«La giustizia è una cosa che manca»
Un contributo dal quarto numero dei Quaderni delle Medical Humanities, dedicato alla Giustizia
Paolo Vineis è professore ordinario di Epidemiologia Ambientale presso l’Imperial College di Londra. Svolge ricerca nel campo dell’epidemiologia ambientale e molecolare, ed è stato coordinatore di numerosi progetti finanziati dalla Commissione Europea. Ha al suo attivo più di mille pubblicazioni su riviste come “Nature”, “Science” e “The Lancet” ed è autore di vari libri, tra cui Prevenire (Einaudi, 2020), La salute del mondo (Feltrinelli, 2021), Il capitale biologico (Codice, 2022) e Il sesto continente (Aboca 2023).
Questo articolo è tratto dal quarto numero dei Quaderni delle Medical Humanities, dedicato alla parola Giustizia, in uscita a dicembre 2024. Per maggiori informazioni e per abbonarsi: Quaderni delle Medical Humanities.
16 Dicembre 2024 – Intervista, Emergenza, Quaderni, RicercaTempo di lettura: 15 minuti
16 Dicembre 2024
Intervista, Emergenza, Quaderni, Ricerca
Tempo di lettura: 15 minuti
Professor Vineis, qual è la prima cosa che le viene in mente se le dico giustizia?
La giustizia è certamente una cosa che manca nella nostra società. Iniziando dalle questioni più pratiche, in sanità prima ancora di parlare di giustizia è importante che si chiarisca cosa intendiamo per uguaglianza e disuguaglianza. Esistono un’uguaglianza di accesso e un’uguaglianza di esiti, che sono due cose ben diverse. Uguaglianza di esiti vuol dire assicurare a tutti, indipendentemente dal loro reddito o dalla posizione nella società, gli stessi esiti di salute, il che è diverso dall’assicurare la stessa uguaglianza di accesso ai servizi. L’accesso ai servizi nell’ambito del servizio sanitario nazionale, o sul mercato privato, dipende dalla disponibilità economica, ma anche da quello che si chiama “capitale sociale”, cioè dalla capacità che le persone hanno di servirsi di questi servizi.
A parità di reddito, persone con più “capitale sociale” sono più capaci di muoversi all’interno del sistema sanitario e utilizzare ciò che questo offre.
Se vogliamo assicurare un’uguaglianza di esiti, dobbiamo preoccuparci non soltanto di assicurare un’uguaglianza di accesso che prescinda dal reddito – come avviene nei servizi sanitari universalistici – ma anche fare sì che i cittadini abbiano quello che si chiama “health literacy” – in italiano, alfabetizzazione sanitaria – che permetta loro di ottenere, elaborare e capire informazioni sanitarie di base e accedere ai servizi effettuando scelte consapevoli. Insomma, serve una sufficiente cultura e competenza, che fa parte del “capitale sociale”, per utilizzare adeguatamente i servizi.
L’uguaglianza di esiti può essere articolata ulteriormente in due modi diversi. Primo, bisogna tener conto del “capitale biologico” che ciascuno ha accumulato. Il nostro stato di salute in un dato momento è il frutto della traiettoria di vita precedente. Le persone di classe sociale più bassa a una certa età hanno un “capitale biologico” negativo, che è diverso dal capitale biologico delle persone di classe sociale più elevata, e quindi richiedono uno sforzo ulteriore per avere garantito un certo esito. La seconda considerazione – che discende dalla prima – è quella che Sir Michael Marmot chiama “universalismo proporzionato”.
Non è sufficiente essere universalisti, cioè garantire a tutti lo stesso accesso, ma bisogna fare uno sforzo in più nei confronti di coloro che sono più disagiati,
che hanno maggiori difficoltà nell’accesso ai servizi per motivi di reddito o per motivi culturali – legati cioè al “capitale sociale”.
Parliamo adesso delle questioni più teoriche. Tralasciando gli aspetti legali, parlerei della giustizia come concetto, in particolare della giustizia sociale. C’è una lunghissima storia di definizioni di giustizia. Senza risalire indietro a Platone o Aristotele, credo che si debba almeno menzionare John Rawls (1921-2002), uno dei più importanti filosofi politici del XX secolo. A me interessa soprattutto l’idea di Rawls, che poi è stata ripresa anche da Sir Anthony B. Atkinson (1944-2017) e ha ispirato le politiche inglesi, in particolare del Partito Laburista.
Questi teorici si riferiscono a un concetto di giustizia che è strutturale, cioè ha a che fare con il modo in cui funziona la società.
Non è una giustizia intesa in senso astratto, ma è un concetto legato al concreto funzionamento della società. Rawls e Atkinson si sono preoccupati di pensare a delle modalità e procedure attraverso le quali è possibile assicurare una maggiore giustizia sociale, avendo attenzione nei confronti dei più deboli. Una prima parte della filosofia di Rawls è strettamente liberale. La sua famosa definizione – il “velo di ignoranza” – significa che le decisioni politiche devono essere assunte in un modo che prescinda dalla posizione che il decisore occuperà in conseguenza delle decisioni prese. In altre parole,
qualunque decisione politica dovrebbe essere presa da soggetti che non tengono conto del loro tornaconto individuale.
Questo è un principio liberale che, ahimè, viene molto spesso disatteso. Per esempio, i comuni conflitti di interesse sono una negazione di questo principio. Rawls sostiene che è razionale che le parti coinvolte facciano scelte che assicurino la popolazione contro i peggiori esiti della lotteria naturale e sociale, cioè contro i rischi di eventi avversi legati alla nascita o all’insuccesso sociale. Atkinson in Inghilterra, che ha elaborato le idee di Rawls, ha fatto uno sforzo per proporre delle soluzioni pratiche, come quelle di tassare di più i ricchi o incrementare le tasse di successione e le tasse sulle donazioni. Ha espresso una serie di principi e proposte pratiche che in parte, per esempio in Italia, sono state fatte proprie dal Forum Disuguaglianze e Diversità.
Come vede la situazione attuale riguardo al “capitale sociale” delle diverse generazioni con cui abbiamo a che fare oggi: Boomer, Gen X, Millennial, Gen Z e Gen Alpha?
Ho la sensazione che negli ultimi anni si sia accentuato il divario tra le classi sociali. Molti giovani sembrano più capaci delle generazioni precedenti di utilizzare il sistema sanitario, ma è una mia impressione personale basata sull’osservazione dei miei figli e dei loro amici. Se penso al confronto tra i miei figli, me stesso e i miei genitori, noto delle differenze. Quando avevo l’età dei miei figli, facevo affidamento sull’esistenza di un servizio sanitario nazionale in cui avevo fiducia e che sapevo di poter utilizzare. Questa era un’idea molto diffusa nella mia generazione e in quella precedente. C’era fiducia e consapevolezza del fatto che questo servizio ci garantiva di fronte alla malattia e alle difficoltà. Poi, c’è stato un cambiamento culturale secondo me molto importante. Siamo in una società più liberale e più consumista, più basata sul mercato, per cui è più praticata la libertà di scelta. Ai miei tempi o ai tempi dei miei genitori non ci si poneva tanto il problema della possibilità di scegliere, per esempio scegliere il medico o la terapia. Il fatto che adesso ci si ponga il problema è positivo. Sul piano etico, l’individuo conta molto di più. Però nello stesso tempo c’è più frammentazione e anche più disorientamento e perfino la tendenza a far da sé (se posso permettermi l’espressione, a “fare shopping”). Le carenze del servizio pubblico, almeno in Italia, vengono colmate facendo ricorso al privato. Lo vedo nella generazione dei miei figli, e questo atteggiamento ha luci e ombre. Molto spesso il ricorso al privato è inappropriato: si richiedono prestazioni che non necessariamente sono corredate da prove di efficacia. Magari la prima richiesta viene rivolta al pubblico, e se la risposta non è ritenuta soddisfacente ci si rivolge al privato.
Mi sembra che da un lato ci sia stato il venir meno della fiducia, che una volta era eccessivamente acritica, nei confronti del sistema sanitario (e corrispondeva al paternalismo del sistema). Dall’altro, c’è stato un incremento del mercato, il che corrisponde a una maggior libertà di scelta. Questa libertà può essere positiva, perché aumenta la capacità decisionale dei cittadini, ma anche negativa, perché, purtroppo, la medicina è fatta di incertezze, di fenomeni ancora non conosciuti, di zone grigie… Le prestazioni sono molto frammentarie, e questo causa notevoli problemi come quello dell’inappropriatezza:
si calcola che circa il trenta per cento degli esami diagnostici siano inappropriati, cioè non dovrebbero essere fatti,
il che può dare origine a falsi positivi oltre che, chiaramente, aumentare la già elevata spesa sanitaria. Questo genera tra l’altro conflitti tra pubblico e privato e anche all’interno del servizio pubblico, mentre invece bisognerebbe chiarire molto meglio che quello che il pubblico garantisce è fondamentalmente basato su prove di efficacia e ispirato ai principi dell’equità e della economicità.
Nel 2022 ha pubblicato, insieme al giornalista scientifico Luca Carra, un saggio “Il capitale biologico” (Codice Edizioni), nel quale parla delle conseguenze sulla salute delle disuguaglianze sociali ed economiche.
Sulle disuguaglianze è stato detto tantissimo. Io sono un ricercatore medico, quindi non ho una competenza specifica in sociologia. Noi, nel libro che lei menziona, abbiamo studiato le disuguaglianze dal punto di vista biologico, rimanendo stupiti del fatto che i vari sociologi che si sono occupati di disuguaglianze e classi sociali, come Pierre Bourdieu (1930-2002), non considerassero l’aspetto biologico o l’impatto delle classi sociali sulle malattie. In Bourdieu c’è un’idea, chiamata “habitus”, che fa riferimento al corpo, ma lui non parla in realtà di biologia e di medicina. L’habitus si riferisce al corpo come espressione della classe sociale: il modo di atteggiarsi, il modo di parlare, l’uso del dialetto, il fatto di fumare, etc.; ma non ha un riferimento diretto alla biologia e alla medicina.
Per questo, io e Carra abbiamo proposto il concetto di “capitale biologico”. Quello che emerge dalle nostre ricerche e da quelle di altri, come Nancy Krieger che ha coniato il termine “embodiment”, è che la classe sociale non è qualcosa di metafisico da lasciare ai filosofi, ai politici o ai politologi. È qualcosa di concreto.
Le persone di classi sociali diverse non hanno soltanto diversi redditi e stili di vita, ma anche alterazioni molecolari:
per esempio la velocità dell’invecchiamento biologico è maggiore nelle persone di classe sociale più bassa. L’embodiment, in questo contesto, lo possiamo pensare come l’incorporazione delle disuguaglianze sociali. Oltre agli aspetti comportamentali, ci sono tutte le esposizioni chimiche in ambito lavorativo, l’inquinamento atmosferico che tende a essere più elevato nelle aree più disagiate delle città e così via. C’è un’incorporazione delle disuguaglianze sociali che diventa materiale attraverso le alterazioni molecolari.
Quindi il concetto di disuguaglianza ha anche una base materiale?
Esattamente.
Il concetto di disuguaglianza ha anche una componente materiale radicata nelle molecole.
Questo ha di nuovo a che fare con il concetto di giustizia. Per esempio, il fatto di essere nati in una famiglia povera anziché in una famiglia ricca non significa aver ereditato i geni della povertà e della malattia, ma vuol dire che a partire dall’utero, e forse addirittura dal concepimento secondo alcuni, si comincia a essere esposti a fattori di rischio come l’alimentazione della madre. Ma anche la cultura viene trasmessa tra generazioni. C’è tutta una branca del darwinismo che parla ora di ereditarietà, non soltanto genetica, ma culturale. Si eredita dalla propria famiglia un certo atteggiamento nei confronti del mondo, si eredita il “capitale sociale”, la capacità di muoversi dentro il mondo. Il risultato è che le persone di classe sociale più bassa, come abbiamo visto nelle nostre ricerche, mangiano meno frutta e verdura già da bambini, fumano di più e cominciano a fumare prima e fanno meno attività fisica (solo per fare alcuni esempi).
Una parte della sua ricerca si concentra su tematiche legate alla crisi ambientale in atto. Cito una frase da Il capitale biologico: la «transizione ecologica non potrà inverarsi se non sarà accompagnata da una decisa riduzione delle disuguaglianze sociali ed economiche, come sottolinea la stessa Commissione europea parlando di “transizione giusta”». Per quale motivo è così importante parlare, anche in questo caso, di giustizia?
Attenendosi al piano puramente descrittivo, quelli che patiscono gli effetti maggiori del cambiamento climatico o della crisi ambientale sono i Paesi più poveri e, nell’ambito dei vari Paesi, anche le classi sociali più basse. Per esempio, in un Paese come il Bangladesh che io conosco bene, le case situate su una collina o comunque a qualche metro di altezza rispetto alla pianura subiscono meno inondazioni e quindi hanno un valore superiore sul mercato. Una persona che può comprarsi una casa in collina, anche se parliamo di piccole alture, patirà meno anche le inondazioni. Quindi, c’è un dato di fatto che sono le disuguaglianze già esistenti nei confronti del cambiamento climatico. Naturalmente molte conseguenze di fenomeni come alluvioni e incendi interessano indistintamente tutti coloro che abitano nelle aree affette. I grandi incendi che ci sono stati in Australia, in Canada e in California hanno distrutto intere città. Però, le persone di classe sociale più elevata hanno strumenti di varia natura, come le assicurazioni, che fanno sì che possano attenuare gli effetti e superare le crisi. La seconda considerazione che faccio a tal proposito è che dobbiamo passare attraverso una transizione che purtroppo è troppo lenta. Il Governo italiano non sta facendo molto. Ci sono degli obiettivi che si è data la COP21 (i famosi obiettivi di Parigi) e poi tutte le successive COP e le misure previste dal Green Deal della Commissione Europea. L’International Energy Agency propone tutti gli anni obiettivi dicendo sempre che sono ineludibili e urgenti, ma in realtà i singoli Governi fanno ancora poco, con limitatissime eccezioni.
Quali sono le sfide di questa transizione?
Le azioni da intraprendere sono necessariamente radicali perché comportano cambiamenti di stili di vita e ristrutturazioni industriali. Per esempio, c’è grande consenso tra i ricercatori rispetto alla necessità di ridurre i consumi di carne, in modo abbastanza drastico. Ci sono dati nuovi sul metano, sull’importanza dell’impatto sul clima degli allevamenti, dell’agricoltura, della filiera del cibo. Questo di per sé è già impegnativo perché implica una riduzione degli allevamenti e di conseguenza licenziamenti e riconversioni industriali. Ci hanno provato in Irlanda e in Olanda e tali azioni hanno suscitato enormi proteste. Pensiamo alle recenti proteste degli agricoltori a Bruxelles, anche comprensibili. La transizione ecologica implica che vengano previste azioni che hanno un impatto radicale, spesso in particolare per i lavoratori.
Come si può gestire questa transizione in modo “giusto”?
La Commissione Europea stessa insiste sul fatto che la transizione deve essere giusta e che le sue conseguenze non possano essere pagate soltanto dalle classi sociali più basse.
Quello che ho detto riguarda la produzione, i posti di lavoro, ma può riguardare anche i consumi. Orientare in una direzione più sana e con un minore impatto ambientale i nostri consumi, per esempio quelli alimentari, non può per esempio consistere nell’aumentare le tasse in modo che questi aumenti vadano soltanto a scapito delle persone più povere. Johan Rockström, ricercatore svedese, esperto di sostenibilità globale e direttore del Potsdam Institute for Climate Impact Research (PIK) in Germania, è uno dei maggiori esperti di crisi ambientale. Lui continua a insistere sul binomio ambiente/società. Senza l’impegno sociale dice, l’impegno ambientale diventa vano oppure troppo traumatico.
Più che una domanda questa è una curiosità personale legata al luogo dove lei insegna e dove anche io, in anni recenti, ho imparato la “Salute Pubblica”: Londra. Perché molti dei primi e più importanti studi che riguardano i determinanti sociali della salute e le disuguaglianze provengono proprio dal Regno Unito?
Credo ci siano vari motivi. Uno è che nel Regno Unito è nata l’industrializzazione e questa ha reso più evidenti le disuguaglianze sociali, già nella prima metà dell’Ottocento.
Forse anche in maniera un po’ utilitaristica: se si ammalavano i lavoratori, chi lavorava? A questo punto era meglio investire per salvaguardare la loro salute, costava meno.
Sì, infatti alcuni dei riformatori erano proprio degli industriali. Poi, l’altro motivo è da ricercarsi probabilmente nella tradizione di riformismo sociale della chiesa protestante. C’è stata tutta una tradizione religiosa di riformismo sociale oltre al più noto riformismo di denuncia, legato invece alla tradizione socialista. Pensiamo al movimento chiamato Civil Gospel, vangelo civile, che ebbe un ruolo fondamentale nella protezione ambientale e nella salute dei lavoratori a Birmingham.
A me era venuto in mente anche il colonialismo. L’impero inglese fu tra i più grandi imperi coloniali esistiti.
Sì. Un ottimo esempio di questo fenomeno lo si può anche osservare al British Museum, in particolare nella sezione chiamata Enlightenment Gallery. Questa galleria ospita la collezione del fondatore del museo, una raccolta eclettica di oggetti provenienti da ogni angolo del globo. Non si tratta solo di opere d’arte, ma anche di reperti naturalistici come, ad esempio, animali impagliati. È una perfetta rappresentazione dell’imperialismo britannico: l’idea di raccogliere e centralizzare a Londra risorse e conoscenze da tutto il pianeta. Sebbene la centralizzazione corrisponda all’economia “estrattiva” e di sfruttamento da parte dell’imperialismo, è importante notare che questo approccio ha avuto anche risvolti positivi. Pensiamo alla creazione dei Royal Botanic Gardens, meglio noti come Kew Gardens, che sono tra i più importanti giardini botanici del mondo. L’era coloniale, con tutte le sue contraddizioni, ha contribuito all’avanzamento scientifico e all’esplorazione del pianeta (insieme ai suoi aspetti di sfruttamento dei territori e delle popolazioni).
Anche a livello epidemiologico e sanitario, molte delle cure di cui disponiamo oggi sono il risultato di questi scambi globali, per quanto complessi e problematici possano essere stati. La diffusione di malattie e la ricerca di rimedi hanno giocato un ruolo cruciale in questo processo storico.
Assolutamente. È una questione molto complessa e sfaccettata. Da un lato, abbiamo gli aspetti negativi del colonialismo e dell’imperialismo. Dall’altro, non possiamo negare i progressi scientifici e medici che ne sono derivati. È un tema che merita un’analisi approfondita e critica, considerando sia i costi umani che i benefici a lungo termine per la conoscenza globale.
Con un biologo, Giacomo Bernardi, e un sociologo, Stefano Allievi, ha scritto di recente un altro saggio, Il sesto continente (Aboca). Ci spiega che cos’è questo “nuovo” continente?
Parliamo di “continente” perché ci riferiamo al continente dei migranti, ovvero l’enorme numero di persone in movimento. Nel libro, Allievi descrive le varie sfaccettature di questo fenomeno, poiché chi si sposta può essere mosso da motivazioni molto diverse. In un certo senso, anche io sono un migrante essendomi trasferito a Londra per lavoro. C’è la famosa distinzione tra fattori “pull” (migliore qualità della vita, opportunità lavorative, aspetti culturali e sociali etc.) e “push” (conflitti, guerre, disastri naturali etc.) per descrivere le motivazioni che ci spingono a migrare. Nel libro, però, ci concentriamo soprattutto sull’impatto del cambiamento climatico sulle migrazioni. Ci sono stime che parlano di milioni di persone che si sposteranno a causa dei cambiamenti climatici. È importante notare che le migrazioni avvengono soprattutto all’interno dei continenti. In Africa, per esempio, c’è un’enorme migrazione verso le grandi città, dovuta alla siccità in aree molto ampie e all’impatto del cambiamento climatico. Il libro si intitola così perché il “sesto continente” rappresenta tutti coloro che si spostano o si sono spostati. C’è anche una parte dedicata alla migrazione degli animali, curata da Giacomo Bernardi. Questo aspetto non ha solo un interesse naturalistico, ma è anche alla base di alcune malattie umane. Pensiamo al fenomeno dei pipistrelli e al Coronavirus, ma ci sono molti altri esempi. Un recente articolo su Nature ha evidenziato come sia aumentato enormemente il numero di animali che escono dalla “wilderness”, dalla foresta tropicale, per spostarsi in nuovi habitat. Qui, entrano in contatto con specie che non avevano mai incontrato prima, aumentando la probabilità di “spillover” e di nuove malattie infettive. Nella mia parte del libro, invece, io mi concentro sul nesso tra l’economia estrattiva e l’impatto sull’ambiente. L’economia estrattiva comporta un eccessivo sfruttamento delle risorse del pianeta, con conseguenze come spoliazione, deforestazione, riduzione della biodiversità e cambiamento climatico. Questo processo non rispetta il principio della circolarità e porta a una progressiva riduzione del capitale naturale e dei servizi ecosistemici ad esso associati.
Mi sembra di capire che questo “sesto continente” di cui parlate abbia delle implicazioni enormi anche in termini di salute?
La perdita di biodiversità, per esempio, ha una serie di impatti sulla salute che solo ora iniziamo a indagare.
Gli effetti più noti sono probabilmente l’aumento di asma e allergie, dovuto all’impatto della perdita di biodiversità sul microbioma. Ma c’è anche un altro aspetto importante: l’impoverimento dell’alimentazione. Con l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), abbiamo pubblicato alcuni studi che dimostrano come una dieta poco biodiversa, cioè con un numero limitato di specie animali o vegetali nel suo contenuto, aumenti il rischio di morte precoce e di vari tipi di tumori. Quindi, il “sesto continente” non riguarda solo le migrazioni umane, ma anche quelle animali, che spesso corrispondono a una riduzione della biodiversità e della complessità dei sistemi naturali. Tutto questo ha poi conseguenze dirette e indirette sulla salute umana, creando un intricato intreccio di fattori che influenzano il benessere globale.
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Una risposta a “«La giustizia è una cosa che manca»”
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Chiave di lettura chiara e attuale della realtà attuale e delle sue contraddizioni. Da professionista sanitario (infermiera) mi occupo di rischio infettivo e la correlazione tra la quotidianità lavorativa e gli aspetti descritti nell’intervista è dinamicamente presente. La frustrazione quotidiana che scaturisce dall’incapacità di trasmettere ai colleghi l’attenzione sul proprio agire per un bene del singolo e della collettività è sempre maggiore, perché le organizzazioni complesse come la sanità pubblica, ricorrendo la semplificazione per attrarre professionisti e cittadini rischia di banalizzare evidenze scientifiche e postulati fondamentali per l’ambito sanitario. Grazie per la chiarezza e la correlazione One health
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