Nella stagione degli addii
Terre di ghiaccio, terre di fuoco e terre di vento
28 Novembre 2024 – Psyché, MorteTempo di lettura: 5 minuti
28 Novembre 2024
Psyché, Morte
Tempo di lettura: 5 minuti
«La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto. Se ascolto, sento i tuoi passi esistere come io esisto. La terra è fatta di cielo. Non ha nido la menzogna. Mai nessuno s’è smarrito. Tutto è verità e passaggio» – Fernando Pessoa.
Vi è un tempo della vita chiamato ad accogliere la Morte;
Vi è un tempo della vita in cui il dialogo con la Morte si fa più ravvicinato, più intenso, più drammatico;
Vi è un tempo della vita in cui le domande dell’uomo si fanno più radicali, più essenziali;
Vi è un tempo della vita in cui lo sguardo si fa più estraniato verso un orizzonte, che si perde sino a smarrirsi;
Vi è un tempo della vita, che gli straordinari versi di Celan ricordano, «nei fiumi, a nord del futuro» in cui «io getto la rete che tu,/indugiando, fermi, con ombre scritte/da pietre»;
Vi è un tempo dell’uomo in cui la radicale invisibilità e l’abisso profondissimo dell’origine si riflette dentro le solitudini della Morte;
Vi è un tempo dell’uomo in cui la fame di amore, di solidarietà, di presenza e di testimonianza da parte dell’altro uomo diviene segno della vita, traccia di una memoria, che non si spegne disumanamente nel nulla;
Vi è un tempo dell’uomo in cui la cura del dolore, il prendersi cura degli affetti, il lavoro attorno al lutto può allontanare la disperazione muta della sofferenza e aprire ad una possibile ultima, serena e quieta stagione della vita.
È di questo tempo che la “stagione degli addii” parla. È di questo tempo il bisogno di trovare l’anima dispersa, ferita per ritrovarla nell’incontro con l’Altro e il suo Altrove. Quale dunque la questione dentro quel «fiume, a nord del futuro», dimora della Morte e del suo abissale abisso? Come «fermare le reti» della memoria «con ombre scritte da pietre»?
È possibile dunque pensare la vita a partire dalla vertigine della Morte? Una domanda che sta radicalmente nel cuore della “stagione degli addii”, che le cure palliative attraversano.
«Se la morte non è pensabile né prima – scrive Vladimir Jankélévitch – né dopo, né durante quando potremo pensarla?» A partire dalla vita? L’occasione deve essere colta, come nelle parole di Padre Turoldo quando scrive «posso rinunciare a tutto, all’incanto dell’alba e alle luci del tramonto, ma non alla coscienza» e ancora «se Dio acconsentirà al perdurare della coscienza e della memoria», allora il poeta può esclamare, «l’accordo è fatto, venga pure la morte».
Pensare la vita allora per ospitare e rappresentare la Morte, con le sue figure, il suo passare e ripassare come l’onda sull’orlo del mare.
Come se da lei potesse discendere la conoscenza della vita stessa. Ma oggi la morte fa scandalo, come fosse “straniera” al mondo. La “stagione degli addii” e le cure palliative assumono e partecipano a queste domande individuali e collettive, leggono in filigrana nel loro dispiegarsi concreto quella sorta di malessere epocale che il nostro tempo storico produce e divengono la prova che è possibile continuare a raccontare la vita proprio a partire dalla morte riconosciuta. Un gesto solenne e tragico insieme, che dà senso umano al morire, che certo abbisogna di una sua “hybris” e di un suo orizzonte etico.
Lo “spazio” delle cure palliative, la loro capacità di risignificare per il soggetto malato una temporalità ferita, che non è più costretta a vagare sola nel buio di un domani impossibile e di un tempo fermato.
Il dispositivo palliativo è la “scena” di questa memoria di sé e di questa auto-biografia ritrovata, di quella nostalgia triste ma anche dolce di vita. La stagione delle cure palliative allora può essere pensata come un tempo in cui poter raccontare la vita a partire proprio da quella “restrizione del tempo”, che la Morte e il morire portano con se. È come se qui si costituisse un terreno ospitale per questo racconto, per il mondo di questa nostalgia sulla vita, sulle “cose” della vita e dalla vita così sino a dentro il ricordo e le figure della propria storia riconosciuta, riconquistata o a volte conquistata per la prima volta: un terreno che è fatto di incontro e di presenze e di assenze, di sdoppiamenti e di riconoscimenti improvvisi, di gesti, di “dono”. La “stagione degli addii” può allora divenire la stagione del ricordo, un tempo non agonico ma aurorale di un nuovo riconoscimento di sé.
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