L’esperimento “del tram” e l’invenzione del suo opposto
Intervista allo scrittore Dario Voltolini
Ho conosciuto Dario Voltolini e la sua produzione “tardi”, grazie al recente romanzo Invernale, uscito nel 2024 e finalista nello stesso anno al Premio Strega. Dico che l’ho conosciuto tardi perché Voltolini, classe ’59, è autore di racconti, romanzi, radiodrammi, testi di canzoni e libretti per il teatro musicale prolifico e presente sulla scena artistico-letteraria sin dall’inizio degli anni Novanta. Vi basti spulciare la sua pagina wikipedia per notare che di cose, in più di trent’anni di carriera ne ha pubblicate parecchie. Ma non solo… per farvi capire il profondo legame con la materia letteraria che possiede l’autore, vi dico che è anche stato, con Alessandro Baricco, tra i fondatori della “Holden” – la più importante e nota scuola di scrittura creativa in Italia –, di cui in passato ha fatto anche il direttore. Tornando a Invernale, posso sicuramente dare la colpa alla mia lettura di questo libro – bellissimo e con un nucleo tematico molto affine ad alcuni argomenti che trattiamo su questa rivista – se ho sentito il desiderio di chiedere allo scrittore torinese di fare due chiacchiere con me. Come noterete nell’intervista, io e Dario ci daremo del tu – concessione reciproca avvenuta sin dal primo bicchiere di rosso bevuto nel corso di una cena tenutasi dopo l’evento “Narrazione compassionevole” organizzato durante il Biblioweekend 2025 dalla Biblioteca Cantonale di Bellinzona in collaborazione con la Fondazione Sasso Corbaro, e nel quale Voltolini ha partecipato come ospite.
26 Maggio 2025 – Intervista, Arte, Medical HumanitiesTempo di lettura: 25 minuti
26 Maggio 2025
Intervista, Arte, Medical Humanities
Tempo di lettura: 25 minuti
Dario, partirei subito dalla scrittura. Tu con lei ci lavori da più di trent’anni… non solo per produrre le tue opere, ma anche come materia che insegni. Quando e perché è iniziato il tuo rapporto con la parola scritta sia come lettore che come scrittore?
Se devo andare alle origini del mio rapporto con la parola scritta risalgo al periodo delle scuole elementari. Mi piaceva moltissimo leggere il vocabolario che avevamo in casa e che, con l’enciclopedia, formava tutta la mia biblioteca. Mi incuriosivano moltissimo le parole, soprattutto quelle strane e sconosciute: quando incontravo lemmi misteriosi, tipo “luteo” o “fatiscente”, me ne impadronivo con allegria e poi cercavo di usarle nei “pensierini” scolastici, come ad esempio alla richiesta “descrivi cosa hai fatto domenica”, scrivendo “domenica ho visitato un palazzo luteo e fatiscente”. Facevo un figurone! Devo riconoscere che questa mia prensilità rispetto alle parole mai viste prima non ha più l’agilità di un tempo, e mi dispiace molto. Oggi, quando incontro una parola sconosciuta, fatico a memorizzarla. Purtroppo. È un segno di invecchiamento. Pochi giorni fa ho incontrato la parola “illicio” nel romanzo La donna della mansarda del mio amico Davide Longo e ho voluto impararla come facevo da piccolo, per una specie di manutenzione dell’elasticità lessicale. Tra qualche tempo vedrò se sarà stata un’acquisizione permanente come “luteo” e “fatiscente” o se se ne sarà tornata nell’oblio, come altre che ho incontrato e creduto di possedere e che invece sono svanite senza lasciarmi alcun ricordo.
Come lettore il mio rapporto con la parola scritta non è stato quello di un lettore, bensì di un ascoltatore di letture che mi faceva mio nonno, quando non sapevo ancora leggere. In particolare e fondamentale è stato Pinocchio, libro che non solo ho amato, ma che è anche diventato una profonda pietra di paragone per tutti gli altri libri che poi ho incontrato nella vita. Non nel senso della qualità, ma in quello di avere una “funzione Pinocchio”, cioè: ci sono libri che amo, tra questi ce ne sono di letterariamente altissimi, tra questi ci sono dei capolavori conclamati, tra questi ci sono i necessari che porterei sull’isola deserta (come si dice) e così via, sempre restringendo il cerchio. Invece un libro che per me ha la “funzione Pinocchio” fa parte di una lista indipendente e collaterale: è un libro che va a toccarmi dove mi toccò Pinocchio innescando in me la stessa reazione di massima felicità dell’immaginazione, mistero, paura, curiosità e vitalità fisica. Non necessariamente sono libri considerati capolavori (non necessariamente sono libri, possono essere altre forme espressive e persino persone, o luoghi, o…), anche se Pinocchio lo è.
Credo che il primo libro che ho letto per conto mio sia stato Il giornalino di Gian Burrasca, poi forse Cuore. Non sono un gran lettore, un divoratore di libri come lo sono molti altri scrittori e scrittrici che conosco, soprattutto non lo sono stato e varie volte nella mia vita ho passato anni senza leggere nulla. Per ritrovare l’incanto e il coinvolgimento provati leggendo quei primi libri (cui aggiungerei Ventimila leghe sotto i mari, Il libro della giungla – in chissà quali edizioni semplificate! – quelli di Salgari e il meraviglioso I ragazzi della via Pál) ho dovuto aspettare di incontrare, molto tempo dopo, la strana triade Hemingway, Pirandello e Kafka. Ancora successivamente è stato per me importante l’incontro con il primo libro che ho amato scritto da una donna, cioè Nettare in un setaccio, di Kamala Markandaya. E via così, mescolando poi senza criterio innamoramenti disordinati per Rabelais, Buzzati, Queneau, Jerome…
Insomma, sono stato un lettore rapsodico, raffazzonato, casuale. Ma, almeno, anche sempre curioso. Se fossi stato un lettore più sistematico e continuo sarebbe stato meglio, ma così è andata e caratterialmente sono rimasto tale e quale.
Di recente ho guardato sul canale Youtube della “Holden” una lezione di Alessandro Baricco durante la quale lui, a un certo punto, parla di te dicendo che una volta hai chiesto ai tuoi studenti di salire su un tram, chiudere gli occhi, concentrarsi solo sui suoni che avrebbero sentito e una volta tornati a casa scrivere di quell’esperienza. Mi dici cosa ti aspettavi da questo esercizio? (capisco che messa così, ti starai chiedendo se non sono rincoglionito e che diavolo c’entra questa domanda ma più avanti, prometto, ci ritorno).
Veramente mi chiedo quanto fossi rincoglionito io allora! Il fatto è che scrivere, praticare e frequentare letteratura e libri, gente che scrive e legge, oltre a essere una cosa meravigliosa è anche un po’ pericolosa, nel senso che chiudersi in una biblioteca è un modo di inaridire le fonti della creatività, nemmeno Leopardi ha fatto così. Quindi all’epoca consideravo parte dell’insegnamento della scrittura (cui io non sono portato e verso cui mantengo un atteggiamento sospettoso) fare e far fare cose che non c’entrassero niente né con il leggere né con lo scrivere. Non lo penso solo io, ovvio. Veronesi li mandava in giro a leggere nei citofoni nomi e cognomi che potessero prima o poi diventare quelli dei personaggi che avrebbero inventato. In particolare l’esercizio che racconta Baricco me lo ricordo più o meno. Ricordo che un giorno sono arrivato in classe con dei biglietti del tram che ho distribuito agli studenti e la lezione era quella di uscire e usarli a caso (la maggior parte degli studenti non era di Torino). Ma insomma, mi aspettavo che fare cose “normali”, però all’interno di una cornice e di una struttura didattiche, potesse essere un buon esperimento e un’indicazione per il futuro, cioè quella di sviluppare l’atteggiamento di vivere la quotidianità con il sospetto che possa entrare in qualunque momento e tramite qualunque cosa nella loro attività creativa. Va anche detto che io non so tuttora come e cosa insegnare, nel senso delle regole da dare, degli esempi da seguire, nemmeno di cosa evitare. Capisco l’importanza di tutto ciò, ma sono il meno adatto a farne un uso didattico. Io, per esempio, non ho nessuna idea di come vada scritto un incipit e meno ancora di come non vada scritto, idem per i dialoghi, le scalette, l’aggettivazione, niente. Posso però discutere con l’autore o l’autrice di un testo cercando di fare emergere meglio che si può quali fossero le intenzioni di scrittura, quali i punti in cui si annaspa, quali quelli in cui – magari senza saperlo – sì è fatta una cosa molto bella, e via così. D’altra parte anche un insegnante di nuoto più che insegnare regole astratte e nonostante tutti gli esercizi preparatori che può inventarsi, comincia a lavorare davvero solo dopo che li ha buttati in acqua.
La ragione di questa intervista – l’ho dichiarato nell’introduzione – è Invernale. Sai bene quanto io abbia amato questo romanzo in cui racconti della morte di tuo padre a causa di un tumore, avvenuta quarant’anni fa. Possiamo tranquillamente affermare che, sebbene questo tema in letteratura sia tutt’altro che nuovo, quello che rende il tuo romanzo diverso è questa prospettiva “a distanza”, questo sguardo su vicende personali avvenute ormai moltissimi anni fa. Come mai ci sei arrivato “solo” adesso a questa storia?
Cerco di rispondere nel modo più esauriente possibile, ma ti dico già che qualcosa resterà fuori da questa mia spiegazione poiché non so spiegarmelo perfettamente nemmeno io. Innanzitutto è capitato che quarant’anni mi sono sembrati una cifra sufficientemente “tonda” per fare qualcosa tipo una celebrazione della sua memoria, l’occasione buona per una commemorazione. Stavo lavorando ad altre due cose, ma quando mi è venuta in mente questa le ho messe in un angolo e mi sono dedicato a lei. Siccome c’era questo aspetto un po’ rituale, diciamo, mi sono dato altri due piccoli riti da osservare: cominciare a scrivere il giorno dell’anniversario della sua nascita e finire il giorno della sua morte, cioè dal 2 giugno al 24 luglio. Sono poche settimane e quindi ho scritto il libro in una sola tirata, cercando di raccontare gli ultimi anni della sua vita così come ormai mi si erano consolidati nel ricordo, restando il più possibile fedele al ricordo, cioè senza progettare niente a tavolino, nessuna struttura narrativa particolare o ad hoc, niente. E così ho fatto.
Probabilmente, se mi fossi messo a progettare per filo e per segno un libro su mio padre sarei ancora adesso qui a tentare di scriverlo. Invece così l’ho fatto, non dico alla cieca ma quasi, e sono persino riuscito a stare nei tempi, cosa che per me non è la norma. Non sono sicuro di avere narrato una storia, mi sembra piuttosto di avere descritto, a un possibile spettatore, un affresco già tutto presente sul muro, oppure una serie di situazioni come quelle che si trovano dipinte sui paraventi giapponesi che si trovano nei musei di arte orientale come il MAO che abbiamo a Torino. Affresco, o paravento, che negli anni si è formato nella mia memoria, nei miei ricordi, nella mia mente e, diciamolo pure, nel mio cuore e nel mio corpo.
A questa “scena” ho cercato di essere il più possibile fedele. Probabilmente i quarant’anni trascorsi sono serviti più a raggiungere una fiducia nel mio strumento, la scrittura, che non a elaborare la vicenda che è capitata e che in sé non ha nulla di eccezionale, se non per me. Dico strumento proprio in senso musicale: a furia di usarlo, il jazzista finisce per conoscere il suo sassofono al punto di usarlo tranquillamente dal vivo e addirittura nelle improvvisazioni. Non è che lui sia diventato più bravo, anzi magari si è persino un po’ sclerotizzato, è che quella cosa metallica ormai è una sua estensione fisica. Io la vedo un po’ così.
Poi però, se col senno di poi vado a rileggere i miei ultimi libri, vedo che la figura di mio padre cominciava a fare capolino qua e là, fra le altre cose e situazioni. E qui arriviamo alla parte che non so spiegarmi, dove appunto progetto, impostazione, decisioni consapevoli, volontà esplicita e cose di questo tipo non hanno peso. Credo che, in un modo o nell’altro, capiti così a tutti – o quantomeno a una buona parte di – coloro che cercano di produrre manufatti artistici, chiamiamoli così.
Tu sai – avendo io già avuto modo di parlartene – che uno dei miei maggiori interessi nel campo delle Medical Humanities, sono i rapporti tra scrittura e malattia. In particolare, quello che più mi incuriosisce è cercare di capire se la scrittura così detta “artistica”, quella che ritroviamo nelle opere letterarie tipo Invernale, possa “servire” non solo ai malati ma anche a chi si occupa di curarli. In quale modo, a tuo parere, il suo essere “artistica” la rende – se la rende – superiore in questo “servire”, rispetto a una scrittura non letteraria che ciascuno di noi può praticare?
Innanzitutto mi preme dire che l’incontro di Bellinzona a cui sono stato invitato e di cui ringrazio te e le persone della Biblioteca e della Fondazione è stato importante per me personalmente e come scrittore tenuto a riflettere costantemente sul proprio mestiere. Confrontarsi con ambiti diversi dal proprio è per noi fondamentale ed è raro che capitino situazioni in cui tale confronto è strutturato e oggetto di un esplicito “ordine del giorno”. Ciò significa che sono molto più numerose le suggestioni che ho ricevuto io da voi di quante possano essere quelle che io posso aver dato a voi.
Intanto trovo meraviglioso che un tema come quello della “narrazione compassionevole” possa trovare posto all’interno di un protocollo terapeutico composto secondo linee scientifiche di cura. Tieni presente che purtroppo nella realtà dei fatti vivo in un posto in cui può capitare, per fare un esempio, che un paziente oncologico si presenti per un’emergenza in un Pronto Soccorso e sia costretto ad aspettare delle ore, molte ore, prima di essere visitato. Ma, tornando al concetto di “narrazione compassionevole”, voglio provare a esprimere alcune delle riflessioni che mi ha suscitato.
Mi pare di aver capito che il punto della questione è quello di intervenire in quella che oggi, con un termine un po’ alla moda, chiamiamo “narrazione”: avvolgere il paziente, la sua patologia, le terapie, le ipotesi, le certezze in un racconto che soprattutto eviti di considerare la persona da un punto di vista meramente somatico, alle prese con le reazioni del proprio corpo sia alla malattia, sia alle cure; tenere viva e attiva un’immagine globale della sua vita; inserire gli eventi legati alla malattia in una rete di eventi che non lo sono, non lo sono stati e non lo saranno (ipotesi che va presa in considerazione sempre, a prescindere dalla malattia). Un aspetto di questa pratica mi è parso di capire che consista nello sforzo di comporre tale narrazione congiuntamente, come minimo tra medico e paziente. Un’altra cosa che mi sembra interessante è che tale “narrazione compassionevole” non faccia necessariamente parte della sfera di intervento di supporto psicologico fornita al paziente dalla struttura terapeutica. E a questo proposito la prima domanda che mi viene in mente è: possono esistere esperti di narrazione compassionevole, così come sono esperti, ciascuno nel proprio campo, gli psicologi, i chirurghi, i radiologi, eccetera? Perché se si stratta di un capitolo messo a regime in un protocollo, credo che la “narrazione compassionevole” queste caratteristiche dovrebbe averle. Però, se io sono stato coinvolto in quanto (in qualche senso) esperto di narrazione, devo per forza dire subito che la questione mi pare delicata e non chiara. Il presunto esperto di narrazione cosa può dare a chi quella “narrazione compassionevole” terapeutica dovrà di fatto implementarla? Per non nascondere nessuna perplessità, risponderei purtroppo “ben poco”. Il fatto è che la visione di chi sa narrare da un lato è chiamata a considerare ogni possibile aspetto del mondo e della vita, dall’altro – e proprio per questo motivo – rifugge tendenzialmente da specializzazioni, da “applicazioni” a questo piuttosto che a quell’altro aspetto dell’esistenza. D’accordo, sto facendo un discorso astratto, ma credo abbia un suo senso. Nel nostro incontro ho capito una cosa, cioè che è bene, proprio per ottenere un migliore successo terapeutico, che il chirurgo, per esempio, e il paziente che ha operato non limitino a questo intervento la loro mutua relazione. Spetterebbe in questo caso al chirurgo, insieme con il paziente, adoperarsi ad allestire e a mantenere una narrazione sul tipo di intervento, sulle sue dinamiche, sulle sue ragioni, sul contesto in cui è avvenuto, in maniera tale da non fare del paziente e del medico due persone che da un certo punto in avanti non sanno più nulla uno dell’altro se non nella freddezza dei controlli, della messa a punto del decorso, e così via. Questo, che mi sembra una cosa ovvia vista dalla sponda del paziente, come può essere data in carico a uno specialista che di interventi ne fa moltissimi, che deve essere infinitamente presente a se stesso nella concretezza del suo lavoro, spesso necessariamente focalizzandosi non sul paziente come persona, ma al contrario su particolari empirici, locali, tissutali senza alcuna distrazione, nemmeno quelle “umane”, per così dire? Ricordiamoci il crudo proverbio “Il medico pietoso fa la piaga verminosa”.
Sono stato chiamato a questo incontro per aver scritto Invernale, un racconto in cui affronto gli ultimi anni di vita di mio padre, dell’impatto che il tumore ha avuto su di lui e di conseguenza su tutto il sistema di cui faceva parte. Ciò che mi ha assai piacevolmente sorpreso è stata la reazione di molti lettori e lettrici che nella vita avevano passato periodi analoghi nella vicinanza con il malato e nel decorso della patologia e nelle speranze riposte nelle terapie. Contrariamente a ciò che temevo, cioè che la lettura del mio libro potesse riproporre quei momenti di dolore, il trauma della perdita della persona amata, la disperazione che pervade le ore e i giorni, mi è stato detto – con gratitudine – che la lettura del libro aveva, anzi, dato loro un senso di compagnia, di comunanza, di apertura a ripensare a quei momenti con affetto e calore. Ecco, in questo credo di aver composto, senza consapevolezza né tantomeno tecnica, una narrazione che a posteriori si è rivelata “compassionevole” nei confronti di quei lettori e di quelle lettrici. Questo mi riempie di sorpresa e tenerezza, ma è evidente che si tratta di un racconto che ha quell’effetto sui sopravvissuti, non vedo come una cosa analoga avrei potuto combinarla nei confronti di un malato. Anzi, di fatto non c’è stata nessuna narrazione con mio padre, né su di lui, in tutto quel periodo. Questo mi fa pensare di essere il meno indicato a dire cose sensate sulla “narrazione compassionevole” come la stiamo intendendo dal punto di vista terapeutico, e nemmeno in generale.
Mi verrebbe da dire che, una volta individuate le persone professionalmente incaricate di produrre “narrazioni compassionevoli”, potrebbe essere utile pensare per loro a una formazione. Tuttavia, quando ti ho paventato che i formatori, per come la vedevo io, sarebbe stato meglio identificarli in narratologi, insegnanti di scrittura creativa, esperti di letteratura, ho visto che non era affatto la tua idea: tu vorresti rivolgerti direttamente agli autori, ai narratori. E ho anche notato che il tuo punto principale è anche più ampiamente culturale e non solamente specifico e operativo. Tu trovi che la separazione tra la cultura medica (in quanto parte di quella scientifica) e la letteratura (in quanto parte della cultura umanistica) sia perniciosa ed esiziale, nonché appartenente a una vexata quaestio, quella delle cosiddette “due culture”. Per cui è anche in generale che tu vorresti aumentare l’osmosi tra questi due mondi (Medical Humanities, appunto). Trovo che sia in generale sia nello specifico terapeutico siano due cause ottime. Trovo anche che è già tanta manna dal cielo che siamo qui a incominciarli, questi discorsi. Ho sbrodolato: voglio solo aggiungere che la quantità di medici-scrittori che ho conosciuto, che conosco e di cui è disseminata la storia letteraria probabilmente seleziona in effetti fra gli scienziati i medici e fra gli umanisti gli scrittori coloro più portati ad affrontare l’argomento; inoltre voglio ribaltare la tua domanda, perché mi chiedi se e come gli scrittori possano essere utili alla riflessione medica, ma io so solo rispondere che il contrario per me lo è stato.
Come promesso, torno alla domanda del tram di prima. Dopo che abbiamo parlato di scrittura artistica e scrittura come mezzo funzionale di espressione di ciascun essere umano… mi chiedevo se questo tipo di esperimento, chiamiamolo “del tram”, potremmo pensare di proporlo anche ai pazienti e agli operatori della salute: farli fermare un attimo, chiudere gli occhi e provare a concentrarsi sul suono “della medicina”, “della cura”, su quanto succede in un ospedale, in una sala d’attesa, in una camera di degenza, all’interno di una sala operatoria. Pensi potrebbe avere un qualche valore?
Qui mi viene da condensare tutto il pistolotto fatto prima. L’esperimento “del tram” secondo me non è utile ai pazienti e soprattutto agli operatori della salute, anzi bisognerebbe caso mai inventarne uno opposto. Là si trattava di abituare chi voleva raccontare storie a incuriosirsi anche a fondo perduto di tutto ciò con cui potevano venire in contatto. Qui si tratterebbe di abituare chi è così potentemente e spesso spietatamente messo in contatto con il crudo dato della realtà a individuare germi di possibili narrazioni (in generale: elaborazioni su piani simbolici) in ciò che sembra disperatamente non permetterne alcuna ed essere paralizzato nella mera, crudele, inarticolata empiria.
Pensiamoci, se vuoi.
La domanda precedente era un po’ una provocazione, un mio tentativo di capire con te se può aver senso – io ci credo fortemente – far dialogare concretamente gli artisti con gli scienziati e viceversa. “Allora sappi che sono a disposizione” recita la dedica che mi hai scritto sul frontespizio della mia copia di Invernale. È stato il modo di farmi capire che tu, in un eventuale progetto “di dialogo” tra questi due mondi, saresti disponibile a partecipare. Cosa pensi che possa restituire a chi come te fa lo scrittore un’esperienza di confronto con chi si occupa della cura dei malati? E cosa tu come artista potresti ricevere da loro?
Ribadisco che “sono a disposizione”. Ti segnalo come inconsciamente tu creda di avermi posto in chiusura due domande simmetriche, ma invece sono la stessa domanda. A cui rispondo che non lo so nello specifico cosa potrebbe ricevere uno che appartenga al “mio mondo” da coloro che appartengono all’altro, ma qui sta il bello, perché credo che se qualche caratteristica positiva le persone del mio mondo ce l’hanno, questa è una curiosità di fondo, inalienabile e potente, verso ciò che non sono, ciò che non sanno. Se, come sospetto, tu volevi anche chiedermi cosa potremmo dare noi a loro, rispondo che lo so ancora meno. Ma voglio sperare che non sia nulla, anzi confido che sia qualcosa: qualcosa che ha a che fare con l’immaginazione e la memoria.
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