La vita navigante tra porti sicuri e marosi

Terre di ghiaccio, terre di fuoco e terre di vento 

«Mi accorgo sovente
Di stare sulla soglia
Come se ci fosse vicino al confine,
un fiato, un tenue filo.
Come se fossi qui in parte e in parte altrove.
Simultaneo e ubiquo»
D. Giancane (2003)

 

La vita si fa navigante, come una navigazione senza fine lungo il confine evocato dal poeta.

Confini, limiti, soglie sono i luoghi del nostro abitare, del nostro sostare nella vita, ma anche del nostro veleggiare sulle onde del mare, a volte amiche e altre burrascose.

Si possono cercare porti sicuri nel periplo della vita oppure arrischiare il mare e le sue avventure. L’avventura, come il sale della terra, è ciò che la fa appassionata e appassionante. Senza di essa, senza i suoi colori e i suoi suoni, saremmo condannati ad un crudele esilio e al deserto di ghiaccio, che ci imprigiona. Senza di essa, senza tentare il mare e provare la felicità dei porti, la sua navigazione sarebbe solo assenza e abbandono alla desertificazione inesorabile della nostra stessa esperienza di esistere. Ma come custodire e trasmettere le mappe del mare e le locande per il nostro sicuro riposo?  

Pensiamo, per ragionare insieme, alla gioventù che cerca l’avventura, ma anche una casa. Siamo stati capaci di educarla alle passioni? Senza questa trasmissione, questo passaggio di testimone, tutto arrischia di divenire sterile, un mondo dalla “mano fredda”. La passione non è però solo spontaneità, libera espressione di sé, a volte dismisura, ma paradossalmente è regola, non intesa come norma, ma come armonia, ritmo, capacità di aspettare, di desiderare, anche a volte di soffrire.

La passione per essere creativa ha bisogno di virtù.

Passioni e virtù, due compagne di vita, a volte litigiose e inconciliabili, altre armoniose e generative, entrambe necessarie. Di questo è fatto, alla radice, il senso dell’incontrare. Entrambe disegnano mappe per la navigazione.  

La vita navigante ha bisogno di mappe, di una stella polare che, anche nelle notti più nere, impedisca di smarrirsi l’uno di fronte all’altro. Perdersi non è smarrirsi.

La passione abita proprio nella capacità di perdersi, di distrarsi per gustare l’invisibile, l’imprevisto, che ci cade dinnanzi, per non accontentarsi del già noto.

La passione virtuosa non è, come normalmente si pensa, solo concentrazione sull’oggetto della passione, efficienza, performance, ma soprattutto capacità di girare lo sguardo, di sostare ammirati di fronte a qualcosa, che non era previsto, come se fosse una pausa benefica nel fluire regolare della vita, una radura per vivere e per sognare. «Nella foresta c’è una radura inaspettata che può essere trovata solo da chi si sia perso. È circondata da un bosco che soffoca se stesso» (Tomas Tranströmer). 

È nel bosco oscuro, senza radure, che le passioni divengono tristi e minacciose,

come ricordava Spinoza, o eccessive e disordinate. Ma come trovare la radura in cui custodire la nostra storia? Gottfried Benn, il grande poeta tedesco, diceva «si può raccontare l’uomo oramai solo per episodi», non più come un discorso compiuto, come ci avevano raccontato i grandi romanzi di formazione.

L’uomo non è più raccontato nella sua biografia lineare. Oggi siamo tutti in condizioni di spezzettamento, di episodicità.

Nessuna storia regge alla pressione del tempo e dello spazio che prima ci accoglieva. Dentro questa episodicità, il perdersi diventa facilmente uno smarrirsi, un rischio o uno stato di eccitazione. Smarrirsi in un mare vuoto. Questo smarrimento ha la doppia funzione di essere elemento di angoscia e insieme di eccitazione. Rimangono forse solo frammenti di fede e di speranza di trovare una meta e una mappa, credibile e salvifica? C’è chi aveva fede nel sol dell’avvenire, c’è chi aveva fede nell’ambito di una tradizione religiosa, c’è chi aveva fede nella scienza, c’è chi aveva fede nell’uomo, c’è chi aveva fede nella Ragione. La fede come un’isola certa, un approdo. La Fede, che diventa gemella della Ragione, diviene quella condizione per la quale si può aprire la porta a una Ragione in grado di illuminare il tempo della vita di un uomo. Ora tutto ciò è andato in frantumi. 

Noi sappiamo bene quanto la scienza, accanto ai suoi straordinari successi, porta con sé il dubbio. Anzi oggi si è sempre più malfidenti, come se avessimo un rapporto sospetto nei confronti della grande narrazione d’Occidente. Ma la stessa cosa la vediamo nel discorso religioso, in quello politico. Il secolo che abbiamo alle spalle è un secolo tragico. Mi ha molto colpito quanto George Steiner in una sua lectio magistralis scriveva: «la distanza che separa il giardino di Goethe e la porta di Buchenwald è di solo 200 metri». Questo, al di là della metafora geografica, illumina tristemente quello che è stato il destino della Ragione europea dentro quei buchi neri che sono per tutti noi i luoghi di terrore, di cancellazione dell’umanità: Auschwitz e Hiroshima. Solo duecento metri separano i giardini di Goethe, il luogo in cui l’uomo d’Occidente ha costruito la sua meravigliosa e straordinaria macchina della Ragione, che coltiva la speranza nelle capacità di governare i soldati del Male, che ci inquietano, la catastrofe di guerra che ci circonda. Coma tenere a bada la barbarie, che abita furiosamente le nostre terre e i nostri mari infestati dal Male? Come trovare porti sicuri in cui è ancora possibile sognare la pace, gustare la dolcezza del vivere insieme alle tante brezze in cui cantano gli Angeli, che stanno nei cieli? Come udire ancora una volta le melodie e le tante canzoni che cavalcano le onde di mari divenuti amici, come accogliere la nostra vita navigante, che sogna tra marosi e porti sicuri di trovare una “casa”? 

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