Ozio e tempo
Riflessione su ozio, tempo e società contemporanea
5 Febbraio 2024 – I MercoledìTempo di lettura: 8 minuti
5 Febbraio 2024
I Mercoledì,
Tempo di lettura: 8 minuti
Una speculazione che voglia dirsi umana, ovvero legata a quei valori dell’humanitas che pure animano l’associazione “Medical Humanities”, non può non operare una riflessione sul tema del tempo. Tempo che ovviamente assume diversi significati a seconda dell’angolatura dalla quale guardiamo ad esso; tempo che, tutto sommato, è frutto di una costruzione mentale e in un certo senso non esiste.
Come una mostra che recentemente ha chiuso i battenti alla Kunsthaus di Zurigo ha avuto il merito di sottolineare, prima di tutto occorre interrogarsi – e non saremmo mai sazi di farlo – sul “Deep Time”, il tempo geologico, che affonda le radici nel Big Bang, ovvero nel “grande inizio” che in fondo caratterizza tutte le narrazioni sulle origini della vita, un evento potente in grado di dare avvio all’elemento minerario da cui poi nasce la biologia. Già i Greci si interrogavano su questo inizio, asciugandolo da ogni narrazione e indagando sul concetto. Anassimandro, per esempio, giunge davanti all’impasse di un materiale di partenza che se indeterminato (quindi coincidente pressappoco con il nulla) non potrebbe dare vita al determinato; se determinato, quindi definito da una serie di limiti, circoscritto, non potrebbe generare la grande varietà di fenomeni esistenti. Come può l’Uno dare vita alla molteplicità? Questa l’ossessione dei primi filosofi greci, gli Jonici, da Talete ad Anassimandro; una domanda che non ottiene, alla fine, nessuna risposta soddisfacente. Il mistero di fronte a questi eventi è fitto: forse in alcune situazioni limite, dove la vita è messa a confronto con il puro elemento macchinico di sopravvivenza, possiamo sentire la potenza, la forza centripeta e centrifuga di questo momento.
La mostra di Zurigo andava avanti soffermandosi sul tempo politico e su quello economico. Prima di arrivare a queste riflessioni vorrei aggiungere che c’è un tempo biologico legato alla propria nascita, un interrogativo pressante, perché, anche se le cose ci pre- e post- esistono, il nostro noi ha un significato e un’implicazione tali da occupare in alcuni e generosi momenti tutto il palcoscenico della riflessione. Perché siamo nati? Cosa eravamo prima di nascere? E cosa saremo dopo? Entro queste due parentesi, che sono due limiti di pietra, si gioca tutto il significato del tempo e – se è vero che esiste un tempo sentimentale, relativo, se il tempo in un certo senso si piega e si adatta con la flessibilità di un danzatore (la danza non è forse un dialogo profondo con il tema del tempo?) ai nostri stati emotivi – non ci stupiamo della rilevanza che questa riflessione assume nel corso di un’intera esistenza.
Per quanto riguarda il tempo economico e politico, mi piace porre l’accento sul significato della parola ozio, un termine che sappiamo appartenere alla cultura latina, la quale stabiliva un tempo per il negotium e un tempo per l’otium, che non possedeva quelle connotazioni negative che assume oggi, anzi era letto come spazio per lo studio, la riflessione, il contatto con se stessi. Addirittura, come suggerisce più avanti Machiavelli nella famosa epistola a Vettori, ci si cambia d’abito per accedere a quello spazio privilegiato di riflessione e disamina, di speculazione ma anche di rapporto con se stessi:
«Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro».
(È un passaggio tratto dalla più famosa lettera di Machiavelli, scritta il 10 dicembre 1513 all’amico Francesco Vettori, ambasciatore a Roma presso Leone X, dal suo forzato ritiro all’Albergaccio dopo il presunto coinvolgimento nella congiura anti-medicea di quello stesso anno).
I latini, sul cui concetto di otium Machiavelli si sofferma, possedevano una saggezza alla quale attingere ancora oggi. È anche vero che ai tempi la società era organizzata in rigide divisioni di casta, e solo i ceti più abbienti avevano i mezzi per disporre di questo spazio vuoto. Per gli altri c’erano i circenses, potente arma di distrazione di massa. E oggi? Non sono i social network equiparabili ai giochi equestri? Attraverso la parvenza di essere uno spazio di libertà e di otium, di tempo vuoto, i social network sono in realtà coloro che subdolamente – in quanto invisibilmente – distruggono l’oggetto di una delle lotte più difficili del secolo scorso, quella che voleva conquistare un orario di lavoro meno serrato, in modo che tutte le classi, non sono quelle privilegiate, potessero accedere a un tempo di riposo, di quiete e di cultura.
I social pretendono un lavoro continuo per produrre i contenuti di una piattaforma che ha come unico scopo – questo è ormai assodato – la vendita di dati sensibili alle aziende che possono così arrivare ai potenziali acquirenti delle merci proposte. Non a caso uno dei filosofi più attenti alle dinamiche contemporanee della società, il coreano Byung-Chul Han, parla di società della stanchezza; gli fanno eco Andrea Colamedici e Maura Gancitano nel parlare, invece, di “società della performance”, nei termini di una società dove l’apparire coincide con l’esistere e questo apparire trova il suo corrispettivo nelle performance quotidiane che facciamo attraverso i nostri canali Facebook, Instagram, Tik Tok. Tutto bene finché le nostre performance raccolgono visibilità e soldi. Basta però una sola performance negativa a far crollare l’edificio, basato su fondamenta di creta. I casi di Chiara Ferragni, prima, e Selvaggia Lucarelli poi, sono lì a dimostrarlo. A dimostrare che una certa gloria è transeunte e conviene parlare solo con i fantasmi.
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