L’autonomia etica relazionale nella soglia palliativa del fine-vita

Il becco del pellicano 

L’autonomia relazionale è una possibilità etica di autodeterminazione quando le scelte sono intessute di legami, dipendenze materiali e regole istituzionali. Nel fine-vita questo paradigma è decisivo: qui si gioca il passaggio dalla libertà astratta alla capacità concreta di dire “io” dentro un “noi” che può sostenere o soffocare.

Il rischio è confondere la “cura della relazione” con un ritorno al paternalismo, cioè con la sostituzione della volontà del paziente in nome del suo presunto bene.

Per evitare tale scivolamento, conviene leggere l’autonomia relazionale come procedura più che come una proprietà.  

La letteratura recente propone modelli che articolano soprattutto le dimensioni del soggetto, delle relazioni e del contesto, tracciando il processo decisionale mediante una chiarificazione diacronica dei valori, un confronto con interlocutori coinvolti, un’attenzione alle asimmetrie di potere e verificando la stabilità motivazionale: ne deriva una responsabilità condivisa e non una decisione “al posto di”, ma abilitando la decisione stessa, rendendo visibili ragioni, alternative e soprattutto influenze indebite.  

Nel campo delle cure palliative, la buona cura può certamente includere azioni protettive, ma la giustificabilità di interventi “paternalistici” dipende comunque dall’attenzione che si vuol dare ai concetti di proporzionalità, temporaneità e motivazione. La soglia critica è chiara, nel senso che occorre promuovere l’autonomia del paziente senza mai sostituirla: l’approccio relazionale mostra il suo valore, fornendo criteri per distinguere il sostegno dalla tutela surrogante.  

Una via promettente per conciliare nel contempo protezione e libertà è quella delle autorizzazioni prospettiche”, cioè controlli ex ante, collegiali e motivati, che distribuiscono gli oneri di giustificazione e limitano sia l’arbitrio del singolo clinico sia la burocrazia difensiva.

In questa cornice, la vulnerabilità non delegittima la volontà, ma attiva garanzie proporzionate e verificabili.

Nel caso, per esempio, di decisioni riguardanti l’eutanasia o il suicidio assistito, i dati qualitativi dal Belgio e dall’Olanda mostrano un coinvolgimento informale dei familiari che appare utile per comprendere valori e preferenze del paziente, ma rischioso quando si traduce in pressione o veto. Un approccio relazionale robusto facilita il dialogo e lo documenta, ma non delega la decisione a chi non porta il costo esistenziale dell’esito.  

Similmente, il dibattito francese del 2025 su “aide à mourir, affiancato da un piano per i “soins palliatifs”, ha mostrato come regole chiare e “garde-fous” mirati riducano il rischio di giudizi morali estemporanei, senza scivolare nel paternalismo sistemico. Poi occorre tradurre l’autonomia relazionale nella cura quotidiana, attraverso il lavoro narrativo nella loro “pianificazione avanzata” per far emergere valori e ambivalenze, stabilizzando le motivazioni anche attraverso rivalutazioni mirate del dolore, della depressione e delle influenze indebite; in caso di domanda di suicidio assistito occorre una doppia valutazione indipendente del razionale della richiesta e non solo della capacità di discernimento: queste pratiche alzano la qualità pubblica della decisione e riducono sia l’ostruzionismo sia il consenso frettoloso.  

Se si volesse confrontare l’autonomia relazionale con i quattro principi della bioetica, rispetto al primo, l’autonomia, si costaterebbe che, in chiave relazionale, non si tratta soltanto di una mera non-interferenza ma di una capacità situata di autodeterminarsi: la “prova” dell’autonomia richiede procedure che intercettino pressioni familiari o istituzionali, rendano visibili valori e incertezze, e documentino la stabilità della scelta nel tempo. L’esito sarà quello di abilitare la volontà, senza sostituirla, anche mediante colloqui strutturati e mediazione comunicativa.  

Per quanto riguarda il principio di beneficenza, il vero beneficio non coincide con ciò che il curante ritiene “migliore”, ma con ciò che restituisce al paziente il controllo dei sintomi, l’accesso realistico alle alternative di cura, un supporto decisionale: se si propongono atti protettivi, devono essere minimamente intrusivi, motivabili, temporanei e reversibili, al servizio della decisione del paziente.  

Il non essere maleficenti non concerne soltanto il danno clinico, ma anche l’ingiustizia epistemica che silenzia la voce del paziente, la pressione relazionale che distorce il consenso, la burocrazia che di fatto nega percorsi legittimi; ma anche l’opposto fa male e cioè l’adesione acritica in presenza di depressione non trattata o di dolore incontrollato. Occorre quindi essere doppiamente vigilanti.  

Per finire, anche la giustizia non deve apparire soltanto come uno sfondo, perché le disuguaglianze (sociali, culturali, funzionali) modellano direttamente le decisioni e quindi la giustizia deve esigere eguaglianza di accesso, standard omogenei di valutazione, limitazione di arbitri locali: cruciale è la sorveglianza dei dati per individuare errori di metodo (età, disabilità, status socio-economico) e il saperli correggere. Se così fosse, l’autonomia relazionale non sarebbe “un cavallo di Troia” del paternalismo, ma lo diventa solo quando rinunciamo alla qualità pubblica delle procedure, quando la voce del paziente è coperta da presunzioni, quando i limiti di protezione si trasformano in barriere d’accesso, quando il peso della garanzia ricade sul carisma del singolo: se la traiettoria migliore combina processi clinici tracciabili, garanzie legali proporzionate e controlli indipendenti, allora la protezione dei vulnerabili diventa tutela della loro voce e non agirà contro di essa. 

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