Malati

Popolo di santi, eroi e combattenti 

Sempre più di frequente ci si imbatte in critiche all’espressione “battaglia contro il cancro”, entrata nell’uso comune.

Ad essere contestate sono parole che si suppongono non scelte direttamente dalla persona malata e si reputano irriguardose nei suoi confronti, poiché combattere implica una vittoria o una sconfitta di cui il paziente sarebbe responsabile, sebbene dalla patologia non derivi alcun merito o colpa.

Questa posizione, tuttavia, se non approfondita rischia di diventare una scorciatoia analoga a quella che si aspira a spodestare. Proviamo, pertanto, a vederci chiaro.  

Nel saggio Io sono salute, Nicola Gardini taccia di inutilità, distorsione della realtà e diffusione di immagini negative le metafore belliche impiegate in tempo di Covid. Il linguaggio militaristico viene ugualmente respinto dall’autore quando al compagno Nicolas viene diagnosticato un cancro. In questo accostamento di due patologie differenti, a stonare è l’equiparazione del discorso pubblico, collettivo, a quello privato, dei singoli vissuti: da un lato l’umanità intera (che Gardini colpevolizza per la pandemia) e la comunicazione di massa, dall’altro la coppia segnata dal cancro e la personale concezione della malattia. In alternativa, Gardini propone una visione “condominiale” che enfatizzi, per il Covid, le reali cause della patologia e l’essenzialità della prevenzione, concependo la pandemia come una portentosa lite con al centro vicini (i virus) molto irritati. A dire il vero, tuttavia, la metafora del condominio sminuisce la portata del fenomeno e non è da meno in rapporto al cancro. È poi difficile immaginare che di fronte a un’emergenza o a una diagnosi conclamata di tumore l’attenzione verta più sulla prevenzione che sulla soluzione del problema presente.  

«Usare la lingua con piena consapevolezza», come auspica Gardini (2023, p.155), significa anche riconoscere che alcune metafore, persino le stesse, funzionano in certe situazioni, ma non in quadri diversi, e che quindi non vanno condannate a priori.

Gardini se ne ricorda quando si sposta sul piano della relazione tra curante e paziente, osservando che il secondo, con l’aiuto del medico, ha il potere di intervenire liberamente sul valore delle metafore associate alla propria malattia. Di conseguenza: suggerire (magari da sani) a un malato combattivo di non paragonare il cancro a un nemico, quale beneficio apporta e soprattutto a chi? Le cellule tumorali certamente non si sentiranno offese, mentre il malato, probabilmente, avvertirà di non essere nemmeno più padrone della propria reazione alla patologia.  

Le ingerenze e le aspettative di chi vuole il malato più placido o vivace, più pacifista o bellicoso, a dispetto del suo sentire, sono da evitare.

Analogamente, sono controproducenti le esortazioni a combattere da parte di personale sanitario e familiari che si rivolgono a un infermo privo di energie da investire in una facciata di determinazione e gaiezza. Senza contare che i curanti incoraggiano il morale alto del paziente per assicurarsi l’obbedienza all’iter terapeutico proposto, in quanto una solida volontà di lottare favorirà l’accettazione dei provvedimenti presi dall’autorità medica. In più, incitare a non abbattersi e a mostrarsi valorosi protegge curanti e cerchia privata dalla dimensione emotiva della sofferenza, fatta di sconforto e angoscia, che non si è in grado di affrontare, per cui si chiede implicitamente al paziente di occultare quegli stati d’animo. Il «diktat sociale di essere un combattente» diventa allora un «portamento da lottatore» che «costa molta fatica» (Sozzi, 2019, p.88). 

Al contempo, risultano inopportuni gli inviti a desistere da attitudini che il malato abbraccia spontaneamente perché giovano alla sua causa e sono in linea con lo spirito con cui ha condotto la propria esistenza fino a quel momento,

come avviene a Salvatore Iaconesi dopo la diagnosi di un tumore al cervello: «Il rituale del taglio dei capelli ha avviato il processo della mia trasformazione in un “guerriero”, il cui scopo era di sovvertire la trasformazione che mi era stata imposta, per riappropriarmi della mia umanità. […] Divenni un guerriero» (Iaconesi, Persico, 2016, p.73).

In questo caso, si sceglie un ruolo più consono di quello imposto.

In La cura, scritto insieme alla compagna Oriana Persico, Iaconesi racconta della nascita del sito web su cui ha deciso di mettere a disposizione degli utenti la propria cartella clinica, per trovare il trattamento adeguato al tumore attraverso una discussione generalizzata, al di fuori dagli ospedali in cui si era sentito espropriato della sua umanità, estraniato dai processi decisionali legati alla terapia: «Era in corso una lotta, una vera guerra, e Sal ha abbracciato le sue armi: l’arte e il codice. […] La Cura è il grido estremo di un individuo che si riprende la propria umanità. Un individuo in possesso degli strumenti culturali e tecnologici per affrontare questa battaglia, ma soprattutto in possesso di un desiderio e di una volontà infinita. […] Trovare la porta di un sotterraneo nel palazzo del potere, forzarla e consentire a tutti di entrare: la Cura è un’occupazione, l’invito a un rave, una performance in cui la polifonia e le mille voci del mondo emergono sul principio autoritario per riappropriarsi della complessità che compone il reale. […] finché avesse avuto un grammo di vita in corpo l’incursione sarebbe continuata. Se questa era l’ultima festa, se ne sarebbe andato in grande stile, in sella, irreverente, con una risata» (ibidem, pp.124-126). 

In La cura l’esperienza del cancro è tanto una guerra quanto una performance, un rave e una festa. Oltre ad aver ideato una risposta individuale, a misura delle proprie esigenze di persona e paziente, Iaconesi è riuscito a rendere la sua battaglia una vicenda condivisa e inclusiva, con una strategia precisa, un nemico contro cui mobilitare le forze e delle alleanze da stringere. Se concepire in questo modo la sua esperienza ha avuto benefici sul suo percorso e su quello di altri malati, perché ostinarsi a imporre una visione differente? A quale scopo presumibilmente più elevato del benessere dei malati stessi?  

Occorre inoltre essere prudenti nel rifiutare di fare del malato un guerriero per elevarlo invece ad eroe, intendendo non qualcuno di agguerrito, ma un esempio di serafica prosecuzione della vita in barba alla diagnosi. In breve, un modello di comportamento a cui attenersi secondo aspettative altrui: la logica è la medesima dell’imperativo sociale a lottare. Gardini parla esplicitamente del compagno Nicolas come di un eroe e un esempio di salute nella malattia, proprio per la sua capacità di non rinunciare a viaggi, corsi e piaceri malgrado il cancro. Eppure, l’autore confessa di aver perso di vista un dato di fatto, ossia che Nicolas soffre. Pospone, così, la ricerca di un aiuto: «Esitai per timore – timore stolto o dannoso – che, incoraggiando Nicolas a sottoporsi a una terapia antidolore, lo dessi per finito. Io, invece, non avevo smesso di aver fiducia nelle sue forze fisiche e mentali. […] Insomma, la situazione era grave, ma Nicolas riusciva a dominarla. Questo il mio errore: pensare che, non soccombendo al dolore, lui non soccombesse al cancro; scambiare il dolore per la malattia e la capacità di convivere con il dolore per vita. […] Nessuno dovrebbe mai avere male in alcuna parte del corpo, e i familiari e i medici questo devono impedirlo in ogni modo. Io senza dubbio lo impedii a un certo punto, quando mi fu chiaro che Nicolas mi chiedeva di decidere per lui, ma avrei potuto impedirlo già due o tre mesi prima» (2023, pp.158-159). 

Non c’è colpa se la malattia ha, nonostante i nostri sforzi e quelli medici, la meglio su di noi. Ma non è innocente nemmeno pretendere una vittoria a ogni costo, come guarigione o anche, con prognosi infausta, come condotta ineccepibile, sulla base di attese culturali e sociali, che fanno di noi un modello a cui guardare.

Vinciamo tutti, malati o sani, vivendo pienamente e secondo i nostri mezzi; ma perdiamo tutti comunque, malati o sani, perché la vita la perdiamo, alla fine, in ogni caso, indipendentemente dall’avere un cancro incurabile.

Cancellare l’idea di sconfitta è il risvolto della medaglia di un pensiero comune che scaccia la caducità e la vulnerabilità dall’orizzonte umano, che vieta il fallimento e ci vuole sorridenti e vincitori, persino quando non c’è nulla di cui rallegrarsi, né da imparare o con cui arricchirsi interiormente.

Perdere non significa non avercela messa tutta, né essere responsabili dell’esito negativo: si è sconfitti anche quando si è sfoderata ogni risorsa, ma non abbiamo potuto controllare gli eventi e non ci resta che accettarlo.

L’ombra come la luce, la malattia come la salute, la vittoria come la sconfitta compongono la vita, senza che un lato esista in mancanza del suo rovescio. Parteggiare per un versante rispetto ad un altro è irrilevante se qualsiasi via viene ammessa come tentativo di un’attribuzione di senso: «I modi in cui un essere umano reagisce alla malattia, alla presenza di un cancro nella propria vita, sono (credo) infiniti e tutti legittimi: dalla depressione alla rabbia, dal desiderio di vivere ad ogni costo a quello di spegnersi» (Iaconesi, Persico, 2016, p.127). In quest’ottica, è chiaro pertanto come si possa giungere a respingere, o a non riconoscere, un racconto di malattia in chiave militaristica al pari di uno di impronta quasi agiografica, o ancora ad attingere, per districarsi nell’avversità, a più sfere di comprensione, come la dimensione naturalistica. Lydie Violet, in balia di un tumore, segue quest’ultima strada quando, in La vita salva, di cui è co-autrice con Marie Desplechin, sostiene di non trovare alcun coraggio nel rialzarsi, nulla che spinga a vantarsi, riscontrando piuttosto una capacità di adattamento caratteristica della nostra specie, ma non esclusiva. Questa visione, per niente degradante, non fa che invitarci, semmai, alla possibilità di considerarci tutti primariamente umani e in quanto tali chiamati, prima o poi, a compiere ciò che è in nostro potere per non perdere, semplicemente e momentaneamente, la nostra vita.  

Bibliografia

M. Desplechin, L. Violet, La vita salva, Ponte alle Grazie, Milano, 2005. 

N. Gardini, Io sono salute, Aboca, Sansepolcro, 2023. 

S. Iaconesi, O. Persico, La cura, Codice, Torino, 2016.

M. Sozzi, Non sono il mio tumore, Chiarelettere, Milano, 2019.

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