La musica dell’anima nel viaggio dei colori

 

Nel 2011: Come se fosse musica 

«La natura dell’arte è di mettersi in pericolo», scrive Anselm Kiefer, uno dei più celebri artisti contemporanei. Potrebbe sembrare strano e persino irriverente citare un artista così lontano dal lavoro creativo di Daniele Cleis. Eppure, quella frase ci aiuta a svelare provocatoriamente proprio l’anima segreta e celata delle sue opere. Un’opera per un verso rigorosa e precisa, come se fosse alla ricerca di un ordine geometrico del mondo tra bianchi e neri, tra pieni e vuoti; per un altro divampante di irrequiete forme e colori. Dietro le vigilate forme, che sembrano voler rinchiudere i paesaggi del suo viaggiare nelle terre di mare, dall’Andalusia, alla Provenza ad Istanbul, dalla Bretagna alle Cinque Terre sino a luoghi che non hanno luogo se non nell’immaginario; dentro alle sue geometrie, subito sconfitte dalle vibrazioni del sogno e ancor dietro il tratto della sua mano, che esprime l’impossibile ritrarsi dalla caoticità generativa della vita, abita il segno di un pericolo. Il segno ineludibile di un improvviso smottamento, che non si risolve qui in impaurita desolazione, ma in una tensione di movimento verso un altrove, un “Lontano”, in cui quelle geometrie, oramai conquistate dal sogno, si disperdono in spiracoli di fuga, che trascinano in una diafana luce mediterranea, come sospinte da un’onda, l’attento sguardo.  

Spazio e movimento sono infatti le cifre esistenziali dell’opera di Cleis , sia per la parte xilografica che per quella pittorica.

Un’opera che racconta il viaggiare, il trasformarsi anzi il trasfigurarsi delle geografie di mare e di terra in fluidi paesaggi dell’anima. Un viaggiare verso un arrière-pays che fa scorgere una lontananza, a volte fuori dalla tela, altre nel cuore stesso dell’opera. Una lontananza, che ci spinge emozionalmente fuori, come se ci si trovasse di fronte ad un vortice in cui sprofondare e nello stesso tempo ad un’apertura, una sorta di porticina verso cui volare via come l’acqua che tracima silenziosamente, quasi inavvertitamente dal suo contenitore. Opera d’esattezza certamente, quella di Cleis, ma sempre fluttuosamente sospinta verso la sua terra promessa. Qui sta la sua messa in pericolo, che è il pericolo ineludibile della passione solo apparentemente custodita nel gesto creativo. Ciò che rende fondamentalmente instabile la sua opera è proprio il suo muoversi, il suo faticoso farsi spazio, come fosse guidata da una forza interiore, che la rende trepidante e spirituale. Continua è infatti in essa l’oscillazione – come in Concentrazione del ’99 – tra la ricerca di un centro e l’esplorazione dei bordi della vita che qui sembra rigenerarsi, come in Vortice primaverile 2 del 1999.  

Il pericolo non sta nella catastrofe, ma proprio in quel rigenerarsi incessante, che è il ribellarsi della vita alla tentazione della troppa quiete, nella continua necessità di esporsi all’attesa e all’accadere del mistero. Vi è così un segreto in queste sue tele, tra un gesto che sembra trattenere e imprigionare il reale e l’irrompere improvviso dell’inarrestabile, dell’incontrollabile. Non è però opera gemente ma gioiosa, come il grido, più che il sussurro, di una primavera che si nasconde anche nell’affanno. Tra queste sue tele soffia il vento, che l’artista da navigante conosce bene. Un vento che tutto ricompone e poi di nuovo scompiglia.

Un vento che è il compagno di ogni viaggiare della mente e del mare, nello spazio tra mare e terra da cui prendono origine molte sue opere.

Ma tutto ciò, come ad esempio in Andalusia 3 del 2004 o in Continuazione del 1982, è musica, diviene musica, come se nel guardare le opere di Cleis ci si trovasse improvvisamente di fronte ad una sorta di spartito musicale. Una musica che ricompone, come fosse un tessitore di fronte al suo telaio, i frammenti delle nostre emozioni, che hanno colto sulla tela la sorpresa di un altrove annunciato, per riappacificarci con il soffio amoroso della speranza.   

 

2014: Le città danzanti  

Ho avuto l’onore e il piacere in queste ultime settimane di presentare alcune esposizioni di artisti ticinesi. Mostre organizzate dai Comuni. Non posso che essere lieto nei confronti delle sensibilità di quelle autorità comunali, che sembrano aver compreso quanto bisogno di vera bellezza e di cultura non retorica o di parata circola anche sotterraneamente nelle nostre contrade. La bellezza una volta in più, osiamo dirlo, per rendere migliore la nostra vita quotidiana, allontanandola per un attimo dal frastuono rutilante delle tante luminarie d’illusione. Momenti privilegiati, al di là del certo valore degli artisti, per fare da argine alla banalità quotidiana e alle sue derive d’arroganza. Vengo ora all’opera di Daniele Cleis, un artista vero, che onora pienamente questo titolo. È possibile, si chiede il suo gesto pittorico e scultoreo, nell’ascolto e poi nella rappresentazione artistica delle emozioni, cogliere l’esperienza originaria del mondo, quando appare e accade dinnanzi allo sguardo prima di avere tutte le parole per poterla dire? Come non ricordare qui la lezione di Merleau-Ponty quando scrive: «Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza, come la geografia nei confronti del paesaggio, in cui originariamente abbiamo imparato che cosa è una foresta, un prato o un fiume». L’opera artistica di Daniele Cleis, nella traiettoria che lo porta all’esposizione organizzata dal Comune di Cureglia e chiamata proprio Emozioni, assume la sfida di svelare nella geografia l’anima del paesaggio. Il suo percorso potrebbe però a prima vista sembrare una sorta di taccuino dipinto del suo viaggiare dentro le geografie dell’altrove, che si è fatto quasi spartito musicale. La tensione del suo sguardo sulle città sconfina in queste tele in una sorta di “Oltrità”, che apre spiracoli verso quella sillaba originaria, che si fa sensazione, prima ancora che sentimento, corporeità emozionante e emozionata in permanente tracimazione di sé verso colui che sosta guardandola.

Ma che cosa è allora questa “Oltrità”, che Cleis tocca con delicatezza?

Il suo gesto artistico non è però qui solo racconto e nemmeno mera emozionalità, ma diviene esperienza condivisa. Il vissuto si fa qui immediatamente esperienza. «L’esperienza – scrive Walter Benjamin in un libro su Baudelaire – è ciò che non è stato vissuto espressamente, consapevolmente, di ciò che non è stato, insomma, un Erlebnis». Le sue tele aprono infatti ad una esperienza sensoriale fatta dai suoni dei vicoli dei mercati palermitani, dai colori e dagli odori delle megalopoli cinesi, dalla calura delle città del sud, come del freddo delle metropoli americane. “Esperienza” verso ciò che è nuovo e non conosciuto, movimento e sensorialità, prima che l’emozione divenga sentimento e poi ricordo. In queste città immaginarie Daniele Cleis ci mette di fronte proprio all’andare tattile del suo gesto, al di qua della mera impressione emotiva (spesso già iscritta in un codice emozionale precostituito) e fa provare a chi guarda tutta una panoplia di sensazioni corporee (è come se si sentisse sulla pelle la calura di quei luoghi, la loro luce, come le loro ombre), che occupano uno spazio, che precede l’emozione stessa, in una dimensione pre-categoriale, ma anche pre-emozionale.

Non per nulla l’artista stesso dice, riguardo a queste sue opere, del suo desiderio di andare oltre il viaggio.

Se una precedente esposizione al Municipio di Bioggio nel 2011 Geometrie di viaggio viveva ancora in una sorta di tensione tra il rigore dei confini e gli sconfinamenti dell’avventura, qui qualcosa spinge e si sottrae al senso dell’ordine, dell’esattezza del tratto per sfumare nella vaghezza e divenire ebbrezza del colore in un paesaggio liberato, un paesaggio danzante in spiracoli di illuminazione. È verso l’altrove corporeo dell’esperienza che tende il tratto di Daniele Cleis. Abbandonata l’esigenza di tenere il mondo in mano per farlo familiare, è l’accadere dell’eccedenza del colore, della luce che tracima ad illuminare la scena. Il ricordo personale di un viaggio o di una città, l’affermazione dell’Io, che l’artista non trattiene più, ti viene incontro come una sorta di corpo-mondo, che ti accoglie e ti trascina nel suo orizzonte. È come se ci venisse restituita la profondità della lontananza, che ci spinge emozionalmente fuori, come se ci si trovasse di fronte ad un vortice in cui sprofondare e nello stesso tempo ad un’apertura verso cui volare con le ali spiegate. Sono così restituiti i paesaggi nutriti dal nostro sguardo ammagliato, dalla percezione di un “ritmo”, che dà senso alle luci aurorali e alle ombre di ogni crepuscolo, oscillazioni dell’anima e dell’occhio capace di smarrirsi in una struggente lontananza e poi di ritrovare una dimora. Appaiono i “paesaggi della lontananza”, in cui è possibile esercitare la magia del ricordo e di cui hanno cantato da sempre i poeti e gli innamorati. Appaiono i “paesaggi della memoria”, sul cui sfondo si sente ancora il brulichio della vita. E ancora i “paesaggi dello sguardo”, in cui è possibile “viaggiare” nelle spirali amorose e insidiose di una seduzione dell’”Altrove”, che faceva dire a Tabucchi, «A volte cominciava così, con un rumore impercettibile, come una piccola musica; e anche con un colore, una macchia che nasceva dentro gli occhi e si allargava sul paesaggio e poi invadeva di nuovo gli occhi e da essi passava all’anima: l’indaco, per esempio. L’indaco aveva un suono di oboe, a volte di clarino, nei giorni più felici». Così vengono alla luce dentro di noi i luoghi di quell’altrove, che è terra del sogno. Daniele Cleis evoca e suscita l’evento di quei viaggi e il loro continuo accadere, non i viaggi stessi. Un evento che fonda l’esperienza autentica di sé e del mondo con i suoi colori, i suoi odori, i suoi suoni e il senso del movimento verso quel “qualcosa”, che già abita silenziosamente la nostra anima. Così i suoi paesaggi, le sue città immaginarie e liberate dal peso della loro geografia, che già stanno in noi sonnecchianti, ritornano davanti ai nostri occhi danzando nell’eco di voci, che improvvisamente sorgono nel fragore così spesso indifferente del mondo.  

 

Nel 2024: nella brezza dello spirito 

Mostra “Introspezione” a Cureglia Casa Rusca, 3 ottobre 2024 

«Ho messo la mia anima fra le tue mani. Curvale a nido. Essa non vuole altro che riposare in te. Ma schiudile se un giorno la sentirai fuggire. Fa’ che siano allora come foglie e come vento, assecondando il suo volo» (Margherita Guidacci). 

 

Ogni esposizione d’arte è abitata dal mistero delle sue opere parlanti. Questo vale anche per quella che stiamo per incontrare. Vi sono infatti due presenze, due spiriti, che la abitano. L’uno nella materialità delle statue lignee, che sembrano trattenere, tenere dentro il loro mistero all’interno dell’opera, l’altro che si espande nel turbinio del colore. Due presenze, che sembrano ripetere il confronto antico tra il rigore geometrico apollineo e l’eccedenza tempestosa del gesto dionisiaco, di cui parla Nietzsche nella sua Nascita della tragedia. Vi è infatti nel tocco creativo di Daniele Cleis, oscillante tra le forme apparentemente immobili delle sculture lignee e il tumulto delle opere pittoriche, che sembrano tracimare il colore fuori dalla tela, la traccia di un viaggio dentro l’esistenza stessa. Le opere che Daniele Cleis ci invita a guardare sono infatti chiamate ad accompagnare il volo delle anime sospinte nella brezza dello spirito. Ma che cosa distingue l’anima dallo spirito, di cui sentiamo qui le vibrazioni?  

«C’è differenza tra anima e spirito – scrive Padre Serafino M. Lanzetta – e va colta non nella natura, perché entrambi sono realtà spirituali e quindi in questo convengono, ma nella capacità di aprire l’uomo alla dimensione che va oltre la materia: lo spirito è un di più, è la capacità di arrivare all’infinito, forse a lasciar dialogare il reale con il desiderio dell’eterno».

Lo spirito, che soffia nelle sculture lignee e quello che tracima nel colore, dà infatti vita all’anima. Da un lato vi è infatti la brezza di uno spirito, che cerca una forma che lo sappia ospitare, accogliendo a tratti l’apparire di un’immobile macchia di colore. Dall’altro vi è quello che si espone all’avventura della vita nella sua espansione calcolata ma anche senza fine. Un’esperienza dentro l’universo dei colori così come nelle disordinate mappe dell’infinito, che travalicano ogni forma. Daniele Cleis assapora il soffio o per meglio dire la brezza dello spirito, che nutre la sua e la nostra anima, che le dà corpo, che ci invita a guardare. Uno sguardo che è parola, che contiene segreti non ancora svelati, uno sguardo che ti è regalato, come fosse un dono prezioso, che è anche musica. Uno sguardo che dà vita alle opere create. Uno sguardo che ti attraversa con la forza del colore, che cerca mappe di viaggio oramai impossibili, imprevedibili, incredibili, inattese. Uno sguardo che travolge l’orizzonte dell’atteso in un universo colorato dal sapore dionisiaco. Uno sguardo, infine, che si confronta con le parole dell’esistenza sempre in bilico e in pericolo. Quelle della paura, della trepidazione, del tremore, del timore, del turbamento nel territorio del tragico. Le opere che vediamo sospese nell’incontenibile espressività del colore, sono come una sfida all’ignoto, ma anche apertura alla meraviglia. Ci chiamano non al di là dal mondo, ma dentro il mondo stesso, facendoci incontrare il sublime, che svela il mistero, che qui è amore.  

L’arte è infatti la capacità di incontrare ciò che ti può travolgere.

Ciò che appare fondamentalmente stravolgente e instabile nell’opera creativa di Daniele Cleis, che non smette comunque di cercare la stabilità, è proprio il suo doversi e il suo faticoso farsi spazio, il suo lasciare tracce e segni di un passaggio d’esistenza, come fosse guidata da una forza interiore, che la rende trepidante e spirituale. Segni che dicono la precarietà e la fragilità dell’esistenza umana. Segni che incontrano la sofferenza ma anche la carezza dell’anima, “proteggendone il volo”. Segni che svelano in modi diversi, come fossero “indicatori sismici”, l’incertezza del vivere e dello stare al mondo. Come acrobati sospesi sul filo teso tra il cielo e la terra, si vive incessantemente l’imminente rischio di cadere, ma anche il miracolo di rimanere in equilibrio su quel minuscolo frammento di mondo, che ogni atto creativo costruisce con le sue opere. A questa vertigine esistenziale ci espongono le opere di Daniele Cleis. Una condizione in cui ci sentiamo ospiti dentro l’opera lignea o pericolanti viaggiatori nella tormenta dei dipinti abitati dal colore. Entrambi come una sorta di grammatica della conditio humana. Segni, quelli lasciati nel nostro sguardo, che evocano il dolore ma anche la gioia. L’uomo fragile è dunque uomo sempre in bilico sul bordo del mondo, che scivola sotto i suoi piedi fattisi incerti, esposti all’attesa e all’accadere del mistero. Vi è così un segreto in queste tele e in queste opere di scultura lignea, tra un gesto che sembra trattenere e imprigionare il reale e un altro in cui si diviene testimoni dell’irrompere improvviso dell’inarrestabile e dell’incontrollabile. Le opere di Daniele Cleis, che il nostro sguardo qui incontra, raccontano quello stare-dentro per proteggersi dalla vita e quello stare-fuori per incontrare la vita, esponendosi all’ignoto e all’inatteso, alla ricerca di possibili punti di fuga. 

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