La sensibilità per l’immortalità
Una serie lungo la soglia della morte
Questo articolo fa parte di una serie. Il contributo precedente è consultabile qui.
26 Agosto 2024 – Morte, Arte, Depressione, PsichiatriaTempo di lettura: 6 minuti
26 Agosto 2024
Morte, Arte, Depressione, Psichiatria
Tempo di lettura: 6 minuti
Per quanto ne so, le ricerche di Robert Jay Lifton hanno un carattere piuttosto poco condiviso all’interno della psicoanalisi. È universalmente noto il suo lavoro con i sopravvissuti dell’olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki, che mi sembra, per così dire, un terribile complemento dell’olocausto ebraico e una profezia non meno terribile rispetto al nostro presente e al nostro futuro. Ci tornerò.
Ma Lifton si è occupato della nostra sensibilità per l’immortalità, intendendo con ciò la nostra misteriosa e irriducibile aspirazione alla perennità, nelle sue forme più benigne e nelle sue forme più maligne. Una forma estremamente maligna di questa sensibilità è paradossalmente il suo diniego, come tale inconscio, che assume non di rado il piglio di un’arrogante supponenza nei confronti della ingenuità delle credenze più semplici e tradizionali, ma non meno carico di conseguenze sempre illusorie, talvolta drammatiche.
In sostanza è opportuno considerare il nostro bisogno di immortalità in diversi modi. Un primo modo è quello di riconoscere due ambiti di immortalità: l’immortalità dell’oggetto e l’immortalità del soggetto.
L’immortalità dell’oggetto è una tipica vicissitudine dell’oggetto dei nostri investimenti libidici, ma anche di quelli aggressivi. In altre parole, dentro di noi l’oggetto d’amore non può mai morire, perché il nostro amore lo cura e lo protegge dalla scomparsa, anche quando è oggetto di violenti investimenti aggressivi da parte nostra, a cui deve sopravvivere sia perché ricco di risorse e capace di proteggersi dalla nostra distruttività, sia perché non dobbiamo mai percepire il nostro odio in modo così distruttivo. Questo è l’esito di una lunga esperienza relazionale precoce, che si conclude con la kleiniana posizione depressiva, cioè con la percezione che l’oggetto amato ha una sua separatezza, che noi sopportiamo senza ucciderlo, e che la nostra onnipotenza, in particolare quella distruttiva, non arriva a uccidere l’oggetto e non arriva a causare la fine del mondo.
Credo che sia evidente come stiamo vivendo esperienze che possono farci dubitare di avere raggiunto una tale generosità (crisi dei migranti, crisi ecologica, enormi ingiustizie nella distribuzione delle ricchezze, olocausto nucleare mai davvero scongiurato, pandemie generate e/o accresciute da dissennate gestioni della politica sanitaria, della ricerca scientifica e della politica ambientale).
Quando la nostra cura dell’oggetto, di tutti gli oggetti, è debole o malevola, l’oggetto soffre o addirittura muore con conseguenze catastrofiche per il nostro mondo interno e per il mondo esterno.
Lo vediamo in numerose patologie psicotiche, nelle depressioni profonde e nella melanconia in particolare, nelle perversioni paranoidi, ma lo possiamo studiare anche nelle forme borderline o nevrotiche in modo più sottile. Ma soprattutto lo vediamo nelle vicende più dolorose e contraddittorie della nostra società, spesso coperto da fenomeni di impostura e/o di ottundimento. D’altra parte, la necessità della immortalità dell’oggetto la possiamo incredibilmente constatare nello studio dell’oggetto persecutore, così indispensabile in alcune gravi patologie per la funzionalità delle pur bizzarre difese.
Diversa ma complementare è l’immortalità del soggetto. Freud se ne era occupato in modo commovente, rivendicando agli esseri umani una ben definita immortalità biologica, evidentemente connessa alla generazione dei figli, che ne sono i custodi per dir così carnali. Ma perché anche per Freud è così importante l’immortalità del soggetto, dell’individuo? Credo che rispondere a questa domanda sia tanto difficile quanto rispondere alla domanda: perché la civiltà, l’incivilimento, perché l’amore per la bellezza, l’amore per la verità? Anzi credo che queste domande siano tutte equivalenti e coincidano con il nostro misterioso destino di amare la caducità che vorremmo trasformare in perennità, con il nostro bisogno di pensare che i nostri oggetti d’amore non siano destinati a finire, ma a rimanere per sempre, resi immortali dal nostro amore. Il soggetto è il contenitore di questi irrinunciabili tesori, che se fallisce in questo compito si lascia morire.
Si tratta di un virtuoso circolo tra soggetto ed oggetto, in una inesauribile aspirazione alla perennità. Freud l’aveva colta, come dicevo, nella permanenza biologica dell’eredità che trasmettiamo ai nostri figli, permanenza che si completa nel lascito spirituale oltreché materiale di cui li facciamo oggetto. Nella religiosità, in tutte le sue forme, è presente comunque l’aspirazione alla immortalità, sia in una forma individuale, sia nella forma del ritorno ad un Tutto di cui testimonia, per esempio, il sentimento oceanico di Romain Rolland, quando scrive a Freud dopo aver letto il suo Avvenire di un’illusione. Ulteriori illusioni/aspirazioni alla immortalità sono rappresentate dal desiderio di lasciare opere illustri nell’arte, nella scienza, nella letteratura.
Ma in generale ognuno di noi ha un desiderio manifesto o segreto, conscio o inconscio, che una parte di sé sopravviva alla morte ed in qualche modo ci consegni ad una qualche sopravvivenza.
Credo che sia importantissimo che durante un’analisi possa essere individuata questa area illusionale che ci permette di spendere la nostra vita in funzione di una aspirazione ideale e ci consente di congedarci dalla vita con un sentimento sereno di relativo appagamento e di tenera speranza di potere avere vissuto, facendone esperienza in un mondo più accogliente, anche grazie al nostro spirito.
Cosa ne pensi?
Condividi le tue riflessioni
e partecipa al dialogo
Lascia un commento