Ostacoli narrativi e contrasti di voci nella patografia

Un contributo dal primo numero dei Quaderni delle Medical Humanities 

Questo articolo è tratto dal primo numero dei Quaderni delle Medical Humanities, in uscita a giugno 2023. Per maggiori informazioni e per abbonarsi: Quaderni delle Medical Humanities. 

Riflettendo sulla comunicazione della sofferenza in letteratura, si è portati a soffermarsi sulla relazione tra parola scritta e stati di dolore o afflizione nelle narrazioni della malattia, a carattere autobiografico, pubblicate con sempre maggiore frequenza a partire dagli ultimi decenni del Novecento. Questi testi, identificabili come patografie, nascono dal confronto dell’autore con il declino, la vulnerabilità e la perdita, nonché dall’esigenza di rendere partecipe un lettore di quanto si è vissuto: da un lato l’introspezione, l’autoesplorazione; dall’altro, l’atto comunicativo, insito nel procedimento per cui l’intimità dell’esperienza, confluita in un libro, si fa parola pubblica. È sottinteso, pertanto, che chi sceglie di scrivere la storia della propria malattia in una modalità diversa dal diario privato ha in mente di raggiungere l’altro. Così, le patografie si devono a voci motivate ad uscire dall’isolamento, in cerca di legittimazione e riconoscimento, spesso entrando in contatto con coloro che versano in analoghe condizioni.  

Scrivere a partire da un vissuto di sofferenza, dunque, risulta una forma di compensazione e riparazione particolarmente incoraggiata nel contesto attuale, in cui la narrativizzazione è posta in primo piano in diversi ambiti, non ultimo quello della cura. D’altronde, se raccontarsi è costitutivo della psicoterapia, è ugualmente parte integrante di qualsiasi rapporto tra medico e paziente, che la medicina narrativa si impegna a recuperare e rafforzare proprio grazie a un attento uso delle storie che lo alimentano. Sebbene l’enfasi sulla necessità di accogliere e favorire le narrazioni dei malati sia quanto mai necessaria, eccessi di entusiasmo nell’adozione di un simile approccio possono oscurare alcune problematiche inerenti a una sua applicazione indifferenziata. Ad esempio, si rischia di privilegiare la verbalizzazione come mezzo di comunicazione della sofferenza, laddove non solo vi sono persone la cui patologia impedisce questo tipo di esternazione, ma vi sono anche malati che semplicemente non desiderano fare della propria esperienza una storia o preferiscono tenere per sé il dolore ad essa legato. Inoltre, occorre non trascurare l’apporto aggiuntivo di disagio e sconforto che si può accompagnare all’emergere di una voce da una condizione di malattia, senza contare, sul versante della ricezione, l’eventualità che il debilitamento impedisca l’accoglienza di una simile voce. In breve, raccontarsi non è intrinsecamente benefico, così come non lo è porsi in ascolto. Nella dinamica letteraria, ciò equivale ad ammettere che scrivere non per forza lenisce la sofferenza e che la lettura non offre automaticamente uno spazio da cui ogni male è espulso.  

Dotate di grande consapevolezza, le voci della patografia rilevano questi aspetti, a partire dallo sforzo di concentrazione che la scrittura richiede, obbligando a fissare lo sguardo sull’oggetto da cui ci si vorrebbe allontanare. Nancy Mairs, autrice statunitense affetta sin dalla giovinezza da depressione e sclerosi multipla, ha affrontato tali patologie in numerosi testi, senza tacere il costo di una simile impresa letteraria. In Waist-High in the World, traducibile come “dalla vita in su nel mondo” (un riferimento alla posizione assunta dall’autrice sull’indispensabile sedia a rotelle), Mairs riconosce che nulla può farle dimenticare di avere la sclerosi multipla, malgrado qualche distrazione le sia di aiuto. La scrittura, tuttavia, non rientra tra queste, avendo anzi l’effetto opposto, poiché assorbe totalmente l’attenzione di Mairs convogliandola verso il tema prescelto, che nel caso di questo testo è la vita profondamente condizionata dalla disabilità. L’autrice sottolinea, però, di non voler pensare alle difficoltà che la affliggono: se si costringe a farlo, è per chinarsi verso chi si trova completamente destabilizzato da una diagnosi come la sua. Mairs intende dunque condividere la conoscenza, fondata sull’esperienza diretta, di un tragitto già percorso, come spiega menzionando il caso di una ragazza che si è rivolta a lei in cerca di una guida. Tutto quello che l’autrice può fare, in quanto scrittrice, è proprio realizzare un libro, parlando esplicitamente di ciò che significa vivere con la malattia, smentendo i pregiudizi e i miti costruiti attorno ad essa e celebrando i momenti di gioia che continuano a presentarsi. Sono gli stessi principi su cui Mairs ha basato la sua conversazione con la ragazza disorientata, la quale, angosciata dal sospetto di trovarsi di fronte ai primi sintomi della sclerosi multipla, è riuscita a trarre immediato sollievo dall’aperto confronto con una testimone della malattia. Dunque, per Mairs immergersi nella propria condizione, per quanto faticoso e doloroso, ha un’appagante ricompensa sociale.  

Eppure, tra le narrazioni della malattia date alle stampe, la scrittura può essere motivata dall’urgenza di una fine prossima, traducendosi in violento sfogo, denuncia di una sorte crudele, pura voce del dolore, fisico e interiore. Ne è riprova Marte di Fritz Zorn, uscito nel 1977 destando molto clamore, sia per la vicenda dell’autore, morto appena trentenne poco prima della pubblicazione, a causa di un tumore incurabile, sia per la sua analisi impietosa di un’esistenza mancata, segnata dalla depressione e infine dalla patologia oncologica. A turbare il lettore, inoltre, è indubbiamente la veemenza con cui Zorn si dispera e accusa famiglia e società di aver fatto di lui un abulico represso. Scrivere, allora, ai suoi occhi non serve più a nulla, non distanzia dal tormento né lo allieva, ma anzi lo esaspera: 

Qualche tempo fa ho scritto la storia della mia malattia, nella speranza, più o meno chiaramente avvertita, che ricapitolare e riesaminare il mio passato avrebbe potuto aiutarmi a trovare un certo distacco dalla mia sofferenza o addirittura a superarla. È accaduto esattamente il contrario. Da quando ho cominciato a rifletterci più intensamente, la sofferenza che provo di fronte alla mia vicenda umana mi frana addosso con una violenza nuova, con una furia mai prima raggiunta. Scrivere i miei ricordi non mi ha portato pace, ma soltanto ancor più inquietudine e disperazione. (Zorn, 2006, p.159) 

La voce, allora, si fa mera espressione di dolore: 

Spesso ho l’impressione di sentire una spada che lentamente mi affonda giù per la spina dorsale, fino alle ultime vertebre lombari. Quello che mi scuote così non è un brivido, non è il caldo e non è il freddo, non è il cattivo tempo o l’alzarsi presto il mattino. È la sofferenza scoperta, denudata e senza maschera dell’anima che travolge il corpo e lo getta in un abisso di impotente disperazione. […] La mia storia è triste. Ma la scrivo ugualmente; o meglio, la scrivo proprio per questo. Mi sono proposto di scrivere tutto e trovo che sia giusto. Quando si è picchiati, si grida; anche il gridare è in sé irrazionale, non serve a nulla e non ha alcun senso, ma in un certo qual modo ci vuole, fa parte della cosa, è naturale che si risponda alle percosse con delle grida. È giusto, appunto. Per questo è anche giusto che io scriva la mia storia. (ibidem, pp.160-161) 

Considerando invece la fruizione, e non la composizione, dei testi, occorre domandarsi quale tipo di lettura è indicata per far fronte a situazioni di vulnerabilità. Già Virginia Woolf in Sulla malattia sosteneva che, una volta debilitati, non siamo più in grado di seguire l’architettura articolata di un romanzo, mentre la poesia si fa agevolmente strada tra i sensi, tollerando l’assenza di una mente pronta. In tempi recenti, Régine Detambel, biblioterapista, osserva come, in concomitanza con serie avversità, dai lutti alla perdita del lavoro, si interrompa l’attività di lettura, divenuta impraticabile: non solo fonte di evasione e mezzo per dimenticare, essa esige la presenza sana di un lettore, su cui le parole facciano presa. 

Emblematico, in tal senso, è l’eterogeneo insieme di testi che Joan Didion convoca in L’anno del pensiero magico, in cui l’autrice fa i conti con la scomparsa improvvisa del marito, avvenuta mentre la figlia si trova gravemente malata in ospedale. Sconvolta dal duplice trauma, in simili circostanze Didion, malgrado la sua professione, non si affida alla letteratura, ad esclusione di alcune poesie, confermando l’intuizione di Woolf. In ogni caso, l’autrice non cerca conforto tra le pagine a cui si rivolge, bensì informazioni e modelli di comportamento, per acquisire (illusoriamente) controllo su quanto le sta accadendo. Scartando il rispecchiamento in romanzi o memoir su vicende analoghe alla sua, Didion opta per saggi e studi specialistici di carattere scientifico, per dare una spiegazione e un nome agli stati di cui è preda, passando da Freud agli articoli di The Lancet o del British Medical Journal. L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi di Philippe Ariès, che riporta l’occultamento del lutto nell’Occidente contemporaneo, è per Didion un ulteriore testo di riferimento, così come, inaspettatamente, il Galateo del 1922 di Emily Post, capace di cogliere, con perspicacia e senso pratico, gli scombussolamenti anche fisici a cui il dolente è soggetto.  

Scritture e letture radicate nella propria esperienza di sofferenza generano configurazioni, reazioni e interpretazioni di diverso genere, con motivazioni ed esiti altrettanto differenziati, di cui la galassia patografica offre un ricco repertorio. Al suo interno, il binomio letteratura (prodotta e fruita) e sofferenza viene problematizzato e difficilmente pacificato assegnando alla prima il potere di agire automaticamente in maniera benefica sulla seconda. Resta indubbio, tuttavia, che la patografia esalta la soggettività di voci che rispondono in modo personale alla fragilità, immancabile e inestinguibile, della vita umana. Una individualità che un approccio narrativo alla cura non può sottostimare, una varietà di voci in cui inevitabilmente ci si imbatte nel prestare ascolto. 

2 pensieri su “Ostacoli narrativi e contrasti di voci nella patografia

  1. Fitspresso review dice:

    I feel that is one of the so much significant information for me. And i’m glad studying your article. But want to observation on few basic things, The web site taste is wonderful, the articles is really nice : D. Just right process, cheers

  2. Erec prime review dice:

    hello!,I like your writing so a lot! proportion we communicate extra approximately your article on AOL? I need an expert in this space to solve my problem. Maybe that’s you! Looking ahead to look you.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *