curanti, ma anche la storia di una comunità. È la scena in cui le rappresentazioni e i fantasmi di salute e di malattia, di guarigione e di salvezza individuali e collettivi si intrecciano, costruiscono storie e si fanno azione, scelte e responsabilità. Di come una comunità in un determinato tempo storico si pone e tratta le domande fondamentali dell’esistere. La Cura è come un grande libro che raccoglie la tragedia dell’esistenza, la sua fragilità e i suoi ideali di guarigione, di salvezza, il suo confrontarsi con la morte. Mette in scena il confronto con il tempo che fugge inesorabile, con il tempo sospeso nell’attimo di un’attesa (di una diagnosi), con il tempo che sta dinnanzi a noi con il suo carico di già vissuto e dietro a noi con il suo futuro. Mette in scena il confronto con il corpo, il suo esilio permanente nella malattia e l’illusione di poterlo dimenticare, con la felicità del suo temporaneo sottrarsi al destino, le parole dei suoi tanti dialetti. Mette in scena il confronto con gli abissi della mente, il suo abitare in un altrove che diviene sovente un altrui doloroso e alieno con i suoi camuffamenti e e i suoi svelamenti. Mette in scena il suo confronto con le chiusure e le aperture al mondo. Il suo confronto infine con la finitezza e la morte. Luogo insondabile da dove viene, come scrive Franz Rosenzweig, tutto è il sapere del tutto. «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto».

Sulla scena della Cura avviene infatti il confronto con l’esilio esistenziale, tra la nostalgia del ritorno a casa e la scoperta che la casa è perduta per sempre, inabitabile o sospesa come nei versi montaliani della Casa del doganiere.

La famiglia all’incontro con la Cura e del suo farsi cura, essere cura, divenire cura, avere cura, preendersi cura, racconta storie, che danno identità e ospitalità nel cammino della vita. 

La Famiglia è testimone del tempo. La famiglia al di là dalle sue innumerevoli mutazioni rimane testimone del tempo, che scorre, che incide le sue tracce nel nostro personalissimo libro.

Luogo della memoria, del ricordo, del dolore, ma anche di sempre nuove storie, la famiglia resta per noi, viandanti a volte smarriti nel mondo, casa della vita.

Vi é un tempo della vita in cui il dialogo con la morte si fa più ravvicinato, più intenso, più drammatico. 
Vi é un tempo della vita in cui le domande dell’uomo si fanno più radicali, più essenziali, lo sguardo più estraniato verso un orizzonte, che si perde sino a smarrirsi.
Vi é un tempo della vita, come in quegli straordinari versi di Celan, «nei fiumi, a nord del futuro» in cui «io getto la rete che tu, / indugiando, fermi / con ombre scritte/da pietre».
Vi é un tempo dell’uomo in cui la radicale invisibilità e l’abisso profondissimo dell’origine si riflette dentro le solitudini della morte.
Vi é un tempo dell’uomo in cui la fame di amore, di solidarietà, di presenza e di testimonianza da parte dell’altro uomo diviene segno della vita, traccia di una memoria, che non si spegne disumanamente nel nulla.
Vi é un tempo dell’uomo in la cura del dolore, il prendersi cura degli affetti, il lavoro attorno al lutto può allontanare la disperazione muta della sofferenza e aprire ad una possibile ultime serena e quieta stagione della vita. 

È di questo tempo che si odono le parole della Cura e della famiglia. È di questo tempo, che attraversa il corpo ferito e sofferente, il bisogno di spiritualità, i rituali del lutto, il senso del dolore, gli orizzonti delle solitudini, gli esiti organizzativi dell’approccio clinico e sociale, sino all’intensissimo bisogno di amore e dell’ultimo ascolto, che testimonia. 

Ma di che cosa parliamo quando parliamo di famiglia? Domandiamoci allora, esiste ancora una famiglia?

Una famiglia travolta dalla sua fluidità? Una famiglia a volte spezzata, smarrita, perduta. Dobbiamo forse aggiustare il nostro sguardo sulla sua mutevolezza e sua molteplicità, che danno l’impressione di una sua sparizione o almeno di un’agonia antropologica? La famiglia è sempre stata lo specchio dei valori e delle pratiche sociali di una società e nello stesso tempo il palcoscenico del mondo interiore dei suoi attori, come se coesistessero in lei a volte armoniosamente, altre tragicamente, una famiglia esteriore e una famiglia interiore che “abita nel cuore dell’uomo”. È un po’ come il palcoscenico privato su cui si mette in scena la storia visibile e invisibile di tutta una comunità, bagnata dallo spirito del tempo. Essa dunque muta e ciò che oggi consideriamo famiglia, con i suoi valori, i suoi comportamenti, le sue regole di funzionamento, le sue gerarchie sessuali e di potere non è che il prodotto storico di qualcosa. Tuttavia essendo anche il luogo privilegiato della trasmissione generazionale e dell’intimità (anche se su questo concetto lo sguardo storico ci aiuta per non considerare eterno ciò che non lo è) vi é in lei qualcosa di immutabile. Come possono le variegate forme della famiglia contemporanea mantenere l’equilibrio tra ciò che muta e ciò in lei che deve essere conservato garantendone le sue funzioni educative fondamentali? Come si può ancora essere genitori nelle nuove forme di famiglia? Questi i dilemmi, le contraddizioni e le domande, che lo sguardo sulla famiglia del nostro tempo pone.  

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