Post Scriptum (2025) – Parte 4

Dipendenza e onnipotenza 

La terza parte di questo articolo è consultabile qui.   

È del tutto plausibile, infatti, ritenere, come ci inducono a fare le considerazioni di Freud, che l’idea di Dio attinga geneticamente all’esperienza di ogni essere umano che da bambino ha vissuto un rapporto di profonda dipendenza dal padre, ed io aggiungerei anche e soprattutto dalla madre. Queste osservazioni connettono l’esperienza spirituale di ogni uomo con la sua condizione iniziale di impotenza e con la sua natura definitivamente caduca.  

Bion afferma che la prima paura dell’infante è quella di morire [1]. Ciò non autorizza beninteso un ingenuo riduzionismo della esperienza spirituale ad una esperienza infantile.

Semmai ci ricorda come il primo bisogno di ogni essere umano è quello di una sicura protezione e cura.

Conseguentemente Freud stesso afferma ne L’Avvenire di una Illusione che la scienza non avrebbe nulla da obiettare ad un’idea di un Dio misterioso, lontano, addirittura per sua natura inconoscibile, che non significa che l’esperienza spirituale, tra cui la riflessione sul concetto di Dio, sia impossibile e inutile. Anzi, credo che mai come ora il lavoro psicoanalitico sia divenuto consapevole di questo Sense of Immortality, come lo chiama Jay Lifton [2]. La paura di morire è riconosciuta al centro delle ansietà degli esseri umani anche da Harold Searles [3]. Ciò ci potrebbe aiutare a capire le motivazioni più profonde che spingono il governo israeliano sulla strada di micidiali rappresaglie, nel tentativo per sua natura vano di allontanare la minaccia della morte. Cancellare tutti i nemici mortiferi. Oppure riconoscersi caduchi come tutti gli altri uomini, e promuovere istanze e istituti di pacifica convivenza nella solidarietà. 

È da questo punto di vista che possiamo dunque riflettere sul rapporto della religiosità ebraica con la storia del popolo ebraico, e sulla natura della Spiritualità ebraica, della Spiritualità occidentale, se non addirittura della Spiritualità in generale, autorizzati forse in ciò dall’enorme interesse che la psicoanalisi nutre per il concetto di Sublimazione. Freud aveva progettato di scrivere un saggio sulla Sublimazione, cosa che non fece mai. Certamente Freud vedeva nella Sublimazione, nella Spiritualità, il fine misterioso ed inquietante della Civilizzazione. La Sublimazione come Jenseits dell’istintualità [4]. 

Al tempo del tramonto del monoteismo di Akenaton, un dignitario egiziano tentò di salvaguardare questa acquisizione spirituale in cui credeva, e forse scelse un gruppo di persone che avessero qualche affinità con questa idea, e che fossero desiderosi di liberarsi della oppressione egizia, non solo in termini materiali, ma appunto anche spirituali. Questo dignitario si chiamava Mosè, questo gruppo di persone erano gli Ebrei, eredi di Giuseppe e dei suoi fratelli e quindi dei Patriarchi, da molte generazioni ridotti in schiavitù dagli Egizi. Certamente il popolo ebraico custodiva una tradizione abramitica, di cui non si poteva dire che fosse genuinamente monoteistica. Infatti, come si legge nella Bibbia, piuttosto si parla di un Dio più forte di altri dèi e dotato di caratteri che tendono alla spiritualità. Sono le due caratteristiche che tendono a definire la religiosità ebraica, che si muove tra una dimensione aggressiva, guerresca, spietata e conquistatrice ed un’altra più interiore, spirituale e centrata piuttosto sulla riflessione etica, potremmo dire sulla misericordia. 

Devo dunque ripetere e sottolineare che la natura di Dio è da questo punto di vista in continua evoluzione, o involuzione. È importante ritenere che la Bibbia in questa ottica sia davvero una 

rivelazione, ma essenzialmente una rivelazione all’uomo della propria spiritualità, di cui il concetto di Dio è il nucleo dinamico, e dunque al servizio della comprensione della natura umana, proprio quello che è l’aspirazione ed il fine della Psicoanalisi. L’uomo come creatura, e creatura dotata di bisogni, quindi relazionale, e creatura finita, quindi confrontata col mistero delle origini e del destino. Il conflitto tra aggressività e spiritualità nella religione ebraica è quello di cui siamo tuttora testimoni, e di cui la Bibbia cerca una soluzione, ed in particolare il Nuovo Testamento prova a formulare una possibile soluzione. 

Freud afferma che alle porte della Terra Promessa il popolo ebraico uccise il suo profeta e guida Mosè.

Non è irragionevole pensare che questo popolo fosse gravato di un compito arduo se non impossibile, quello di farsi portatore della spiritualità, cioè della rinuncia all’immediato soddisfacimento istintuale, del prevalere della riflessione sull’impulso, della costruzione di un’etica fondata esclusivamente su ragioni morali, oggi noi diremmo sulla elaborazione della posizione depressiva. Quest’ultima si caratterizza del riconoscimento dell’altro come individuo separato e vulnerabile, ed in tutto portatore di diritti e di doveri come noi stessi, quindi sulla identificazione empatica, ma basata sul riconoscimento della separatezza, quella che Leo Stone chiama la Intimità nella Separatezza [5], e, last but not least, del riconoscimento e della elaborazione della colpa, anche nella sua versione di sentimento di colpa. 

Indubbiamente la storia del popolo ebraico è caratterizzata da una grande difficoltà a riconoscersi uguale ad ogni altro popolo, da un lato nel tentativo di salvaguardare la propria tradizione spirituale, e dall’altro in una sorta di riottosità ad accettare l’universalità del messaggio biblico, basato nella sua natura più profonda sulla fratellanza di tutti gli esseri umani. Questo impulso alla solidale fraternità ha trovato fin dalle sue origini un ostacolo nella rivalità fraterna, addirittura potenzialmente alimentata dalla parzialità delle figure genitoriali, che nella stessa Bibbia assumono le caratteristiche di un Dio che predilige i sacrifici di Abele, pastore di greggi, a danno di quelli di Caino, agricoltore. Un genitore dunque parziale, che alimenta la rivalità, la gelosia e l’invidia fraterna, che alla fine induce il fratricidio. Questa è anche forse la filigrana delle vicende politiche attuali a cui assistiamo: un conflitto tra popoli naturalmente fratelli, che condividono storicamente i medesimi luoghi di vita, ma che si riconoscono soltanto nelle rispettive e contrapposte ansietà schizoparanoidi. 

Freud sostiene acutamente che il diniego (e/o la rimozione) dell’assassinio di Mosè, nella sua versione spiritualistica aggiungo io, ha portato il popolo ebraico al diniego della verità storica ed alla repressione della colpa, ed all’uso patologico della scissione tra spiritualità sconfessata nella sostanza e aggressività idealizzata nella versione di una elezione divina e di una difesa della propria unicità, ed ora come altre volte della propria sopravvivenza. Insomma, rifiuto dell’universalità della condizione umana, e distorsione del senso di colpa (sanno di essere in colpa, ma non sanno di che cosa sono colpevoli) che conduce inevitabilmente alle difese maniacali, che ritroviamo nel governo israeliano, e a quelle depressivo-melanconiche tipiche dell’ebreo esule e dovunque perseguitato. È poi evidente il tessuto persecutorio di entrambe le soluzioni. Di qui nasce il curioso mix di carnefice e vittima che caratterizza la figura dell’ebreo non solo da oggi. Ma è il dilemma tra innocenza e colpa che si rinnova nella coscienza ebraica, e nel giudizio dei Gentili fino al disastroso antisemitismo, teatro di sadismo e masochismo. Il popolo ebraico diviene cioè capro espiatorio, mentre il conflitto tra innocenza e colpa è dotazione di ogni essere umano. 

Riferimenti

[1] W. Bion, Elementi di Psicoanalisi, Astrolabio, 2021. 

[2] J. Lifton, The Sense of Immortality, American J. Psychoanal., 1973, 33, 1. 

[3] H. Searles, La Schizofrenia e la Ineluttabilità della morte, in Scritti sulla schizofrenia, Boringhieri, 1974. 

[4] S. Freud, Al di là del Principio del Piacere, Boringhieri, 1976. 

[5] L. Stone, La situazione psicoanalitica, Piccin, 1986. 

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