Lucciole danzanti quando viene la notte
Terre di ghiaccio, terre di fuoco, terre di vento
30 Giugno 2025 – Psyché, LibertàTempo di lettura: 13 minuti
30 Giugno 2025
Psyché, Libertà
Tempo di lettura: 13 minuti
Cercavo, nei cieli notturni tra la primavera e l’estate, le lucciole danzanti che guardavano il mare. Lucciole che con la loro bioluminescenza erano capaci di rendere magico il mondo. Tante volte ho sognato il mare, le lucciole e le loro minuscole luci, che abitavano ai bordi dell’oscurità. Tante volte da bambino mi pareva di incontrarle, raramente ho potuto vederle. Tuttavia il mio cielo luminoso e il mio mare stavano già tutti in quel sogno, in quell’orizzonte azzurrissimo, in quella palla rossa di sole, che cadeva al tramonto dietro la linea dell’orizzonte, laggiù nell’infinito, nei gelati che avrei potuto mangiare ammirando il banco di gelateria dai mille colori.
Quanto sarebbe bello ritrovare lo sguardo affascinato e stupito del bambino, che si preparava ad andare ad incontrare la notte.
Uno sguardo che scopriva e svelava l’incognito, l’avventuroso, l’imprevisto di quel diverso tempo della vita, che dovrebbe essere la vacanza, accarezzato dalla brezza del mare, di cui si sente il fremito già in autostrada o nell’ebbrezza delle montagne, che nascondono boschi incantati. Quanto sarebbe bello sfuggire all’abitudine, al tempo veloce, a volte persino frenetico, agli spazi quotidiani del lavoro e della casa, per ritrovare un po’ di quella nostra infanzia lontana e spesso dimenticata. Quando l’attesa di quelle partenze conteneva già tutta la gioia di quello che avremmo poi vissuto o incontrato, quando sentivamo veramente il tempo dilatarsi, quasi a non finire mai, quando gli orizzonti si facevano tanto ampi da dipingere paesaggi incantati, quando il nostro corpo si liberava come se stessimo danzando come lucciole, quando si poteva cenare al chiarore della luna, perché domani era tutto per noi, allora era vermente vacanza.
Quel tempo con le sue luci, con le sue lucciole notturne ha una relazione intima con l’amore, con la passione, che dà fuoco ai nostri segreti e ai nostri desideri. È il tempo per alcuni di viaggiare nel silenzio colorato della propria intimità e per altri di vivere nell’eccitazione di quello che potrebbe accadere, come all’incontro dei primi amori adolescenziali.
È il tempo del volto felice della nostra nostalgia.
Sono infatti i bambini i maestri di questo tempo, perché ne sanno ascoltare e sentire i ritmi, le atmosfere, le melodie. Quando tutto ciò tace resta solo la ripetizione del medesimo, l’affacendarsi faticoso delle prenotazioni, dei bagagli e delle partenze, spesso intruppati come se fossimo formichine guidate da non si sa quale padrone. Non tempo liberato dunque, ma tempo solo libero e sovente solo diversamente imprigionato. Educare alla vacanza ha così lo stesso valore esistenziale dell’educare al lavoro o per i giovani allo studio. Non tocca alle pur competenti agenzie di viaggio o alle guide per le vacanze intelligenti, ma alla famiglia.
È nella famiglia, quando si ha la fortuna straordinaria di averla, anche se quasi sempre imperfetta e a volte persino litigarella, ma comunque viva, che possono, contro tutte le intemperie della vita, essere costruiti e nutriti i sogni.
Il richiamo alla realtà è certo doveroso e necessario, per far comprendere ai figli il cuore di gioia che sta paradossalmente anche nella fatica e nel sacrificio, ma è nel sogno, nell’utopia e nella passione della vita e per la vita che si cela per la famiglia il suo compito più vero. Senza questo comune e condiviso nutrimento tutto arrischia di divenire funzionale, ma sterile, privo di quel fascino di cui tanto i giovani hanno bisogno.
Famiglie troppo chiuse su se stesse o troppo aperte al mondo esterno e troppo vittime dei miraggi effimeri, di cui la società ci nutre e a volte ci intossica quotidianamente, avranno molta difficoltà a coltivare il sogno. Avremo magari una comunità più efficiente, ma sovente triste. Il tempo della vacanza non è così un tempo marginale, anche se piacevole, un tempo che attende solo il momento di riprendere le occupazioni più serie, al giungere delle prime piogge agostane o al termine delle due settimane in cui è ridotta l’antica villeggiatura, ma essenziale. Indicatore fondamentale della qualità dell’esistenza individuale e collettiva. Contiene infatti le virtù inattuali della distrazione, del piacere del dettaglio, delle sfumature, dell’ascolto dei ritmi del giorno e della notte, del corpo liberato, al di là dei luoghi di lavoro, dei banchi di scuola o delle palestre cittadine.
Liberare i corpi, dilatare tempi, aprire gli spazi, questo il cuore più vero della vacanza, nei suoi momenti di ozio come in quelli del suo dinamismo.
Orizzonti e paesaggi, che gli sguardi brillanti e gioiosi dei bambini, in queste prime giornate estive, già ci prefigurano. Basta, come lo sanno fare loro, guardarli con altri occhi.
Uno sguardo che può mutare la nostra stessa identità tra dispositivi apollinei, ove tutto deve essere ordinato e dispositivi dionisiaci ove tutto può essere fascinosamente ma anche pericolosamente disordinato. Le vacanze, il tempo liberato delle vacanze rompono i codici, aprono ad un Altrove, ad un Altrimenti, che può sottrarci dalla noia quotidiana e fare da campo di gioco per le mie lucciole e le stelle del cielo che mi invitano a giocare. Lontano dalla noia abita la mirabilia. Ma come sottrarsi dai codici della noia e della banalità del già accaduto? Come vivere in altri orizzonti rispettosi di altri codici. Che strane parole, codici, dispositivi psico-antropologici per parlare della mirabilia delle lucciole. Come parlare del codice del Regno della salute totalitaria? Non penso al codice della strada o al codice civile, ma a qualcosa che a volte silenziosamente e sempre impercettibilmente ci veste, come fosse un abito da vecchio collegio, per dire e testimoniare chi siamo e che cosa ci facciamo qui! Dunque una sorta di codice identitario, che in epoca di grande individualismo e delle ingannevoli mitologie dell’autodeterminazione in ogni campo e in ogni dove, è divenuto invisibile e piccolo, solo un segno, una traccia, una barra d’identificazione. Condivido pienamente quanto scrive il filosofo della religione Bernhard Casper, «in quanto uomini, ci troviamo determinati da una formalizzazione onnicomprensiva. Sembra che ci sia lecito essere uomini soltanto in quanto accettiamo di essere funzionari di un sistema, in quanto cioé abbiamo un codice: un codice fiscale, un codice per l’assistenza sanitaria e altri codici digitali che ci rendono funzioni formali di sistemi». Nulla di nuovo, si dirà. L’uomo è da sempre stato normalizzato, numerato, obbligato in ordini di comportamento e persino di sensibilità, ma nello stesso tempo da sempre ha aspirato a guardare il cielo, a liberarsi dal vincolo che lo stringeva al suolo impedendone il volo. Un’aspirazione messa a tacere solo in alcuni cupi momenti in cui il grado di intossicazione mentale è stato così invasivo da produrre non più uomini ma cloni o, come diceva Sciascia nel suo Il giorno della civetta, «quaquaraquà».
Un volo che ha il sapore dell’utopia, di un altrove fatto di altri mondi e insieme il mistero del sogno. Ma come sfuggire oggi a quel vincolo, a quel codice che dice “Io esisto”, senza il quale ci sentiamo smarriti, senza identità? Un codice corporeo divenuto biologico, appartenente al nucleo più profondo e intimo della nostra stessa esistenza. Un codice corporeo che percorre e ordina tutti i nostri comportamenti alimentari, i nostri movimenti dividendoli “scientificamente” in sani o malati, in giusti o sbagliati. Si fabbricano così vieppiù uomini somatizzati, biologizzati, uomini corporei, che realizzano la profezia dello Zarathustra di quel grande diagnostico del nostro tempo che fu Nietzsche quando scriveva «Io sono tutto corpo e nulla fuori di questo». Uomini che cercano comunque la liberazione. Ma dove, come e con chi? Queste le domande che si nascondono in tanti malesseri e in tante malattie dell’anima e del corpo del nostro tempo, a cui il curante spesso risponde medicalizzando e farmacolizzando ancor più quel corpo privo di senso. È il Regno della salute totalitaria di cui parla Roland Gori e Marie-José Del Volgo. Ma da questo Regno come partire? Come assentarsi per un momento senza rimanere prigionieri del miraggio, come partire con il sogno balsamico della vacanza quando anche questa è costretta in comportamenti, mode, stereotipi, codici e carte di credito?
Stiamo oramai quasi tutti preparando mentalmente o già concretamente la valigia per le vacanze (sempre più brevi, senza nemmeno il tempo di cambiare sguardo, di sentire altri profumi, di udire altre voci, di lasciare il proprio pensiero soffermarsi sul proprio sogno) e credo tutti nel proprio segreto nutriamo la speranza in un piccolo miracolo, che il più delle volte non si realizzerà, incanalati come saremo nei circuiti del peggiore turismo di massa, ricacciandoci al ritorno in una quotidianità fatta da percorsi sempre più obbligati. Una vacanza senza sogno, senza lucciole danzanti, senza la possibilità di guardare oltre, una vacanza ove depositare solo un corpo stanco e incapace oramai di curarsi con l’ozio, con quella passività attiva che abita nel profondo di noi e non nelle cose che si fanno, è un tempo spesso malato. Il tempo delle lucciole è quello, indipendentemente da dove si andrà e da che cosa si farà, capace di liberare la mente, di fare posto dentro di sé all’accadere improvviso dell’inatteso, che può stupire, meravigliare, a volte anche spaventare, nello stesso tempo quello in grado di permetterci di meditare. Parola antica e forse oggi desueta, ma sempre abitata dai folletti e dai paesaggi dei nostri sogni di cui le lucciole danzanti sono sentinelle. Che questi sogni e queste loro briciole luminescenti di cielo, possano essere veri resistenti al dominio dei codici e capaci di aprirsi alla Vita.
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