Lontananze
Terre di ghiaccio, terre di fuoco, terre di vento
30 Gennaio 2025 – Psyché, ArteTempo di lettura: 14 minuti
30 Gennaio 2025
Psyché, Arte
Tempo di lettura: 14 minuti
Lontanamente lontano
La lontananza mi seduce e mi spaventa. È l’opacità dello sguardo a perdita d’occhio e insieme la prossimità del dolore, che sorge con lei. La lontananza abita infatti il cuore dell’uomo con la sua sottile brezza di nostalgia, di sofferente amore per le cose perdute, di ansia nell’attesa di un nuovo luminoso giorno e poi nella delusione di ciò che non può più accadere, mentre i ricordi evaporano.
La lontananza è capace di smarrire e poi cancellare, adagio adagio, i rumori, le voci, i volti familiari della nostra casa.
È l’orizzonte sfuocato dove tutto può confondersi e annegare nel mare della memoria perduta, ma è anche tensione dello sguardo e della parola bagnata nel sentimento capace di far risorgere ciò che sembrava morto. Nello stato di annichilimento, che si verifica quando la lontananza diviene buio, il passato e il presente si confondono e la perdita del paesaggio geografico familiare corrisponde alla perdita del paesaggio psichico occupato.
«Raccontare la lontananza – scrive nell’incipit Antonio Prete nel suo bel libro Trattato della lontananza del 2008 – è dare presenza a quel che è sottratto alla presenza. Pensare la lontananza è dare configurazione e un ritmo all’invisibile, una lingua all’irraggiungibile». L’esilio, l’esodo, il nomadismo metropolitano e digitale e infine la fuga, verso un ipotetico puerto escondido dentro o fuori di sé sembrano assumere ancora una volta il valore di indicatori esistenziali di una vita e di un mondo divenuto più difficile e più rischioso. Il ritiro dal mondo dei giovani hikikimori, la chiusura settaria, il mondo fanatico e fondamentalista di chi pensa di avere la verità sono forme di questa fuga, che fa l’uomo fuggitivo da se stesso e dal mondo nella frenesia metropolitana, che vuole possedere il mondo, così come nella chiusura melanconica o nel ritiro autistico della follia. Ognuna di queste esperienze esprime con tonalità e forme diverse una spaesatezza da se stessi, dal proprio corpo, dalla propria “casa”, dalla propria vita. Una spaesatezza che, come scriveva Heidegger, «diviene destino mondiale». Una spaesatezza che può divenire malattia della pische o del corpo o di entrambi, un mal-essere, che però nessun codice psicopatologico riesce veramente a governare. Una malattia di tutta l’esistenza contro cui fuggire, partire, lasciare l’abituale oramai contaminato per terre vergini e illusoriamente pure.
La fuga di chi non ha più “casa”.
C’è chi non ha più casa perché scacciato, in fuga dal terrore e della violenza sanguinaria di uomini divenuti bestie, chi invece non ha più casa perché sta là, dove la sua casa sembra evaporata sradicata da ogni radice, venduta al miglior offerente per denaro, c’è chi non ha più casa, perché il proprio paesaggio interiore è oramai immerso nei fumi di guerra tra i tanti mondi che ci abitano, e la città dell’Io oramai è posseduta e violentata dai predoni che vengono come spettri dalle “terre del Nulla”.
Qui la lontananza diviene dolore acutissimo come ultima traccia dolorosa di ciò che si è perduto inesorabilmente per poi spegnersi nel silenzio di una quasi impercettibile perdita di anima. Contro questa catastrofe esistenziale, che ci fa tutti potenziali esiliati, tutti migranti e viaggiatori dentro e fuori di se stessi, tutti anime smarrite nell’opacità della lontananza, tutti esposti ai fantasmi e alla finzione, che la lontananza sa generare, ci sentiamo vulnerabili. Costretti a rifugiarsi nelle piccole cose, così vediamo chi esule vaga nel mondo, un pezzo di tenda per proteggersi, un giaciglio improvvisato. Nei campi profughi, sparsi oramai in molte parti del mondo, si ritrovano individui erranti, in “terre di nessuno”, in una sorta di irreale zona di confine tra la vita e la morte, in cui l’identità individuale e collettiva di quelle genti sembra a volte cancellata, altre appena ricomposta attorno ad un fuoco in cui le famiglie tentano di ritrovarsi.
L’uomo ha bisogno di “casa”, disperante il suo errare quando la “casa” è perduta e il legame fondativo è smarrito o cancellato. Dobbiamo alla grande filosofa spagnola Maria Zambrano nel suo Lettera sull’esilio del 1997, il tentativo di definire una vera e propria fisionomia interiore dell’esiliato. Descrive la condizione di “orfanità” dell’esule e del fuggitivo del suo galleggiare sulla storia divenuta sabbia che fugge via dalla mano che prova a stringerla, la vulnerabilità estrema di fronte alla vita, l’interiorizzazione del deserto, che ti fa affamato e assetato, la ricerca della sconosciuta isola o del miraggio di salvezza su cui appoggiarsi.
L’esilio, l’esodo e la fuga, come figure tragiche della lontananza inguaribile, possono però anche aprire alla parola, che si deve accogliere e custodire, ma anche drammaticamente al silenzio siderante di chi non ha più voce e di chi non ha più qualcuno che lo ascolti.
La lontananza così diviene eco di una insanabile ferita, da cui, come suggerisce Jabès, un grande poeta proprio dell’esilio, parliamo ma di cui «ignoriamo sempre l’origine». «Sono poche le situazioni, come quella dell’esilio, – e aggiungerei del nomade, del fuggitivo e di colui che si incammina sulla strada dell’esodo –, in cui si presentano, come in un rito iniziatico, le prove della condizione umana». Esperienze di sottrazione, di de-territorializzazione sociale e psichica, di quel «non vi è più posto dove stare», evocato da Rilke. Aiutiamoci a ritrovare “casa”, che è sorgente e radice, poiché è proprio la radice il ramoscello, canta Vinicio Capossela, ove si posa l’anima.
Corpi in attesa
La lontananza ospita corpi in attesa. Ma che cosa è l’attesa, quell’attendere, quel tendere verso, che batte il tempo della vita, a volte con felice eccitazione, altre con doloroso sentire per qualcosa che sembra arrivare ma che ancora non arriva? Un tema antico, che ci accompagna, come ha accompagnato l’uomo sin dalle origini e nello stesso tempo attualissimo in una stagione che sembra aver smarrito proprio l’arte dell’attendere. Un tema che lega a sé quello della sorpresa e dell’evento e persino del miracolo, che è attesa in senso più estremo, poiché nel miracolo si aspetta tutto in una sorta di estasi dell’attesa. Radicale sono infatti le domande che l’attendere e l’attesa contiene, costante e invasiva la sua presenza sin nelle piccole cose della nostra quotidianità.
Ricordo un’intrigante mostra di sculture di Luigia Pult dal titolo tanto semplice quanto evocativo, L’attesa. Questo ricordo è l’occasione preziosa, proprio grazie alla coinvolgente espressività delle sue opere, raffiguranti donne in attesa del loro figlio, che sembrano con il loro corpo e nel loro stesso corpo catturare e fermare il tempo, per domandarsi che cosa sia veramente l’attesa. Condizione umana per eccellenza, che tutti viviamo e crediamo di conoscere, crocevia di tre vettori dell’esistenza, che in essa giocano una parte fondamentale, il corpo, il tempo e lo spazio. L’attesa li abita tutti e tre, a volte come un familiare di cui si conoscono le abitudini, altre come uno straniero.
Le opere di Luigia Pult raccontano a prima vista qualcosa di assolutamente familiare, come il corpo femminile nella gravidanza, ma anche di perturbante, come se quei corpi fossero consapevoli di essere esposti al mistero e alla tragicità dell’attesa. Corpi che sfidano nella loro fissità il tempo e si immobilizzano in un’attesa sino al dolore. Sono figure esposte come se stessero sul davanzale della vita stessa, figure che guardano colui che deve arrivare, colui che viene da fuori mentre è già tutto dentro nel loro corpo.
L’attesa infatti contiene, al di là del suo attimo di eccitata felicità, una dimensione tragica, inesorabile e incancellabile; contiene la condizione di chi è comunque obbligato ad attendere.
L’uomo è infatti colui che è condannato ad attendere, che è imprigionato nell’attesa di ciò che illusoriamente colmerà l’assenza, la mancanza che lo abita per poi ritrovarlo nuovamente ad attendere in un ciclo che non ha mai fine.
Perché il miracolo avvenga bisogna sospendere o congelare il tempo. L’attesa è così sospensione del tempo in cui la coscienza possa rimanere senza distrazioni esposta a ciò che deve ancora arrivare. L’arrivante è infatti nel desiderio, è nella felicità in attesa di sbocciare, come un fiore ai primi tepori primaverili, ma anche nello stesso tempo nell’angoscia di un imponderabile, che potrebbe rendere tutto vano. L’attesa sa inoltre di essere sempre accompagnata da due gemelli minacciosi, la noia e la frenesia, che a volte ne scolorano i gesti e i sentimenti e da cui cerca di sottrarsi proprio cercando di accorciare l’attesa stessa. L’attesa è infatti a volte soddisfatta, ma mai veramente compiuta. Così non possiamo che continuare ad attendere. L’attesa è come se accartocciasse il tempo in un solo punto quello della cosa attesa. La letteratura è ricca di figure della sospensione del tempo, come il Bartleby, lo scrivano, di Melville (1853) e il suo “preferisco di no” di fronte agli ordini dell’avvocato che lo aveva assunto oppure il Jacob von Gunten di Walser ( 1909) che al contrario agli ordini risponde “lo farò volentieri” per poi impiegare un tempo infinito per scrivere il suo curriculum o ancora il racconto di Borges in cui un uomo cerca di sottrarsi al suo assassino assumendo il nome del suo assassino per ingannare l’attesa e dunque la Morte.
L’attesa è dunque stoffa della nostra stessa esistenza, non c’è bisogno di attendere qualcosa o qualcuno per attendere.
L’attesa cerca il suo ritmo tra tensione, distensione e nuovamente tensione, come fosse l’interruttore della cinetica stessa della vita. Quando non vi è più nulla da attendere vi è solo agitazione scomposta, noia o immobilità. L’attesa infatti è capace di cancellare il presente che diviene indifferente a colui che aspetta. Ci immaginiamo all’angolo di una via aspettando intensamente che qualcuno giunga. Vivremo una sorta di restringimento del tempo in cui tutto verrà velocemente assorbito da quel focus immaginario, in cui l’arrivante può arrivare, in quel punto anche crudele, poiché nell’incontrollabile della vita colui che deve arrivare può anche non arrivare. È il tempo breve dell’attesa amorosa, quella del desiderio, fragile esperienza minacciata, già qualche istante dopo, da quel movimento agitato che vuole accorciare il tempo che resta, per poi infine sprofondare in quel tempo lungo e paludoso, che è appunto la noia. Ricorda Schopenhauer che «quando non si soffre più nell’aspettare, facilmente ci si annoierà del possedere». Una frase che illumina la condizione della nostra quotidianità, che ha perso la capacità di aspettare, che non conosce più la sua sottile sofferenza, che pensa di dovere avere tutto a portata di mano, sotto mano, immediatamente, non sapendo che così condanna a morte la vita stessa e il meraviglioso miracolo dell’esistere. È a questo meraviglioso e tragico spettacolo del vivere, che le donne gravide di Luigia Pult, guardandole, ci espongono.
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