La fune e la porta

Un racconto a puntate

“La fune e la porta” è il sesto episodio di un racconto a puntate che esplora le tensioni e le possibilità di incontro tra economia e cura. 

Il primo episodio, “La firma e il silenzio”, si trova qui.
Il secondo episodio, “Il latte e la polvere”, si trova qui.
Il terzo episodio, “Palliative care fore business”, si trova qui.
Il quarto episodio, “Il senso dimenticato di una zappa”, si trova qui.
Il quinto episodio, “La visione e la tequila”, si trova qui.

Con uno stile semplice ma denso di simboli, il racconto mette in scena le relazioni che si costruiscono (e si spezzano) attorno alla fiducia, al denaro, al linguaggio degli esperti, alla fragilità di chi si affida. Nel corso delle varie uscite – puntuali, ogni sabato mattina – seguiremo i personaggi e i loro gesti quotidiani per interrogarci su cosa significhi, oggi, prendersi cura in contesti apparentemente lontani dalla medicina.

Al broker tremavano le mani, rigirandosi la locandina tra le mani, sulla soglia dell’ingresso, indeciso se entrare o andare via, magari per sempre. Suo papà era morto qualche anno prima, impiccato ad una trave del capannone. Alle cinque di mattina, non di notte, forse perché al mattino ti arrivano addosso tutti i problemi che dovrai affrontare, la pressione sale, il battito accelera e, allora, o ti piglia un infarto oppure una fune attorno al collo. A suo papà era capitata la seconda, dopo il crac della Parmalat, la crisi del 2008, il fallimento di Lehman Brothers; pure quello ci si era messo di mezzo, tra la vita di suo papà e il resto, della sua esistenza. Una fune a separare un prima e un dopo; dopo, qualcuno da perseguire, prima da inseguire, da corteggiare a scaricare, è un attimo, una questione di centimetri, come la corda che si tende attorno al collo, i piedi a poca distanza da terra.

Il medico che ne aveva constatato il decesso si era commosso quando aveva visto i segni sulla pelle, forse lo conosceva, forse ne percepiva il senso di quello sfumare via: una vita dedicata ad una professione e poi un errore, magari indotto, neppure volontario, persino non strettamente attinente all’attività lavorativa in sé, e tutto inizia ad andare in modo diverso, ti guardano storto in corsia, per le strade, non ti cercano più, come facevano prima, quando ti volevano ai tavoli di Confindustria o tra night e bordelli. È che a loro non era mai andato giù che tu non ci andassi, si intende tra cosce, neon e champagne. Magari qualche volta sì, ma non appartenevi a quel gruppo, tu eri più da trucioli di ferro e silenzi soffiati. Leggere poesia in economia non paga molto. «Non mi hai capito mai» canticchiavi quando finivi di lavorare e risalivi in casa, lasciando giù travi, viti, dolori. A chi ti riferivi?

A questo pensava il broker dalle mani tremanti, con una locandina tra di esse. Non c’era più alcuna penna, solo quel rigirare un foglio ormai spiegazzato tra le dita, come a prendere tempo, aspettare che il tempo tornasse, la possibilità di ricominciare una volta più a casa, scendere in fabbrica, picchiare qualche bullone, saldare un po’ di più, da tenerci su il mondo, insieme, quando il buio ci avvolge dalla solitudine. Si ricordava bene le luci asettiche dell’obitorio, sembravano quelle della sala che lo aspettava, al di là dell’uscio, con domande più che risposte. Il buio, era lontano? Si sussurrò, prima di girare la maniglia della porta a vetri, dopo essere entrato, prima di prendere posto, dopo aver dimenticato la fune, per un istante, un momento, la foto di un silenzio.

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