Nel mondo degli uomini di carta

Terre di ghiaccio, terre di fuoco, terre di vento  

Ciliegi in fiore sul far della sera 
anche quest’oggi
è diventato ieri.
Kobayashi Issa (1763-1827)

 

L’esposizione del corpo, nella malattia come nella cura, è la condizione stessa della nostra esistenza.

A partire dalle molteplicità delle sue lingue, dall’enigma, che abita la sua corporeità sospesa tra la materialità ineludibile del soma, l’invisibilità del suo essere teatro dell’anima e la sua esposizione al mondo-della-vita, la Cura incontra una terza dimensione generativa e generata allo stesso tempo dal gesto di cura, quello della “chair”, nell’accezione che ne ha dato Merleau-Ponty, che l’intercorporeità tra curante e curato, rivela. Nelle tante drammaturgie del corpo che la vicenda umana conosce, l’uomo contemporaneo si vede vieppiù impoverito e derubato dall’immaterialità e dalla iper-visibilità, che le tecnoscienze operano sul suo corpo, salvato, guarito, ma anche disperso. Si disegnano qui alcuni paesaggi di questa sparizione-sottrazione orientata verso il “corpo tecnologico” e l’ibrido e il ruolo che le Medical Humanities, come pensiero e come stile, assumono nel suo ritrovamento. 

Il mondo di Vaclav Elias, che incontriamo, pone al bordo di una quotidianità di uomini, che sembrano guardare senza veramente vedere.

Uomini-di-carta, vacillanti, sempre al bordo del Nulla, personaggi, qua e là con qualche prova di colore, che provano a vivere.

Corpi che abitano nel quotidiano, protetti, ma anche inprigionati dal tracimare delle notizie, che li avvolgono. Una quotidianità nella quale fare prova di sopravvivenza, per stare, sostare, fermissimamente e insieme fragilmente. Scrivere di questo lavoro creativo, provando a dialogare con le sue presenze, ci fa visitatori di un solitario mondo sul proscenio del quale vagabondano uomini inerti. Si svela così il cuore segreto di questa creazione, che ci interroga, nell’accadere della bellezza di uomini che cercano una luce. Si odono voci, che sembrano però trattenute e incapaci di trovare le parole di fronte al tempo, che srotola inesorabilmente la sua rete.  

«Anche quest’oggi / è diventato ieri», cosi recita l’antico poeta. Assistiamo, incontrando queste figure di uomini-di-carta sospesi, piegati, vacillanti sul Nulla, una esistenza umana in bilico, quasi cadesse, trattenuta sul bordo di un possibile e imminente disfacimento. Racconti quasi senza storia, frammenti di una vita tutta giocata e da giocare nel presente e nel suo quotidiano. Come ascoltare allora le voci di quei personaggi abbandonati sul fondale del Nulla attraversato da un grido, «a chi parlerò oggi?». Sembra il grido di un uomo disperato, che si trascina solo in un mondo divenuto inospitale, come avviene in molte delle nostre metropoli, con i viaggiatori delle affollate metropolitane, la sera al rientro, solitari insieme al libro, che leggono per non accorgersi dei mondi che stanno loro attorno.  

Solitari e silenziosi, verso qualcosa che non riescono a vedere, errabonde sono le figure umane, che il lavoro creativo di Vaclav Elias ci mostra.

Quante volte udiamo e viviamo questa tragica implorazione, «a chi parlerò oggi?».

Parole dell’uomo dei nostri giorni inquieti, ma prima di lui ad uno sconosciuto egizio, che ci invia questa voce terribile, come fosse un messaggio in una bottiglia, gettata sulle onde del mare della storia più o meno duemila anni prima di Cristo. Ieri come oggi possiamo allora, con Rilke, chiederci, «dove sono i giorni di Tobia / quando uno tra i più raggianti sostò sulla semplice soglia». I personaggi di Vaclav sembrano attendere, che un possibile Angelo giunga e riesca a superare la barriera del Nulla, illuminando la via. E se nessuno fosse più là ad udirmi, come recitano in modo lancinante i versi del poeta e come sembrano so-stare i personaggi che Vaclav mette in scena?  

Una scena in cui si collocano queste solitudini, queste solitarie intimità tra uomo, libro e carta bagnata, una sorta di vestito per evitare il Nulla. Terre del Nulla dell’uomo senza più mondo, di cui scrive Franco La Cecla nel suo Perdersi. Perdersi nello stesso ambiente in cui si vive, senza più casa ove ritrovare la propria identità. Cittadini fatti di carta bagnata, come se non potessero essere altro, che parole bagnate, che dicono tutto e niente in un paesaggio, in cui si è solo «consumatori di domicili parlanti». Troppe le false e fragili parole, che li vestono aspettando bechettianamente l’arrivo di qualcuno, un novello Godot, che li riconosca.  

Mi è sembrato proprio questa la condizione in cui le opere di Elias Vaclav ci attendono. Ma come udire il dolore di uomini-carta, nella inarrestabile scomposizione e ricomposizione del mondo?

La solitudine del sentirsi solo e nel dolore di essere soli, è una delle grandi figure sofferenti della nostra tardo-modernità.

Figura “sfigurata”, dentro il tempo guidato dei miti dell’iper-mobilità, della permanente velocità e della “solarizzazione” di ogni evento, a cui possiamo quasi partecipare visivamente quasi in tempo reale. La solitudine appare allora inquietante e dolente compagna di strada per coloro che più non possono aderire a questo immaginario o a questo programma di esistenza dentro il mondo. Questa è la solitudine di cui sembra parlino le opere di Vaclav e soprattutto i suoi smarriti personaggi dentro un mondo senza più mondo, fatto solo di parole di carta-bagnata senza storia e senza biografie. Chiediamoci allora, da dove giungono e dove vanno quelle figure umane, che sono vagabonde del mondo e nel mondo. Forse giungono solamente dal Nulla, per andare verso il Nulla? Vengono da un mondo in cui basta un colpo di vento, perché la notizia di ieri venga cancellata. Dietro tutte le notizie e i frammenti di carta di cui i personaggi di Vaclav sono coperti, non rimane alla fine, che un grido silenzioso, prigioniero nella gola, quasi inudibile. Non rimane che l’inquietante attesa di ciò che deve arrivare, un tremblement d’esprit, che mette subbuglio nella “casa” della nostra smarrita anima.   

Opera di Elias Vaclav

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