“Le parole che curano”

Etica ed estetica delle parole 

La comunicazione fra curanti e pazienti è definita sovente come un’arte che sa rifarsi ai concetti positivi, tra gli altri, di “ascolto empatico”, “narrazione”, “gentilezza” e “umanizzazione”, ma che sovente corre il rischio di trasformarsi in un formalismo retorico se non sono accompagnata da effetti concreti sul vissuto dei pazienti nel senso di una diminuzione tangibile della sua sofferenza, delle sue ansie e delle sue paure.  

Paul Ricoeur scriveva già nel 1992 (in Se stesso come un Altro) che «le parole possono ferire, ma possono anche guarire quando diventano azioni».

Si potrebbe dire che non basta che le parole siano “giuste”, ma che devono includere una responsabilità pragmatica per non limitarsi a una cosiddetta estetica della gentilezza e dell’eufemismo.

Emmanuel Levinas sostiene in Totalité et Infini che «rispondere all’Altro è già prendersene cura», ma questa relazione di cura deve produrre un cambiamento, diminuendo almeno il senso di solitudine e di abbandono e non essere soltanto percepita come gentile.  

Persino le Medical Humanities, che hanno il merito di cercar di mantenere la soggettività al centro della clinica, possono correre il rischio che la narrazione dei curanti diventi una nuova forma di estetizzazione se non è accompagnata da un’attenzione concreta ai suoi esiti:

Rita Charon, nel suo famoso libro Narrative  Medicine del 2006, insiste sul fatto che «l’ascoltare i pazienti è un atto medico solo se sa cambiare la cura che offriamo», sapendo intervenire, orientando e alleggerendo i loro dolori esistenziali. Diversamente, il rischio è quello di una comunicazione fluida, elegante, perfino poetica che, però, non sa ancorarsi alla verità della reale situazione clinica e crea così un disorientamento dovuto a una speranza ingannevole e a vaghezze linguistiche. Si potrebbe sostenere che la parola che cura è “concretamente situata”, obbligando il curante a controllare sempre se sia responsabilmente mirata al suo benessere, a costruire un significato vivibile.  

Sempre da un punto di vista etico, deve prevalere la vigilanza epistemica, cioè una consapevolezza critica che sa tenere a bada i propri pregiudizi, che evita manipolazioni emotive o retoriche tendenziose, scegliendo il momento giusto, sapendo non solo cosa dire, ma perché, come dire e, soprattutto, restando presenti anche nel dopo.

Le Medical Humanities possono contribuire attivamente a riconoscere il peso delle proprie parole e nella loro capacità di incidere nella vita del prossimo: il bioeticista Diego Gracia ci ricordava che una parola è terapeutica soltanto se è comprensibile, veritiera e compassionevole; con la stessa preoccupazione, Hans Jonas scrive che «il linguaggio ha un’etica implicita, perché dire è sempre assumersi una responsabilità». In questo senso, i percorsi formativi non dovrebbero limitarsi alla narrazione come fine, ma proporla come strumento per l’azione e il discernimento, insegnando a sfuggire dalla seduzione della fluidità, cioè dai discorsi e dai linguaggi ambigui che non si espongono alla responsabilità e alle critiche: un parlare fluido come un non dire davvero nulla.  

In definitiva, riformulare il lessico della comunicazione significa anche ridefinire con cura le attese, essendo consapevoli che, se le parole del curante non possono essere condivise dal paziente, allora esse si scontrano con il silenzio dell’altro, rimbalzando e magari spezzandosi: dovremmo cercare parole che ascoltano, aspettano e sanno farsi piccole: e quando nemmeno quelle bastano, occorre saper restare in silenzio, perché anche il silenzio, se abitato con rispetto, può diventare una cura.

Forse, affinché le parole abbiano davvero la possibilità di diventare una cura, il curante deve aver conosciuto la propria vulnerabilità:

Viktor von Weizsäcker, ben 70 anni orsono, scriveva in Pathosophie che «solo chi è stato toccato dalla fragilità della vita può parlare con autorevolezza al malato», forse, pensiamo, perché la compassione si matura e difficilmente si insegna. Nella capacità a non fuggire quando il dolore altrui interpella il nostro. 

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