La giostra

Un racconto sul nascere bene

Non so se sono nata bene.  

Mia madre, ora ormai ultranovantenne, non si ricorda più nulla né mai si è degnata di farci una narrazione attorno a quel giorno. È nata una bella bambinona, annunciata da un’infermiera a mio padre mentre salivano al terzo piano della Clinica Santa Chiara di Locarno, è l’unica frase semplice che mi rimane per completare il primo capitolo della mia nascita.  

Trent’anni dopo quel sabato invernale, giorno di forti nevicate secondo il resoconto della mamma di una mia cara amica, nata un giorno prima di me, sono io che divento protagonista di un racconto che ha segnato due pagine della mia vita. 

Non so se siete nate bene.  

So che siete quel che rimane prima di un’esplosione di felicità, espansioni di attimi di amore incondizionato. E, proprio perché io posso solo immaginare il mio inizio, voglio provare a creare una cornice e uno sfondo al primo tratto che ha delineato le vostre pitture. Ricordo che era un mercoledì di giugno, avevo appena concluso l’ultimo consiglio di classe e la scuola stava per terminare. Io volavo doppiamente felice lungo via Castelrotto perché avevo avuto la conferma dalla mia ginecologa che ero incinta. Un’indescrivibile gioia filtrava nel mio corpo e contemporaneamente sentivo che stavo per attraversare un ponte che mi avrebbe portato nel paese magico della maternità: insomma un incipit rosa e pieno di brillantini. 

Poi piano piano, come succede sempre nelle storie d’amore, sono atterrata nella realtà, più tranquilla e meno fosforescente. Ho vissuto una gravidanza serena e senza grossi problemi, ho lavorato fino all’ultimo momento, contenta di avvicinarmi al parto per liberare finalmente quell’abbozzo di vita. 

Volevo un parto naturale. La mia testa era piena di letture e discussioni nate nei corsi preparto, riassunte in pensieri su come non partorire: no al parto cesareo, no all’epidurale, no al forcipe e via discorrendo lungo questo filone a favore del parto naturale, a cui aderivo e aderisco in parte tuttora. Tuttavia, come spesso succede anche nei romanzi, dopo una situazione iniziale tranquilla, il mio parto fu un susseguirsi di ostacoli che, ora dopo ora, massacrarono senza pietà la mia resistente indole naturale.  

La natura mi abbandonò già dal principio, sostituita da una piccola pillola, atta a provocare il parto, in ritardo rispetto al termine. Non ricordo il nome del medicamento, ricordo però il gesto della mia mano, esitante e triste ma insieme eccitato ed esaltato nel dare finalmente avvio a questa nascita. Poi, la mattina dopo, verso le sette, ecco le prime contrazioni. Finalmente qualcosa si muoveva. Eccome si muoveva. Telefonai a mio marito e ci trasferirono in sala parto, luogo per eccellenza per descrivere la scena centrale. 

Dapprima, come era scritto nella mia mappa mentale, volli entrare nella vasca d’acqua perché lì doveva nascere mia figlia, nell’acqua, il mio elemento. Purtroppo, quell’immersione non mi aiutò, perché, dopo alcuni minuti, fui costretta ad uscire per un attacco di nausea, seguito da un poco poetico vomito della colazione.  

Poi le cose successero abbastanza normalmente: il collo del mio utero si dilatava a stento, per questo la mia ginecologa mi propose l’epidurale, che chiaramente rifiutai subito, preferendo soffrire naturalmente. Verso le cinque del pomeriggio, allo stremo delle mie forze, cedetti per la terza volta e accettai l’epidurale, che si rivelò inaspettatamente come qualcosa di assolutamente favoloso, grazie al quale fui catapultata verso la magica spiaggia del silenzio, del riposo, del piacere. Mi veniva da dire, citando Moretti, Fate a tutti l’epidurale, è una cosa meravigliosa!  

Finché dura … difatti, se ci fossero le parole adatte per esprimere il dolore che provai nell’attimo in cui l’anestesia scomparve, userei un climax condensato di superlativi di cui purtroppo la lingua italiana non dispone. Insomma, soffrii come un cane. Ancora oggi, mentre scrivo, se penso al momento in cui ho sofferto fisicamente di più nella mia vita, ritorno a quei ventidue minuti serali prima delle sette di uno soleggiato martedì d’inizio marzo. Per fortuna, però, ero giunta all’explicit della mia esperienza e l’atto finale, l’espulsione, fu veloce e intenso: in pochi minuti mia figlia venne alla luce. La guardai e la trovai perfetta. 

Due anni dopo, ecco l’altro capitolo, dedicato al parto della secondogenita, la mia scovegni. Era il mese di dicembre quando scoprii di essere nuovamente incinta; la mia gioia fu colorata di faville ed io fui pronta ad affrontare un’altra gravidanza e un altro parto questa volta, senz’altro, meno doloroso e finalmente naturale. 

Come fanno spesso i narratori, intreccio ora gli eventi con una prolessi anticipandovi che anche questa volta il mio ideale di parto si scontrò in modo ancora più crudele contro la realtà. Nei racconti compaiono talvolta gli animali, nel mio voglio parlarvi di Chandra, un gatto nero che mi regalò la mia levatrice, elemento salvifico a cui dovrei dedicare un capitolo intero ma che non poteva non apparire, seppur brevemente, in questo scritto. Chandra, dicevo, alcuni giorni prima del parto mi portò sulla soglia di casa uno schifoso ratto enorme. Mi piace usarlo ora come simbolo per rappresentare l’ombra che avrebbe percorso il mio secondo parto. 

Questa volta, in principio, fu la perfezione. Era una domenica di fine estate; ricordo il cielo terso, l’uva matura sulla pergola e l’odore di un autunno vicino. Le contrazioni iniziarono proprio nel giorno in cui il termine era stato stabilito. Ero tranquilla e serena, anche perché certa che il secondo parto, come tutti mi ripetevano, si sarebbe svolto più rapidamente e senza complicazioni. Erano le otto di sera quando mio marito ed io ci recammo all’ospedale e dopo una rapida visita ci condussero nella sala parto.  

D’ora in avanti i ricordi non sono più così nitidi: so che il collo dell’utero si dilatava ancora faticosamente eppure non mi fecero l’epidurale. So che durante tutta la notte urlai forte per il male dovuto alle contrazioni, tanto che il giorno dopo un’infermiera mi riferì che avevo svegliato alcuni pazienti residenti nello stabile di fronte alla sala parto. So che il tempo passava ritmato da un dolore biblico finché finalmente, dopo dieci lunghissime, interminabili ore, verso le otto del mattino, sentii distintamente i passi della mia ginecologa che, avvicinandosi, mi annunciò che mi avrebbero operata per parto cesareo d’urgenza perché mia figlia non scendeva, insomma non nasceva.  

Ed ecco che il cerchio si stava per chiudere: io nata da parto cesareo partorivo mia figlia nello stesso modo, in quel modo che per me significava far nascere male. Ma non ebbi il tempo né di pensare e nemmeno di parlare. So solo che continuavo a urlare e che l’anestesista mi disse di smettere di gridare.  

E ora, visto che posso farlo, inserisco come digressione mille imprecazioni e le parolacce più sconce che nemmeno conosco per poter finalmente insultare l’anestesista e fargli provare anche per un minuto soltanto l’intensità di quel dolore. 

Poi finalmente, proprio lui, mi fece l’epidurale e in breve tempo nacque mia figlia, una bambinona di 4 chili e 500 grammi: ecco il motivo per cui non sono riuscita a partorirla secondo natura. Ricordo che la mia ginecologa mi disse meravigliata che la placenta pesava un chilo. Un’altra eccezionale notizia, così come la visione di mia figlia.  

Non so se siamo nate bene.  

Mia madre non ha usato parole per raccontarmelo, un silenzio impenetrabile ha sempre circondato il mio venire al mondo. Del giorno in cui sono nata mi rimane una frase, un semplice verso, niente più. Non si parla di qualcosa di cui ci si vergogna.  

Io non ho partorito come avrei voluto, né la prima né la seconda volta, ma ho imparato che non si può controllare qualcosa di così sfuggente e imprevedibile come la nascita. Ho imparato pure che il parto è un semplice atto, un momento sulla linea del tempo: è l’inizio dopo un vuoto pieno di misteri, una spinta verso un mondo pieno di vuoti reali. Poi, ecco spiegarsi la vita dove diventiamo all’improvviso protagonisti, dove ci divertiamo come giocolieri distratti, ci nascondiamo dietro maschere malinconiche, ci innamoriamo come dei folli burattini, recitando sul palco o dietro le quinte il nostro ruolo fondamentale per l’intera regìa. Viviamo, ci raccontiamo e osserviamo le parole svanire davanti alla grande bellezza di questa giostra che è la nostra esistenza. 

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