“Ogni giorno ritrovo il mio domani”
Intervista alla fotografa Margherita Nardi
Nonostante io ne sia un grande appassionato e nonostante la Fondazione Sasso Corbaro abbia sempre dedicato moltissimo spazio all’arte fotografica, riguardando queste mie interviste mensili, mi sono accorto di non aver ancora ospitato un fotografo.
Tu quoque Nicolò!
Volendo rimediare a questa mancanza (della quale chiedo venia soprattutto ai tanti lettori che so condividere con me questa passione) ho subito pensato che la persona ideale per una chiacchierata sull’argomento fosse Margherita Nardi (https://www.margheritanardi.it/). Nardi è un’artista con la quale ho in comune le origini monzesi e che di recente, proprio nella nostra città di provenienza, nell’ambito del Monza Photo Fest, ha esposto un progetto dal titolo molto evocativo: “Ogni giorno ritrovo il mio domani”.
Andiamo direttamente con lei a scoprire di cosa si tratta:
18 Novembre 2024 – Intervista, ArteTempo di lettura: 21 minuti
18 Novembre 2024
Intervista, Arte
Tempo di lettura: 21 minuti
Margherita, che cos’è per te la fotografia?
Per me, la fotografia, è un mezzo di espressione. A un certo punto della mia vita ho deciso di trasformare la mia passione per questa arte in un lavoro perché ho scoperto che, non essendo molto brava con le parole, attraverso le immagini riuscivo a raccontare efficacemente ciò che volevo. L’immagine è diventata lo strumento per esprimere il mio punto di vista sul mondo che mi circonda, per narrare le storie che mi sono vicine. Ho voluto fortemente che questo diventasse una parte importante della mia vita.
Di quale tipo di fotografia ti occupi?
Il mio lavoro si sviluppa su due binari paralleli che cerco, sfidando le leggi della geometria, di far avvicinare, con lo scopo di renderli un unico filone, contraddistinto da una chiara connotazione stilistica personale. Da un lato, la fotografia commerciale: corporate e servizi per privati. Dall’altro, i progetti personali e autoriali, dove si colloca anche quello su “Il Paese Ritrovato”, dal titolo “Ogni giorno ritrovo il mio domani”, che ti ha spinto – mi dicevi – a volermi intervistare e di cui a breve parleremo.
Aggiungo anche, come premessa a quanto diremo di seguito, che io credo sia nella potenza della singola immagine, sia però, ancor di più, nella potenza delle immagini inserite in un racconto fotografico più strutturato.
Parlami di questi progetti autoriali…
Allora, prima di “Ogni giorno ritrovo il mio domani”, progetto autoriale curato da Paola Bertolotti e che ha ricevuto importanti riconoscimenti, tra cui, appunto, la selezione al Monza Photo Fest, ho realizzato “Lineamenti della Natura”, incentrato sul rapporto tra essere umano e natura, “Il Respiro delle Emozioni”, un progetto più introspettivo nato da una storia personale, e “Tutti uguali e diversi da me”, un progetto che parla della necessità di abbattere degli stereotipi in una società che dovrebbe essere sempre più inclusiva.
Ecco, sì, ti direi che io faccio dei progetti abbastanza introspettivi, dei progetti sull’umano e sui rapporti, se volessimo trovare un fil rouge che li lega tra di loro.
Quindi, prima di “Ogni giorno ritrovo il mio domani” ti eri già occupata di umano… ma mai di malattia, giusto?
Giusto. Anche se però, secondo me, la malattia possiamo inserirla in questa mia indagine sull’umano, che dici?
Ah certamente! Ne fa sicuramente parte… non a caso su questa rivista si parla di Medical Humanities. Le discipline umanistiche hanno l’umano al centro della loro indagine e le Medical Humanities altro non sono che una un’inquadratura più stretta – prendo in prestito il tuo gergo – che zooma sugli aspetti più legati alla sofferenza, alla malattia… ma anche all’assistenza, alla cura, alla guarigione, alla bioetica…
Sì, infatti, anche il progetto su “Il Paese Ritrovato” è molto incentrato, oltre che sulla malattia, anche e soprattutto sulle relazioni tra le persone, sugli ospiti che lì abitano. Questa scelta riflette bene il mio approccio alla fotografia: voglio comunicare emozioni, voglio che la fotografia arrivi e scuota gli animi. Ho visto persone uscire piangendo di commozione dalla mia mostra, e questa per me è stata una sensazione bellissima, perché significa che l’emozione che volevo trasmettere è arrivata.
Parlami, a questo punto, de “Il Paese Ritrovato” e del progetto “Ogni giorno ritrovo il mio domani”, della sua genesi.
Il progetto “Ogni giorno ritrovo il mio domani” è nato da una mia proposta alla cooperativa La Meridiana (società cooperativa sociale che gestisce “Il Paese Ritrovato” n.d.i.), con cui ero già in contatto poiché avevo esposto precedentemente da loro “Lineamenti della Natura”.
Ma, prima di tutto, diciamo che cos’è questo “Il Paese Ritrovato”. Sul sito internet (https://cooplameridiana.it/centri_e_servizi/paese-ritrovato/) si trovano queste parole che lo descrivono molto meglio di quanto possa fare io: “Il Paese Ritrovato” è «Un piccolo borgo nel quale le persone, in tutta sicurezza, vivono in appartamenti protetti ma possono muoversi in modo autonomo nella piazza, al caffè, nei negozi ed al cinema, così da condurre una vita normale, compatibilmente con la malattia, sentirsi a casa e ricevere nello stesso tempo le necessarie attenzioni. Un luogo dove le persone con demenza sono libere di scegliere cosa fare del proprio tempo e ritrovano una dimensione di socialità che restituisce valore alla loro vita».
Io l’ho visitato e, sin da subito, sono rimasta colpita dalla straordinarietà del luogo. Così, come dicevo, ho proposto mia sponte (non è stata una commissione, per intenderci) di realizzare un progetto in occasione del mese dell’Alzheimer, che cade a settembre… la cooperativa si è dimostrata entusiasta, ha accettato e mi ha dato carta bianca.
Venendo al progetto artistico, “Ogni giorno ritrovo il mio domani” si caratterizza per una molteplicità di obiettivi. Il più evidente è quello divulgativo: far conoscere “Il Paese Ritrovato” – una realtà davvero unica in Italia – e sensibilizzare sul tema della malattia di Alzheimer. Ma c’è anche un aspetto più personale: quella che ho trattato in questo caso è una tematica a me molto vicina, avendo avuto delle persone malate di Alzheimer in famiglia. Questo progetto mi ha permesso di avvicinarmi a questa realtà de “Il Paese Ritrovato” in modo molto intenso e di affrontare, in questa veste d’artista, l’incontro con persone malate di una patologia degenerativa che avevo in passato già conosciuto ma in maniera differente e con una distanza diversa.
Un altro obiettivo importante è stato quello di offrire una lettura più… passami il termine, “positiva”, di una malattia che genera molta ansia e paura. È stato bello vedere come i famigliari degli ospiti della residenza, venuti a vedere la mostra, abbiano ritrovato nelle mie fotografie tante sensazioni diverse e compreso meglio cosa succede all’interno del “paese”.
Questa è stata la tua prima esperienza artistica in un contesto sociosanitario: cosa ne pensi del binomio arte-malattia?
Io credo moltissimo in questa connessione, in questo rapporto tra arte e malattia. Ci sono molte ricerche sugli effetti positivi che l’arte ha in caso di malattia. Nel mio piccolo, cerco di contribuire utilizzando l’arte anche per creare qualcosa di positivo per chi si trova in una situazione difficile.
Vedi, noi artisti siamo tutti un po’ “iper-sensibili”… con “Ogni giorno ritrovo il mio domani” ho cercato di creare qualcosa di bello anche per i residenti del centro che, vedendo le immagini di cui erano protagonisti, si sono emozionati e io con loro – sia prima, che durante, che dopo la realizzazione. La fotografia è uno stimolo che li aiuta nella loro condizione e di questo risultato sono molto orgogliosa.
Il progetto ha anche generato nuove idee: è nata, per esempio, la voglia di creare un’attività fotografica con i malati, utilizzando una macchina analogica, una fotocamera “dei loro tempi”, per coinvolgerli in un’operazione pratica che potesse dar loro nuovi stimoli.
Quindi l’arte come strumento di indagine?
L’arte come strumento d’indagine, certamente! Beh, l’arte può fungere da complemento alla scienza, offrendo risposte più intime, più profonde, attraverso un approccio diverso da quello del metodo scientifico.
Le fotografie del progetto, per esempio, non sono semplice documentazione, ma diventano un prodotto artistico dal momento che – tramite la tecnica, l’esperienza, lo studio… – cercano di fornire una mia personale interpretazione, una mia visione a chi le osserva e stimolare in lui/lei la ricerca di risposte, delle sue risposte. Per me, l’arte diventa uno strumento per provare a spiegare, a dare un senso a una condizione in cui gli esseri umani si trovano, suscitando in loro emozioni e offrendo, a volte, un po’ di sollievo nelle situazioni dolorose.
Hai accennato alla tecnica… dimmi perché della scelta di scattare a colori.
La scelta del colore deriva dal fatto che “Il Paese Ritrovato” è un posto colorato, pieno di emozioni e di stimoli. Per me, era fondamentale trasmettere queste componenti nel mio racconto, sia fisicamente che metaforicamente. Il villaggio è caratterizzato da colori, geometrie e luci rigorose che anche in maniera molto pratica servono a creare punti di riferimento per i residenti – il bianco e nero avrebbe annullato tutto questo. Poi, anche dal punto di vista emotivo (o almeno, io l’ho vissuto così mentre ci lavoravo) le emozioni sono piene di colore: emozioni positive, negative… tutte le emozioni si esprimono in svariati colori.
Scatti in digitale?
Sì, questo lavoro è stato realizzato principalmente in digitale. Anche se devo dire che mi capita, in altri casi, di sperimentare con diverse tecniche. In passato ho per esempio usato il collage.
Non penso che ci debba essere una scelta definitiva. Gli stili si definiscono col tempo, ma la cosa importante è che ogni decisione del “come fare qualcosa” venga presa in funzione dello specifico progetto che voglio portare avanti.
E a livello compositivo e di soggetto?
La mia scelta stilistica in “Ogni giorno ritrovo il mio domani” è stata quella di fare un racconto che intrecciasse tre elementi fondamentali: scene di contesto, dettagli e ritratti. In realtà, non solo qui, ma più in generale, tutti i miei progetti fotografici sono solitamente narrazioni che alternano al loro interno questi tre elementi – si incrociano continuamente, danno continuità, collidono, si mischiano… Nel caso specifico in “Ogni giorno ritrovo il mio domani”, la narrazione ruota attorno ai pazienti-residenti, ai loro gesti quotidiani e al luogo stesso. Per esempio, la gestualità assume qui un’importanza particolare. È vero, è un altro elemento fondamentale nei miei racconti, ma lo è particolarmente in questo perché i malati di demenza ripetono quotidianamente gli stessi gesti e le stesse azioni. Ho lavorato molto su questo aspetto, sul trasmettere questa ripetitività, questa circolarità che è anche molto fisica, corporea, concreta.
Se guardo le foto di “Ogni giorno ritrovo il mio domani”, a livello di palette di colori, ci vedo tendenzialmente colori tenui, colori che conferiscono un’atmosfera un po’ eterea.
Sì, utilizzo colori molto tenui; non mi piacciono i colori troppo forti, proprio perché la storia è sfumata, piena di nuance. Mi piace raccontare le mie storie in modo molto delicato.
Per me le tue foto sono molto “reali”. Mi sembra, quando le osservo, di trovami nei luoghi dei tuoi scatti, ne sento l’aria, la temperatura, l’umidità…
È esattamente il mio obiettivo. È importante avvicinare il fruitore in modo realistico al luogo degli scatti. Questi colori tenui, queste foto pulite e calde, questo loro fermare il tempo sulla semplicità dei gesti che contengono, aiuta chi le guarda a percepire in maniera vivida le persone, gli oggetti e i luoghi che contengono.
Ci vedo però anche tanta malinconia.
Sì, indubbiamente sono foto che smuovono gli animi: sia gli animi di chi già sa di cosa parlano queste immagini, sia quelli di chi non lo sa in anticipo… credo che chiunque osservi le fotografie del progetto lo riesca subito a percepire che queste persone, nonostante vivano una condizione idilliaca se paragonati ad altri malati d’Alzheimer, hanno sofferto e soffrono.
Non volevo che la gente uscisse felice dopo aver visto la mia mostra. Sarebbe stato un messaggio falso, sbagliato. Ho visto le persone emozionate, toccate dalle fotografie estremamente realistiche del “paese”… è evidente che lì non è tutto rosa e fiori, seppur ci sia il tentativo di lenire, in ogni modo, i sintomi causati dalla demenza.
Alcune fotografie propongono allo spettatore dei cortocircuiti: una signora fuma beatamente, mentre un’altra cammina con la gonna aperta… situazioni che non possono non suscitare emozioni in chi le guarda, date dal paradosso, dall’immedesimazione, dal rivivere momenti – come è successo a me, con la mia esperienza familiare di malattia – dal ricordo… e dalla paura che il ricordo prima o poi se ne vada.
Pensavo che, recentemente, sono stato a una bella mostra al LAC di Lugano di Luigi Ghirri, fotografo che io amo molto… ecco, alcune tue foto richiamano le sue, nei dettagli, nelle geometrie, nella palette. Poi in un’altra, ad esempio, ci ho visto il pittore Hopper.
Sì, allora, Ghirri non sei il primo che me lo dice. Forse mi porto dietro da lui i colori tenui e queste composizioni geometriche, la ricerca del dettaglio… Mentre quella a cui ti riferisci parlando di Hopper è la foto più iconica del progetto: “Memorie” l’ho chiamata.
Nel mio caso però, devo dirti che queste ispirazioni sono molto implicite. Vengon da sé. Sono in una fase della mia professione di grandissimo studio, attingo da tanti fotografi. Inconsapevolmente fotografo ciò che ritengo più vicino a me. Non è un “adesso questo lavoro lo voglio fotografare alla Ghirri”… mi piace prendere libera ispirazione da chi mi colpisce, questo capita.
A volte studio delle immagini che mi piacciono, le disegno, le stampo e le conservo. Fanno parte della mia memoria… poi, magicamente, le ritrovo nelle mie fotografie dopo che ho scattato.
Ho anche cambiato tanto il mio modo di fotografare, ultimamente. Adesso, rispetto a qualche anno fa, scatto meno e scatto in modo molto più consapevole. Investo molto tempo nella costruzione delle relazioni prima di scattare, conoscendo di persona, come ho fatto per esempio per “Ogni giorno ritrovo il mio domani”, i soggetti e l’ambiente. Solo successivamente cerco di trovare l’emozione nello scatto. Prima scattavo di più, con più foga; ora c’è tantissimo lavoro prima di arrivare alla fotografia.
Inoltre, devi sapere che sono una grande appassionata di libri di fotografia. Vedo l’oggetto libro come l’epilogo di ogni mio racconto fotografico e sto lavorando perché anche questo progetto possa diventare un libro d’artista e possa entrare fisicamente nelle case della gente.
Quanto tempo hai dedicato a questo “Ogni giorno ritrovo il mio domani”?
In realtà, poco. Sono stata al Paese Ritrovato una settimana, se intendi il tempo che ho passato a fare le foto.
E cosa facevi lì?
Andavo al mattino e stavo lì tutto il giorno. I ritmi al paese sono molto lenti, è un altro mondo. Entri e abbandoni la frenesia. C’è un flusso diverso, che è stato per me anche un modo di prendermi il tempo per ragionare. Magari parli con una persona per dieci minuti, poi non parli con nessuno per un’ora… Ci sono anche routine molto rigide, legate chiaramente alla malattia e a chi assiste questi malati, ci sono i tempi della cura che vanno rispettati… ma al di là di questi, è la pace, la serenità che regna ovunque nel paese che mi ha colpito. Totalmente l’opposto da ciò a cui siamo abituati. Ecco, questo mi ha fatto riflettere molto.
Visto che è il tuo primo progetto legato alla malattia, hai in mente di farne anche altri? È un tema che ti interessa esplorare?
Attualmente non ho lavori legati alla malattia, sono concentrata su un progetto, sempre legato alle relazioni umane, ma nel mondo dello sport – sport, inteso come luogo di crescita e di emancipazione femminile. Sicuramente vorrò in futuro continuare a indagare la malattia… è stata un’esperienza forte e arricchente. Sì, penso che ci saranno altre opportunità. Nel futuro, però, credo che non mi basterà più solo l’immagine! Ho voglia di aprirmi anche ad altre forme d’arte: al video, al testo… chissà.
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