Navigare il bagnasciuga del fine-vita

Il morire come processo, alla ricerca di un’etica della soglia 

Il pensiero occidentale ha tradizionalmente concepito la morte come l’antitesi della vita e, dall’ontologia aristotelica all’antropologia moderna, il morire è stato associato a un orizzonte in cui la distinzione netta tra ciò che è e ciò che non è fondava la possibilità stessa del sapere e dell’agire: la morte era un evento discreto, un istante collocabile, determinabile, quantificabile. Essa rappresentava una rottura nel tempo, il momento assoluto del passaggio.

In realtà, l’esperienza concreta del morire sfida radicalmente questa costruzione teorica.

Il morire non si lascia circoscrivere in un evento istantaneo, ma si dilata nel tempo, si insinua nella carne e nello spirito precedendo la cessazione delle funzioni vitali e dissolvendo progressivamente l’identità personale prima ancora che si spenga il battito cardiaco e quindi l’attività cerebrale: tra la vita e la morte non vi è un taglio netto, ma una zona di indeterminatezza, un bagnasciuga esistenziale in cui terra e mare si confondono, si toccano, si ritirano anche in funzione delle maree.  

In questa immagine, evocata potentemente dal filosofo Emanuele Severino, si condensa una delle intuizioni più profonde del pensiero contemporaneo del fine-vita:

la necessità di abbandonare l’idea della morte come evento discreto a favore di una comprensione del morire come processo fluido, come soglia attraversata più che come confine varcato.

Severino ci invita a vedere che il nulla non sopraggiunge improvviso, ma si approssima lentamente, come la marea che bagna la sabbia e si ritira senza mai appropriarsene completamente. Questa visione impone una revisione profonda della grammatica morale con cui affrontiamo il fine-vita. L’etimologia di “discreto”, dal latino discretus, “separato”, “distinto”, illumina l’antico valore della discretio, la virtù della prudenza che non solo distingue il bene dal male, ma sa cogliere la misura delle situazioni intermedie, delle condizioni liminari.  

Nel Medioevo, la discretio spirituum era l’arte di discernere gli spiriti buoni da quelli ingannevoli: un’arte difficile, che richiedeva pazienza, attenzione ai dettagli, capacità di riconoscere il vero volto sotto le apparenze. Oggi, nel campo del fine-vita, la discretio vitalis è la capacità di discernere nella gradualità del morire le soglie significative, i passaggi cruciali, senza cedere alla tentazione di semplificare l’ambiguità in decisioni nette e assolutizzanti. Maurizio Mori, rinomato bioeticista laico, insiste nel mettere il trattino tra fine e vita, proprio per significare che sono parole specifiche che indicano un loro oggetto proprio e quindi permettono la categorizzazione per guardare l’esistenza in “inizio-vita, vita, fine-vita e morte”. Si potrebbe dire che nella pratica clinica e bioetica, se il morire è inteso come processo, le decisioni di fine-vita come la sospensione delle terapie, la sedazione palliativa profonda, il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia, non si pongono più necessariamente come violazioni improvvise dell’ordine naturale, ma come atti situati dentro una trama di trasformazione già in atto.

Agire nel fine-vita può allora significare voler accompagnare il movimento della vita verso il suo spegnersi, senza forzarne volontariamente la conclusione né procrastinarne artificialmente il compimento.

Jean-Paul Sartre, ne L’Essere e il Nulla, definiva l’esistenza umana come essere-per-la-morte: non una serie di eventi isolati, ma una tensione continua verso il nulla, che struttura in profondità il nostro modo di essere al mondo: la morte non sopraggiunge come un accidente estrinseco, ma si radica nella costituzione stessa del vivere, come possibilità costante e irriducibile. Oggi occorre ripensare la distinzione tra evento discreto e processo continuo nel morire, interrogando le categorie che ancora regolano il nostro approccio clinico ed etico al fine-vita.  

In realtà, l’idea che la morte sia un evento discreto, localizzabile in un punto preciso del tempo, appartiene, come detto, a una lunga tradizione filosofica e medica che ha concepito la vita e la morte come stati ontologicamente distinti: nella concezione classica, da Aristotele a Cartesio, passando per la medicina ippocratica, la morte segnava il passaggio istantaneo dalla presenza all’assenza, dall’atto vitale all’inanimato. Questo modello, per quanto funzionale in molte pratiche cliniche, si rivela oggi insufficiente a descrivere la complessità fenomenologica e morale dei processi di fine-vita come gli stati vegetativi persistenti, certe malattie neurodegenerative progressive, molte terapie intensive futili e prolungate. Tutti questi scenari mostrano che il confine tra vita e morte non è più facilmente discernibile e il morire appare allora non come un singolo atto, ma effettivamente come un processo lento, disseminato nel tempo, che coinvolge progressivamente le dimensioni biologiche, psicologiche, relazionali e simboliche dell’essere umano: comune è un progressivo disfacimento delle relazioni, delle autonomie, delle capacità narrative che costituiscono l’identità personale, prima ancora che la morte organica si compia.  

Anche Paul Ricoeur, nel suo Soi-même comme un autre, insiste sulla morte come parte integrante della narrazione di sé: non evento isolabile, ma trama che dà forma al vissuto, partecipando fin dall’inizio alla costituzione dell’identità narrativa. Morire, dunque, non è semplicemente cessare di vivere, ma è vivere il proprio morire, attraversare la soglia dove la continuità biografica si sfalda progressivamente. Sul piano bioetico, tale riconfigurazione impone un cambiamento epistemologico radicale perché la valutazione morale delle scelte di fine-vita, come già accennato, dalla sospensione delle terapie, alla sedazione palliativa, al suicidio medicalmente assistito fino all’eutanasia attiva, si inserisce all’interno di un processo di perdita già in atto, che la medicina può accompagnare, alleviare, o, se del caso, se il paziente lo desidera, facilitare responsabilmente. Maurizio Mori insiste su questo punto e scrive: «Nella zona grigia del morire, il compito dell’etica non è difendere in astratto il prolungamento della vita biologica, ma valutare concretamente la qualità esistenziale e il rispetto della dignità del soggetto, soprattutto quando entra in gioco l’agonia, quale processo irreversibile della disintegrazione fisica, soggettiva, estetica e moralmente decorosa: una perdita della coerenza visiva, posturale, relazionale».  

Jean-Luc Nancy osserva appunto che «la morte è ciò che ci sottrae alla forma» con il soggetto che perde riconoscibilità, disgregandosi l’unità tra corpo e volto, parola e sguardo. Emmanuel Levinas ha scritto che «un corpo che soffre senza parola è un corpo che non ha più volto». In ambito bioetico, ma non solo, è doveroso interrogarsi se ogni tempo agonico, laicamente insensato, non debba essere decisamente abbreviato o eliminato. L’accompagnamento clinico richiede comunque discernimento prudente (discretio), capacità di leggere il processo singolare del morire evitando semplificazioni ideologiche.

In definitiva, ripensare il morire come processo continuo restituisce al fine-vita la sua complessità antropologica originaria, anche perché la morte, come il bagnasciuga, è una soglia in movimento, un terreno incerto dove l’etica è chiamata a esercitare la virtù difficile della saggezza,

riconoscendo nella gradualità del “vivere-morendo” il volto più autentico della nostra vulnerabilità e curandone il decoro nella/della transizione.  

In questa prospettiva, il suicidio assistito e l’eutanasia possono essere interpretati come atti di custodia narrativa: gesti che proteggono, fino all’ultimo, la coerenza e la dignità di una biografia che si spegne, non con la brutalità di una interruzione estranea, ma con la delicatezza di una conclusione consapevole. Anche Claudia Gamondi, medico palliativista dell’Ospedale Universitario di Losanna con una solida esperienza accademica e professionale, ritiene che, nei contesti dov’è regolamentato, il suicidio assistito possa rientrare coerentemente nel continuum delle cure palliative, non come alternativa, ma come cura centrata sulla persona. 

La metafora del bagnasciuga, proposta da Emanuele Severino e da Maurizio Mori, si rivela, in definitiva, particolarmente feconda perché restituisce la fluidità e l’ambiguità del confine tra vita e morte, rompendo con l’illusione di un passaggio netto, di una cesura individuabile una volta per tutte: si potrebbe allora parlare di un’etica della soglia, caratterizzata dalla capacità di discernere nella gradualità, di navigare l’incertezza e di riconoscere nella vulnerabilità il tratto fondamentale dell’umano: un tratto distintivo delle nostre Medical Humanities. 

Cosa ne pensi?
Condividi le tue riflessioni
e partecipa al dialogo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Desideri essere aggiornato sulle ultime novità dei Sentieri nelle Medical Humanities o conoscere la data di pubblicazione del prossimo Quaderno? Iscriviti alla nostra Newsletter mensile!

Iscriviti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *