La medicina e la morte

Una serie lungo la soglia della morte 

Questo articolo fa parte di una serie. Il contributo precedente è consultabile qui. 

Può sentire il medico la morte del paziente come un fallimento? Probabilmente sì, consapevolmente o inconsapevolmente.  

Nel nostro tempo abbiamo in gran parte perduto la fede religiosa, che aveva offerto un pacchetto di credenze e garanzie per secoli. Un pacchetto gravoso da sopportare da un punto di vista intellettuale e politico-sociale ai nostri occhi di uomini moderni. Eppure, il Vangelo si può condensare in due semplici espressioni: ama il Buon Dio padre di tutte le cose; ama il tuo prossimo come te stesso, anzi ama anche il tuo nemico.  

Nel secolo scorso sono stati fatti dei preziosi tentativi di rendere la fede religiosa cristiana più accessibile a una sensibilità e a una intelligenza più avvertita, a una cultura più evoluta (come sono forse quelle del nostro tempo); perlomeno nell’ambito della riflessione filosofica e morale, malgrado la mediocre qualità dell’animo popolare. Soprattutto in area protestante si sono prodotti dei risultati molto interessanti, come per esempio l’opera di demitologizzazione di Rudolf Bultmann o quella di storicizzazione di Jurgen Moltmann, autore della Teologia della Speranza. Ci tornerò.  

Ma in questo moderno contesto l’evento determinante è stato l’abbandono più o meno esplicito della fede religiosa tradizionale a vantaggio della fede nella scienza. Attenzione: già Freud sosteneva che stava per iniziare una età del pensiero scientifico ed il tramonto della fede religiosa. Ma

in verità abbiamo piuttosto assistito ad un cambio di fede, da quella religiosa ad una vera fede nella scienza e nella tecnologia.

La ricerca scientifica, di cui noi uomini comuni sappiamo davvero poco, scoprirà le cause e i rimedi per tutte le malattie, e non sapremo più di cosa morire. Alla immortalità celeste è stata sostituita una auspicata, anche se non esplicitamente, immortalità terrena.  

I realistici limiti della medicina, così come accade per qualunque altra scienza, sono stati evidenziati dalla pandemia da coronavirus fino dagli inizi: poco davvero si sapeva di questi nuovi agenti patogeni, poco di più se ne sa oggi, e siamo diventati consapevoli che altre situazioni come quelle che stiamo vivendo si sono già verificate, e si verificheranno ancora. Le nostre latenti illusioni di onniscienza e di invulnerabilità sono state miseramente smentite. I curanti stessi, generosi medici e infermieri, non sono stati risparmiati dal male.  

L’evidenza ci ha confermato una realtà che sappiamo essere estremamente angosciosa al punto di volerla disconoscere:

non si può curare la morte; si può invece curare la malattia, e quando questo non è più possibile, si può curare il morire.

Questo semplice e fondamentale monito potrebbe essere il lascito di questa pandemia, il memento di una esperienza dolorosa, ma non inutile. Questo non dovremmo dimenticare, non dovremmo dimenticare la nostra caducità. La cura del morire poi dovrebbe tornare a far parte delle nostre vite. Innanzitutto come cura del dolore, per dare dignità all’ultima parte della vita e consentire un avvicinamento alla morte il più possibile sereno e costruttivo; poi come impegno a non lasciare solo il morente, non solo fisicamente ma spiritualmente, imparando a costruire e condividere un linguaggio e dei valori della fine della vita; poi come cura della colpa, sia quella del morente confrontato con l’esame della propria esistenza, sia quella dei familiari confrontati con la loro sopravvivenza e con le loro inevitabili ambivalenze passate e presenti verso il morente; e soprattutto come consapevolezza ed accettazione costruttiva e solidale della nostra comune caducità. Nel momento estremo di una persona, familiari ed amici non sono altrettanto esposti alla morte, ma possono condividere col morente la comune ineluttabilità della morte e la necessità/volontà di preparare la propria morte.  

Hillmann si chiedeva dove fosse la linea di demarcazione tra la vita e la morte, se nella parola, se nel respiro, se nell’immagine, se nel sogno.

Va da sé che tale linea attraversa tutta la nostra vita e tutte le sue esperienze espressive, tra cui segnalerei in particolare quella del sintomo fisico e psichico; se la sappiamo riconoscere, essa è il filo rosso che tesse tutta la nostra realtà spaziotemporale. Conrad la chiamava Linea d’ombra, alludendo al fatto che essa emerge con particolare acutezza nel passaggio dalla giovinezza alla maturità, quando tramonta quella presunzione di invulnerabilità che spesso caratterizza gioiosamente e arditamente la baldanzosa giovinezza ed i suoi ambiziosi progetti.  

Ecco, dunque, che la medicina oggi si è dotata di uno strumento magnifico come sono le cure palliative, avviate nel secolo scorso da Cecily Saunders. Non solo, dunque, il medico non vive la morte come una sconfitta, ma dopo avere curato nei limiti del possibile la malattia, si appresta a curare il morire per non lasciare il morente nel dolore e nella solitudine.  

Accanto poi allo sviluppo delle cure palliative dobbiamo reimparare la cura e la valorizzazione della vecchiaia, a cominciare dalla nostra vecchiaia, intesa di nuovo come espressione del limite della propria corporeità e come sedimento dell’apprendimento dalla vita e della saggezza misurata dai molti tentativi ed errori che hanno caratterizzato il nostro esistere.  

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Una risposta a “La medicina e la morte”

  1. Maria Giulia Magrini

    Grazie. Siamo ancora molto impreparati alla morte. Sarebbe importante dare un significato diverso alla morte. E’ la fine, indubbiamente. E’ la fine di tutto? Se lo è, dove tracciare la fine ? Dove inserire la memoria? Sono molto triste, ho perso mio padre, ora mamma sta male e tanti amici dei miei genitori.

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Un pensiero su “La medicina e la morte

  1. Maria Giulia Magrini dice:

    Grazie. Siamo ancora molto impreparati alla morte. Sarebbe importante dare un significato diverso alla morte. E’ la fine, indubbiamente. E’ la fine di tutto? Se lo è, dove tracciare la fine ? Dove inserire la memoria? Sono molto triste, ho perso mio padre, ora mamma sta male e tanti amici dei miei genitori.

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